Recensione a: Fabio Perocco e Francesca Rosignoli, Razzismo, Ambiente, Salute. Razzismo ambientale e disuguaglianze di salute, numero speciale «Socioscapes», 3(1), 2022 (scheda volume)
Scritto da Giorgio Pirina
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Viviamo un’epoca caratterizzata dalla necessità di una transizione energetica – in verità, una necessità resa tale non tanto dalla consapevolezza delle classi dirigenti dei rischi del cambiamento climatico, quanto più dalle contingenze emerse in seguito alla pandemia di Covid-19 e alla guerra in Ucraina –, un’epoca in cui il termine “sostenibilità” è diventato un mantra per scelte politiche ed economiche, con il rischio di renderlo un contenitore privo di contenuto. In questo contesto, negli ultimi anni i conflitti ambientali si sono moltiplicati, col fine di denunciare la miopia delle politiche di mitigazione e contrasto al cambiamento climatico da parte delle autorità politiche a livello locale, nazionale e sovranazionale. Ma il tema delle disuguaglianze ambientali e della detossificazione del pianeta non è nuovo: le sue radici si rintracciano nel corso del Novecento con i movimenti per la giustizia ambientale (environmental justice movement) e i movimenti antitossici (anti-toxic movement), i quali già negli anni Settanta hanno iniziato a tratteggiare linee di continuità tra la questione dell’impronta antropica sugli ecosistemi terrestri e il “razzismo ambientale”[1]. Più in particolare, quest’ultima espressione – coniata dal reverendo e leader per i diritti civili Benjamin Chavis – si propone di cogliere le forme di discriminazione di tipo razziale nelle decisioni politiche legate all’ambiente, per cui ad esempio le aree in cui vivono le comunità di colore e le minoranze etniche sono bersaglio di localizzazioni di siti produttivi tossici[2]. È da questo retroterra che originano espressioni come “zone di sacrificio” (sacrifice zone), vale a dire aree in cui si concretizza il ricatto ambiente-lavoro, per cui scelte industriali, disinvestimenti e inquinamento dovuto ai processi produttivi alterano in maniera duratura l’ambiente naturale e la salute umana. Gli Stati Uniti, per via della forte miscela di razzismo e colonialismo, sono stati tra i principali centri gravitazionali di queste mobilitazioni, le quali sono via via germogliate in altri contesti territoriali. La presa d’atto dell’urgenza di agire è stata anche recepita recentemente da organismi istituzionali sovranazionali. Ad esempio, la risoluzione 48/13 del 2021 del Consiglio per i diritti umani dell’ONU ha riconosciuto per la prima volta a livello globale il diritto umano a un ambiente pulito, salubre e sostenibile, sostenendo in un successivo report la necessità di integrare nelle costituzioni nazionali, nelle legislazioni e nei trattati regionali sui diritti umani il diritto a un ambiente non tossico[3].
Il numero speciale Razzismo, Ambiente, Salute. Razzismo ambientale e disuguaglianze di salute, curato da Fabio Perocco e Francesca Rosignoli per la rivista Socioscapes, scaricabile gratuitamente qui, affronta i temi poc’anzi delineati. Si tratta di una pubblicazione importante, per diversi motivi. Il primo è legato, ça va sans dire, all’estrema attualità del tema affrontato, cioè il razzismo ambientale, il quale «intreccia tre grandi questioni sociali del nostro tempo: la questione razziale, la questione ambientale (dall’urbanistica all’estrattivismo), la questione della salute pubblica» (p. 8). Il razzismo ambientale è definito dai curatori come «la disuguaglianza ambientale legata al fattore razziale o caratterizzata da una dimensione razziale», che costituisce un fenomeno totale poiché «rimanda alla storia e alla struttura di una data società, rimanda al sistema dei rapporti sociali di produzione, di razza, di genere» (p. 8). Gli ultimi anni hanno testimoniato le crescenti criticità derivanti dalla logica predatoria del capitalismo, nelle sue varie declinazioni. La recente pandemia di Covid-19 ha reso esplicite tali criticità, così come le faglie di classe, di genere e di razza lungo le quali si muovono. Di più: se prima della pandemia crisi ambientali, antropizzazione e urbanizzazione planetaria, sviluppo industriale senza fine in un sistema finito, impatti sulla salute e crisi sanitarie erano tendenzialmente visti come ambiti distinti – o perlomeno la loro relazione era messa tra parentesi – oggi la loro interrelazione è conclamata (al netto dei vari negazionisti). In questo senso i curatori parlano di era eco-pan-sindemica, caratterizzata da conseguenze letali derivanti dalla combinazione di razzismo ambientale, pandemia e crisi ecologico-sociale.
Il secondo motivo di rilevanza del numero speciale Razzismo, Ambiente, Salute consiste nel fatto che leggerlo equivale ad indossare più lenti contemporaneamente, poiché fondato su un approccio ampio, aperto, multi-situato. Il lavoro spazia dal Brasile all’Italia, passando per gli Stati Uniti e il Sud Africa, intrecciando le tematiche dell’agrobusiness, dell’estrazione mineraria, della contaminazione chimica e l’impatto negativo differenziale sui sistemi socioeconomici locali. Questo lavoro esamina altresì le forme di resistenza e mobilitazione della società civile e le contraddizioni di un certo environmental privilege, vale a dire il privilegio di pochi (in genere bianchi e benestanti) di poter vivere in ambienti salubri e sostenibili. Ne risulta così una matrice che rappresenta le coordinate del capitalismo eco-pan-sindemico e le faglie di disuguaglianza sulle quali si erge.
