Realpolitik: un estratto dal libro di Giampiero Massolo e Francesco Bechis
- 23 Giugno 2024

Realpolitik: un estratto dal libro di Giampiero Massolo e Francesco Bechis

Scritto da Giampiero Massolo, Francesco Bechis

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In Realpolitik. Il disordine mondiale e le minacce per l’Italia Giampiero Massolo e Francesco Bechis analizzano i mutamenti dello scacchiere mondiale e il ruolo internazionale dell’Italia, tra le tante crisi che segnano il presente e le minacce che si delineano nel futuro. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione degli autori e dell’editore Solferino, un estratto del testo.


Alla ricerca dell’Europa

È comodo attutire il frastuono dei conflitti, allontanarne le implicazioni, quando si rischia di pagare un prezzo elevato per affrontarli, che sia in termini finanziari o di consenso. Si ha così spesso l’impressione che l’Europa non ci sia, almeno non come soggetto autonomo, diverso dalla sommatoria dei suoi Stati membri. Un interesse europeo stenta a definirsi. E quelli nazionali non sempre coincidono. Intendiamoci: è difficile pretendere molto di più da un gruppo di nazioni che hanno dato vita a una straordinaria entità sovranazionale, salvo interromperne l’evoluzione sul più bello, limitandola a una confederazione, ben lontana dall’ambizione federale dei padri fondatori. Che piaccia o no, in un simile assetto, l’Unione Europea alcune competenze semplicemente non le possiede. E per avanzare è costretta spesso a vere e proprie acrobazie istituzionali. Cammina sulle gambe degli Stati, ostaggio delle loro decisioni all’unanimità. Spesso ce ne accorgiamo, sulla nostra pelle, nella gestione dei flussi migratori. La domanda, casomai, è se questo stato di cose sia sufficiente per affrontare un mondo fatto di alleanze sempre più vulnerabili agli umori degli elettorati, di potenze disinvolte, di giochi a tutto campo, di minacce ogni momento più sofisticate, di transizioni costosissime. In ultima analisi, di capacità di assumersi responsabilità autonome.

 

Un brusco risveglio

Ai più, questo interrogativo suonerà retorico. Nell’UE a 27 del dopo-Brexit, invece – malgrado la fine dell’anomalia britannica, troppo spesso usata a pretesto per rallentare l’integrazione –, lo stare al mondo si traduce ancora prevalentemente nella difesa coriacea e a tratti un po’ dogmatica dei singoli interessi nazionali. Ora che il disimpegno americano e le sfide di Russia e Cina imporrebbero all’Europa di proiettare potenza e di assumere un ruolo come blocco, di rafforzare l’autonomia strategica in settori chiave come la difesa, l’innovazione e il digitale, l’energia, succede l’opposto. Sono piuttosto gli Stati membri, alcuni più di altri, a servirsi dell’Unione per aumentare il loro peso nazionale e la loro proiezione esterna, in sostanza a sovrapporre il proprio interesse nazionale all’interesse europeo. Il risultato è lo stallo. Il rischio concreto, spesso confermato dai fatti, è l’irrilevanza dell’Europa nel suo complesso sullo scenario globale.

Questa visione riduttiva, molto identitaria ed eccessivamente pragmatica, finisce per muovere tutti i grandi Paesi europei. A partire da Francia e Germania: la prima mai paga di iniziative assertive in politica estera che lasciano spesso al palo l’Europa; la seconda pronta a usare i suoi ampi margini di bilancio per sostenere oltre misura il proprio sistema economico, con buona pace della concorrenza. Insieme, danno priorità a intese bilaterali non sempre rispettose del metodo comunitario, che mettono gli altri Stati di fronte al fatto compiuto. È successo di nuovo a fine 2023, davanti alla sfida epocale di rinnovare il Patto di stabilità e scrivere di comune accordo le regole del gioco per il prossimo decennio.