Il lavoro colleziona una serie di casi apparentemente distanti, ma legati da un filo rosso: la scelta operata dai curatori nella selezione dei contributi tratteggia le traiettorie delle disuguaglianze prese in esame, le quali si muovono sui solchi storici del razzismo (e, dunque, della linea del colore), delle differenze di genere, della classe di appartenenza, dell’area geografica di provenienza, sia essa un quartiere periferico di una città industriale, oppure un’area extraurbana in cui insistono miniere e altre attività produttive altamente degradanti per l’ambiente e la salute umana. Detto in altri termini, essere poveri, donne, di colore ed essere parte di una comunità o gruppo marginalizzato può comportare, soprattutto in Paesi marcati da altissime disparità, un’ulteriore segregazione ambientale con ricadute negative anche sulla salute. Quest’elemento è espresso con forza se si analizza, ad esempio, la produzione di sostanze tossiche industriali e la loro distribuzione diseguale nel territorio statunitense: «Gli impianti “tossici” tendono ad essere collocati presso comunità particolarmente vulnerabili piuttosto che il contrario, come prevede l’ipotesi del trasferimento delle comunità presso aree degradate. Queste comunità erano sistematicamente selezionate per la collocazione di impianti pericolosi» (p. 42). Si tratta di una presa d’atto della persistenza nelle scelte politiche del razzismo e di forme di discriminazione basate sullo status socioeconomico: infatti, non si tratta di una situazione per cui i più bassi costi di vita derivanti dall’insistenza sul territorio di processi produttivi tossici fungono da forza centripeta. Al contrario, i territori in cui sono presenti comunità marginalizzate o vulnerabili sono il bersaglio di queste scelte.
Il numero speciale, quindi, si aggancia ad un tema di rilevanza e portata internazionale – come testimoniato dalla varietà di luoghi considerati e contributi raccolti – e lo porta in Italia, arricchendo così uno spazio di riflessione finora poco esplorato. Sebbene in Italia la disuguaglianza o ingiustizia ambientale tendenzialmente non si basi su una dimensione razziale, è altrettanto vero che essa segue le traiettorie di classe e genere. A tal proposito, il numero speciale ospita un capitolo dedicato al contesto italiano, in cui gli autori applicano il concetto di environmental justice e propongono un indice composito per esplorare la sproporzionata esposizione di certi gruppi di persone all’inquinamento, al rischio ambientale e alle politiche ambientali. In questo quadro è importante rilevare come il Consiglio per i diritti umani dell’ONU nel 2022, nel già citato report The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment, abbia formalmente incluso tra le sacrifice zone l’acciaieria ex Ilva di Taranto, evidenziando come gli abitanti delle aree in cui insiste l’impianto industriale soffrano in maniera eccessiva di malattie respiratorie, cardiache, neoplasie, con conseguente mortalità prematura. Tuttavia, non siamo di fronte ad una livella, per cui la diffusione di patologie correlate ad attività produttive ad alto impatto ambientale colpisce in egual misura tutta la popolazione; al contrario lo status socioeconomico riveste un ruolo di primo piano: chi viene da una condizione socioeconomica più precaria e marginale tende ad essere maggiormente afflitto. Si delinea così il legame sempre più stringente tra la questione della salute pubblica e l’inquinamento ambientale.
Un ulteriore motivo per cui questo numero speciale è importante è dato dal fatto che, nel momento in cui analizza le disuguaglianze, traspare – pur senza venire nominato espressamente – il tema della complessità che connatura il razzismo e l’ingiustizia ambientale. Complessità data dal tenere assieme nodi apparentemente lontani – razzismo, inquinamento ambientale, salute pubblica – che riguardano, più o meno direttamente, anche la vita quotidiana e che converge in quella che Edgar Morin ha definito come policrisi[4]. Con essa si devono confrontare la politica e le scelte di investimento, le quali però paiono cieche verso le zone di sacrificio “verde”, che diventano il bersaglio di investimenti produttivi nocivi volti ad ottenere e sfruttare le risorse umane e ambientali necessarie alla transizione. Tale cecità rischia di alimentare ulteriormente il privilegio ambientale dei pochi che possono permettersi di vivere in ambienti salubri.
In conclusione, Razzismo, Ambiente, Salute arricchisce uno spazio di riflessione su una tema più che mai attuale e delinea una matrice data dagli incroci letali di razzismo ambientale, pandemia e crisi ecologico-sociale. Pur concentrandosi prevalentemente sulle conseguenze sulla salute delle popolazioni di colore, il lavoro curato da Fabio Perocco e Francesca Rosignoli offre delle lenti che permettono di cogliere alcune delle contraddizioni centrali del tempo in cui viviamo. Spesso queste ultime sono celate da discorsi dominanti e dalla logica emergenziale che governa la transizione energetica, estromettendo l’altra parte della luna, cioè senza tenere in debita considerazione il punto di vista delle comunità locali, delle categorie marginalizzate e dei gruppi “lasciati indietro”.
[1] Eileen McGurty, From NIMBY to Civil Rights. The Origins of the Environmental Justice Movement, «Environmental History», 2(3), (1997), pp. 301-323.
[2] Laura Pulido, A Critical Review of the Methodology of Environmental Racism Research, «Antipode», 28(2), (1996), pp. 142-159.
[3] UN-HRC, The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment. Report of the Special Rapporteur on the issue of human rights obligations relating to the enjoyment of a safe, clean, healthy and sustainable environment, 12 gennaio 2022.
[4] Edgar Morin, Homeland Earth. A manifesto for the New Millennium, Hampton Press, New York 1999.