È un metodo che persiste, nonostante tutto, favorito anche dalla bolla nella quale per molto tempo si è cullata l’Europa. Quel triplice sogno dell’era merkeliana, già più volte ricordato e ormai tramontato, di garantire la resilienza del continente, delegando la sicurezza agli americani, le forniture energetiche ai russi, i mercati ai cinesi. Ci sono voluti due traumi profondi per far scoppiare la bolla, per realizzare che l’Europa non è esente dalle turbolenze del caos mondiale. Uno dei traumi ha portato a una reazione positiva. L’altro, ancora non del tutto.

Il primo, la pandemia del Covid-19, ha trovato, paradossalmente, proprio grazie alla leadership di Angela Merkel un esito insperato. Beninteso, la strategia degli acquisti in comune dei vaccini e soprattutto la svolta del piano Next Generation EU – il via libera della Germania alla messa in comune del debito per arginare i danni della pandemia, accantonando pro tempore l’era del rigorismo fiscale – non sono stati frutto della liberalità della cancelliera, ma della constatazione che i primi a non farcela, senza mettere da parte gli egoismi, sarebbero stati proprio i tedeschi. Si aggiungeva il timore che un complesso disordinato di misure nazionali avrebbe finito per compromettere l’integrità del mercato unico europeo, del quale la Germania è massimamente beneficiaria. A scanso di equivoci, nell’approvare il piano, si mette bene in chiaro che si tratta di un one-off, di un’eccezione. Ma l’effetto è comunque positivo. Le opinioni pubbliche riprendono fiducia in un’Europa che sentono più efficace e vicina. Un’Unione che punta sulla solidarietà e le aperture per continuare a crescere, malgrado la pandemia. Un contrasto lampante, alla lunga, con l’autocrazia cinese, i lockdown, le catene di approvvigionamento sempre più corte: sono le avvisaglie che la ricerca dei mercati di sbocco “a prescindere” trova ormai un limite nella sicurezza. Niente più deleghe illimitate alla Cina.

Poi, il secondo trauma. Una guerra guerreggiata nel cuore dell’Europa, che muta tutte le regole di ingaggio. Impone un cambio radicale negli approvvigionamenti energetici: niente più deleghe neppure alla Russia. E fa avvertire qualche ondeggiamento nei rapporti transatlantici: che possa essere messa in dubbio perfino la delega securitaria agli Stati Uniti? Provoca effetti misti, dunque. Investe la dimensione energetica e quella della sicurezza. Sul piano energetico, costringe a ripensare la vecchia strategia targata Merkel: gas a prezzi convenienti e garantiti da parte di un solo fornitore, la Russia. Ci si rende conto, fin dai primi mesi della guerra, che bisogna voltare pagina e farlo in fretta. In effetti, così accade. Il Consiglio europeo approva acquisti in comune di gas, in modo da fare leva sul peso dell’Unione per facilitare i negoziati con partner affidabili, a prezzi più favorevoli: un altro, non scontato, scatto di reni europeo. Gli Stati membri si guardano intorno per diversificare. Lo fa l’Italia, con rapidità e successo forse maggiori di altri. La mappa delle dipendenze cambia colore, con una brusca rivoluzione che funziona. Ma nel medio periodo si porta dietro tre problemi costosissimi. Il primo: conciliare gli ambiziosi obiettivi del Green deal europeo, il taglio a zero delle emissioni di CO₂ entro il 2050, con i nuovi contratti di fornitura di gas firmati in fretta per sottrarsi ai gasdotti russi. Il secondo: i combustibili fossili – che l’Europa si troverà costretta a bruciare ancora per un futuro più lungo del previsto – provengono quasi tutti da Paesi lontani, per comune sentire politico e valoriale, dall’Unione Europea, per nulla immuni da turbolenze politiche, disordini, conflitti, dall’Africa settentrionale al Medio Oriente, di nuovo incendiato dalla guerra. Meglio tenere la guardia alta e non ritardare troppo la transizione.

Il terzo problema: il pericolo di passare da una trappola a un’altra, perché la transizione energetica si può, appunto, rallentare, ma non rinviare all’infinito. E oggi, l’offerente imbattibile delle tecnologie green – le auto elettriche, come i componenti per produrre le batterie – è la Cina. I numeri non mentono. Pechino fornisce il 60% delle turbine eoliche, l’85% circa dei pannelli solari e il 90% delle terre rare necessari all’UE per proseguire nelle traiettorie prefissate. Rischiamo una nuova, pericolosa ipoteca sul futuro. Come se ne esce? Con investimenti massicci, pubblici e privati, in sinergia tra di loro, tesi a rafforzare la resilienza e, nella misura del possibile, l’autonomia europee. Difficile, data l’entità straordinaria delle somme in gioco, aggirare il tema del finanziamento comune, di un nuovo schema – ancora one-off, se serve a tranquillizzare – di indebitamento comune. Finanziamenti comuni per progetti comuni, finalizzati a una transizione rispettosa delle specificità nazionali e al riparo da eccessi di dipendenza. Non ci siamo ancora.

Sul piano della difesa e della sicurezza, al di là del proliferare dei discorsi di rito, in concreto i progressi sono pochi. Il trauma della guerra in Ucraina ha certo posto il tema sul tavolo e ha reso palese l’urgenza, ma non è riuscito, almeno finora, a far superare all’Europa egoismi e remore nazionali. Sarà perché si tratta di una dimensione indissolubilmente legata alla sovranità statale – come del resto accade anche per l’intelligence – che non ammette deleghe a favore di uno Stato europeo federale che non esiste. Sarà perché nella percezione delle opinioni pubbliche, dare priorità ai cannoni, rispetto al burro, non è mai popolare; perché, rispetto al “primum vivere” della pandemia, la difesa europea non viene avvertita come un bisogno esistenziale; oppure perché finora, a parte qualche limitata capacità di intervento in vicine situazioni di crisi, una vera necessità di difesa territoriale dell’Unione non si era posta. Sta di fatto che i nodi restano sul tavolo. Gli obiettivi di politica estera ai quali una difesa europea debba essere funzionale. La sua maggiore o minore autonomia dall’Alleanza Atlantica e dunque dagli Stati Uniti. La necessità di rafforzare in questo settore la base produttiva e industriale, di razionalizzare il sistema delle commesse per evitare frammentazioni, duplicazioni e dipendenze. A ben vedere, il cuore stesso del possibile sviluppo dell’integrazione europea.

 

Il rebus della sicurezza e l’allargamento

Tutti questi aspetti sottintendono, d’altra parte, problemi complessi. Anzitutto, l’Unione Europea riflette ancora, almeno in parte, le motivazioni originarie della sua creazione: più con finalità economiche e per approfondire la collaborazione e la pacifica convivenza tra i Paesi europei, che per influire e proiettare potenza nel mondo circostante, fosse pure ai suoi confini. Non ce n’era bisogno in un contesto bipolare e ordinato. Fare politica estera è stata una necessità sopravvenuta, oggi sempre più pressante, alla quale in fondo si fa fronte come si può, evitando di abdicare troppo alle prerogative e competenze nazionali. La mancanza di una chiara definizione di un interesse europeo rende complicato formulare una politica estera comune e senza questa la difesa e la sicurezza sono prive di bussola. Lo dimostra, per esempio, l’assenza di un seggio europeo permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gelosamente custodito dalla Francia, a titolo nazionale.

Anche il rapporto con Washington si è evoluto. Ne è rimasto fermo il carattere indispensabile. Inutile farsi illusioni: l’Europa, per il futuro prevedibile, non può fare a meno dell’ombrello militare e securitario americano, come rappresentato dall’Alleanza Atlantica. E neppure del suo deterrente nucleare. Nello stesso tempo, le regole d’ingaggio sono mutate. Non è più pensabile, come dicevamo, appaltare agli Stati Uniti la nostra sicurezza, senza contribuire in modo sostanziale a finanziarne i costi, chiunque sia il presidente americano. Neanche pagare, oggi come oggi, basta più: bisogna dimostrare di saper fare la propria parte nel proprio estero vicino. Non possiamo fare come se la guerra in Ucraina non fosse essenzialmente europea, per le conseguenze dirette che comporta sugli assetti di sicurezza del continente. È un parametro da tenere ben presente nel dibattito sulla “autonomia strategica” europea: nelle condizioni date, sarebbe irrealistico confondere l’autonomia con l’indipendenza. Oggi come oggi, la via praticabile sta, piuttosto, nel rafforzamento della difesa europea nel suo duplice significato: di requisito idoneo a proiettare stabilità e ragionevole deterrenza ai nostri confini e di componente intesa a rafforzare il rapporto transatlantico. Un’Europa credibile e capace di assumersi responsabilità, per un Occidente più forte, e dunque senza alcuna contraddizione o soluzione di continuità tra lo sviluppo delle capacità europee e il cosiddetto “pilastro europeo” della NATO. Non sempre il sentire degli Stati è univoco a tale proposito. S’invoca l’autonomia, ma poi non si trova una soluzione idonea a promuoverla efficacemente, come sarebbe, per esempio, attraverso l’estensione esplicita all’Unione della garanzia rappresentata dal deterrente nucleare francese.

Il tema del rafforzamento della base industriale e tecnologica europea nel settore della difesa – sostenuto dal Fondo europeo per la difesa, che mira a stimolare la collaborazione tra imprese europee – è venuto alla ribalta prepotentemente con la guerra in Ucraina, che ha svuotato gli arsenali europei per sostenere quelli di Kiev. S’incrocia con la parallela esigenza di potenziare le capacità nazionali; ove possibile, evitando le sovrapposizioni e razionalizzando le commesse, per indirizzarle verso obiettivi condivisi. Riguardano il potenziamento dell’industria europea le proposte che la Commissione UE ha presentato ai primi di marzo 2024: aumentare gli investimenti, ridurre la frammentazione, dare più coerenza agli acquisti congiunti, diminuire le dipendenze, reperire risorse europee, istituire un Commissario responsabile per la difesa, ipotizzare un ambizioso fondo europeo ad hoc. Un po’ come per i vaccini e per il gas, insomma. Nelle parole della presidente Ursula von der Leyen, è una priorità assoluta, più ancora della transizione energetica, visto l’incombere delle minacce. Siamo naturalmente lontani da un improbabile esercito europeo. Più vicini a un sistema maggiormente coordinato. La prudenza, tuttavia, si impone.

Resta forte la criticità del reperimento delle risorse, ingentissime, che sono necessarie. Una volta di più, in assenza di forme europee di finanziamento almeno di ciò che produciamo e acquisiamo in comune – sulle quali manca l’accordo tra gli Stati, per non parlare di nuovo debito comune –, ogni discorso rischia di rimanere velleitario. Ci sono poi almeno altre due difficoltà di fondo: gli Stati membri sono disponibili a sacrificare pezzi delle loro industrie militari – con le relative conseguenze socio-occupazionali – in nome di un’industria europea più sinergica ed efficiente? E poi, è davvero sempre e per tutti compatibile il “comprare europeo” (di fatto, quasi sempre “francese”) con i tanti, tradizionali acquisti di materiali americani, nel quadro di rapporti da tempo consolidati? Sono domande tuttora senza risposte univoche, neppure di fronte alla guerra in Europa. Eppure, l’urgenza del momento suggerirebbe di muoversi in fretta. Nell’incertezza dei futuri atteggiamenti americani, l’Europa ha un’occasione per dimostrare di saper mettere in piedi una deterrenza sufficiente per scoraggiare nuove aggressioni nel suo vicinato. L’industria europea di per sé è attrezzata alla sfida. I campioni industriali del continente sanno fin troppo bene in quali settori si può e in quali non si può competere. E se il mercato europeo paga il prezzo di un’eccessiva frammentazione, non mancano già oggi le collaborazioni, sia pure a geometria variabile. Dai carri armati ai due grandi progetti per sviluppare jet da combattimento di ultimissima generazione: da un lato il Fcas franco-tedesco-spagnolo, dall’altro il Tempest a cui lavorano Italia, Giappone e Regno Unito. Senza un sostanziale lasciapassare politico degli americani, però, potrebbero restare esperimenti isolati. E qui le diffidenze in tema di “autonomia” lungo l’asse transatlantico sono dietro l’angolo. Divennero più evidenti specie durante la prima presidenza Trump. Autonomia? Uno slogan indigesto per il mondo dell’America First. La parola chiave non può essere che complementarità.

D’altra parte, l’architettura di sicurezza occidentale si è andata articolando. La NATO, per cominciare. Solo pochi anni fa Macron ne decretava la “morte cerebrale”. Passi la provocazione: dobbiamo ringraziare Putin per averlo smentito. Se con l’invasione dell’Ucraina pensava di far arretrare la deterrenza atlantica, il piano si è rivelato un boomerang. Con la Svezia e la Finlandia nell’Alleanza, lo zar si è ritrovato il “nemico” sull’uscio di casa, con il quale condividere altri 1.300 chilometri di frontiera. La NATO è più viva che mai. E anche nuove geometrie di sicurezza hanno preso forma in risposta alla guerra russa. La prima: un asse sempre più saldo fra i Paesi del G7, scesi in campo per dare garanzie di sicurezza all’Ucraina aggredita, attraverso una serie di accordi bilaterali di garanzia. La seconda: un “arco” di sicurezza di Paesi likeminded che parte dagli Stati Uniti, passa dal Regno Unito, attraversa la Scandinavia e le Repubbliche baltiche, per chiudersi in Europa orientale. Svezia e Lituania, Estonia e Polonia. Paesi alleati, uniti dalla comune convinzione di mantenere alta la deterrenza anti-russa nella regione. Anche qualora Trump, una volta eletto, decidesse di abbandonare l’Ucraina al suo destino, non è detto che tutti reagirebbero allo stesso modo. La percezione della minaccia non necessariamente coincide.

Ecco allora un altro rischio palesarsi in tutta la sua gravità. Una nuova crisi esterna, un altro brusco risveglio, potrebbero aprire una faglia dentro all’Europa. Spingere le nazioni ad andare in ordine sparso, con l’incognita di un’America che – a prescindere da chi sieda nello Studio Ovale – si sia stancata del ruolo di poliziotto del mondo. Come evitarlo? È del tutto evidente che, se vuole svolgere un ruolo, l’Europa deve riformarsi in profondità e aumentare la propria capacità di reazione. Evidente, ma non praticabile, almeno a breve, perché qualunque disegno riformatore dei Trattati richiede l’unanimità degli Stati membri. Il voto all’unanimità è una zavorra che l’Europa non può più permettersi, pena la perdita di qualsiasi credibilità. Migranti, aiuti all’Ucraina, rifinanziamento del bilancio: quante volte negli ultimi anni è bastato un solo pollice verso, dell’Ungheria di Viktor Orbán o perfino della piccola Malta, per mettere nel congelatore qualsiasi decisione? Rinviare, procrastinare, in definitiva, non decidere affatto. Per quanto limitativo sia lo status quo, l’Europa resta ostaggio del suo “comma 22”: una riforma del sistema non è in vista, per colpa di quegli stessi veti che lo ingolfano quotidianamente.

Serve allora trovare un’altra strada. Anzitutto, far maturare, a livello nazionale degli Stati membri, un consenso quanto più ampio possibile su un quadro di riforme essenziali, che mostrino nei fatti la loro necessità; in sostanza, una bussola sulla direzione da intraprendere, senza che i governi nazionali rischino, nel promuoverle, di perdere troppi consensi nei loro elettorati. Poi, sfruttare a fondo ogni via e ogni mezzo offerti dai Trattati vigenti, stressando al massimo le procedure. Infine, non esitare a procedere, quando indispensabile, fuori dai Trattati, attraverso intese intergovernative che consentano a coalizioni maggioritarie di Stati di ovviare al veto dei singoli.

Tutto questo processo, che spetterebbe alle nazioni più grandi stimolare e rendere coerente, finirebbe per costituire un insieme di norme, prassi, situazioni ampiamente condivise, sulle quali impiantare poi una riforma più complessiva. Ci vorrà tempo, è vero, ma realisticamente non sembrano esservi molti percorsi alternativi. Le nazioni candidate si avvicinerebbero alla membership piena, assumendosi via via obblighi e fruendo dei benefici in modo progressivo. Un misto di metodo comunitario e intergovernativo, di Europa a differenti velocità nei fatti, ma con una direzione chiara, rispettosa delle peculiarità e dei diversi tempi nazionali. Senza che il dissenso di uno blocchi il progresso degli altri. Ma senza che il progresso di tutti annichilisca i singoli interessi nazionali.

Si diceva dei Paesi candidati. È un equilibrio delicato quello dell’allargamento dell’Unione. Da un lato, c’è l’esigenza di mettere ordine dentro casa, prima di ammettere nuovi membri. Dall’altro, è vivo l’interesse a non indugiare, a tutela della nostra stessa sicurezza. Procedere per via pragmatica può dare una mano: associare via via le nazioni, come dicevamo, a un novero sempre più ampio di politiche e attività fino a una membership piena. Dovrebbe valere per la Turchia, il cui processo di adesione è congelato da tempo, ormai da entrambe le parti, per ragioni politiche allo stato insuperabili. Vale per la Moldova e la Georgia, bersaglio costante della destabilizzazione di Mosca. Per l’Ucraina, del cui necessario cammino verso le istituzioni euro-atlantiche si è già detto.

Con particolare urgenza, vale per i Balcani occidentali. Non si tratta solo di ragioni storiche, culturali, di opportunità economiche e commerciali. Diceva Winston Churchill che «i Balcani producono più storia di quanta ne possano digerire». È vero anche oggi e alla base ci sono rivalità e nazionalismi etnici mai sopiti, architetture istituzionali fragili, il retaggio di violenze terribili nella disgregazione cruenta dell’ex Jugoslavia negli anni Novanta e nella guerra per l’indipendenza del Kosovo. E i temi dei conflitti armati a base etnica, della sicurezza e delle politiche di potenza rischiano di riproporsi all’improvviso, drammaticamente, se l’Europa non riesce a ricomprendere i Balcani occidentali nel suo processo di integrazione. Si pensi alla precarietà degli assetti in Bosnia Herzegovina o alla tensione tra Serbia e Kosovo: l’effetto domino è dietro l’angolo.

Sono almeno tre gli elementi di rischio della non azione: lasciare campo libero all’influenza della Russia già molto attiva nella regione, consentire la radicalizzazione di zone a maggioranza musulmana attraversate dalla rotta anatolico-balcanica dell’immigrazione, demotivare soprattutto i più giovani, nei quali il nazionalismo potrebbe riprendere il sopravvento su di una evanescente prospettiva europea. Ce n’è abbastanza per accelerare. Anche per l’Italia, così vicina sul piano della geopolitica e della tradizione.

Scritto da
Giampiero Massolo

Diplomatico di carriera, già Segretario Generale del Ministero degli Esteri, Direttore Generale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) e Presidente dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). Ha presieduto Fincantieri S.p.A. ed è ora Presidente di Mundys S.p.A. Ha insegnato a SciencesPo a Parigi e tiene alla School of Government della LUISS di Roma un corso in materia di sicurezza nazionale. È autore di: “Realpolitik. Il disordine mondiale e le minacce per l’Italia” (con Francesco Bechis, Solferino 2024).

Scritto da
Francesco Bechis

Giornalista de «Il Messaggero», dove si occupa della politica italiana. In passato ha lavorato a «Formiche.net», scrivendo di politica estera italiana e rapporti fra America ed Europa. Nel 2024 ha vinto il Premio di giornalismo Biagio Agnes nella categoria Giovani giornalisti. È autore di: “Realpolitik. Il disordine mondiale e le minacce per l’Italia” (con Giampiero Massolo, Solferino 2024).

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