“Il melodramma della nazione” di Carlotta Sorba
- 27 Giugno 2017

“Il melodramma della nazione” di Carlotta Sorba

Recensione a: Carlotta Sorba, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento, Roma-Bari, Laterza 2015, pp. 266, 28 euro (scheda libro)

Scritto da Stefano Poggi

7 minuti di lettura

Reading Time: 7 minutes

Uno degli aspetti più caratteristici del Risorgimento italiano – almeno agli occhi dei contemporanei – è l’estrema passionalità di cui sembrano essere preda i suoi protagonisti, anche quelli più moderati. È da questa «carica emozionale fortissima» che prende piede l’ultima fatica di Carlotta Sorba, docente di Storia dell’Ottocento presso l’Università di Padova e direttrice del Centro Interuniversitario di Storia Culturale.

Ad essere in discussione ne Il melodramma della nazione non è la particolare forma teatrale che in Italia viene generalmente associata all’opera lirica (e la sua eventuale strumentalizzazione a fini di propaganda nazionalista). Il volume di Sorba si concentra piuttosto sulla genesi e sull’uso politico “nazionale” di una «modalità di narrazione» – quella, appunto, originata dal melodramma – che combina sentimentalizzazione e semplificazione moralistica. In questo senso il melodrammatico assume una forma neutra, non associata né ad una particolare forma culturale né – tantomeno – ad uno specifico significato politico. È un modo di narrare, non una cosa narrata. E tramite esso – questa è la tesi di Sorba – può essere letto il processo di creazione dell’identità nazionale italiana.

Il volume cerca preliminarmente di ricostruire la nascita e la genealogia di questa modalità espressiva in un’ottica europea e transnazionale. Da principio la riflessione illuminista sull’immediatezza del sentimento e sull’utilità pedagogica del teatro trovò il suo sbocco pratico nel decennio successivo alla Rivoluzione Francese. Sulle scene di Londra e Parigi si mise in atto una politicizzazione delle scene, che si legò ad una contemporanea moltiplicazione di sale e pubblico. Da questa «fabbrica del divertimento» uscirono centinaia di testi dai dispositivi spettacolari similari: forma caratteristica del periodo fu il mélodrame, che in breve superò tanto i confini nazionali quanto quelli delle grandi metropoli. Questo spettacolo si caratterizzava per il suo manicheismo morale, la gestualità esagerata, l’estrema fisicità e l’uso emozionale della musica. Il linguaggio semplice ne estendeva la platea potenziale anche ad un pubblico non educato – e non per caso a Parigi si sviluppò in quegli anni una polemica sprezzante nei confronti del bonhomme del Marais che affollava le sale del Boulevard du Temple[1].

Il mélo arrivò quindi anche in Italia, ma per venire presto riassorbito all’interno dell’opera lirica, a cui trasmise il registro patetico e moralistico. Con l’inoltrarsi del periodo napoleonico – e ancora di più con la Restaurazione – la politicizzazione del teatro subì una decisa battuta d’arresto in tutta Europa, slegandosi (almeno temporaneamente) dalla continua espansione degli spettacoli e delle scene teatrali. Questo non fermò la diffusione del registro melodrammatico, che aveva ormai lasciato i palchi per trasformarsi in una modalità espressiva diffusa in ambiti ben diversi da quello specificatamente culturale. In particolare la narrazione propria del melodramma – proponendo una «certificazione dell’esistenza di un ordine morale» sempre vincente – si prestò particolarmente ad un utilizzo politico.

 

Il melodramma come narrazione dell’Italia oppressa

L’analisi della storica approda a questo punto in Italia, dove l’irruzione del romanzo storico si manifestò in un contesto in cui permanevano forti nessi fra campo artistico e politico. Fra gli anni ’20 e ’30 dell’Ottocento si sviluppò nella Penisola un inedito «flusso di narrazione storica», legandosi ad un’amplificazione emotiva tipicamente melodrammatica. Auspicato dalle riflessioni dei pensatori democratici, questo «flusso» è individuabile tanto nel romanzo di scuola manzoniana quanto in quello di ispirazione foscoliana. Sorba definisce questo complesso narrativo come un «sottofondo prepolitico» al movimento patriottico, diffuso in ogni settore del nazionalismo italiano – democratico, liberale o moderato che fosse. La narrazione melodrammatica della storia nazionale che emerse venne declinata in innumerevoli forme, ma rispettando sempre i medesimi elementi: intrecci semplici e prevedibili, colpi di scena, conflitto irriducibile fra bene e male, vittoria inevitabile del bene. L’emancipazione della patria oppressa passava inevitabilmente per l’autoriconoscimento della propria condizione di servaggio prima celata dall’oppressore, necessaria premessa alla (altrettanto inevitabile) vittoria.

Verso la fine del quarto decennio dell’Ottocento questa produzione brulicante aveva costituito un repertorio ampio e consolidato, ma che si limitava a coinvolgere il pubblico ristretto ed elitario della cospirazione in cui si trovava confinato il fronte patriottico. Nondimeno, si trattava di un discorso politico «almeno virtualmente aperto ad una comunicazione allargata» e ad una più larga popolarizzazione[2]. Questa avvenne infine nel cosiddetto «lungo ‘48» (1846-1849), periodo durante il quale i confini dell’opinione pubblica si ampliarono fino a comprendere strati sociali prima esclusi[3]. Il dispositivo melodrammatico venne quindi declinato nei mezzi forniti dalla nuova cultura mediatica: per esempio in alcune popolari collane di libri patriottici sospinte da motivazioni al contempo pedagogico-patriottiche e più banalmente commerciali. Ma anche la pratica politica venne coinvolta pesantemente da una teatralizzazione massiccia, da subito percepita (e presto rinnegata) dagli stessi protagonisti. Così i patrioti si trasformarono in cavalieri medievali, con l’utilizzo di veri e propri costumi teatrali. Esempio massimo di questa trasformazione melodrammatica della pratica politica furono le feste cittadine che puntellarono i territori “liberati” durante il «lungo ‘48»[4]. Erano queste occasioni unitarie, che coinvolgevano nell’organizzazione e nella diffusione tutti i diversi settori patriottici, e che vedevano la partecipazione di grandi masse all’interno di un canone unanimista. Tutte queste pratiche politiche vengono lette da Sorba con gli occhiali dell’antropologo scozzese Victor Turner: come cioè dei «rituali di coesione» che servivano a formare il soggetto politico nazionale (o, usando la fortunata definizione di Benedict Anderson, la «comunità immaginata»[5]). In gioco quindi non sarebbe stata una manifestazione “simbolica” della nazione, quanto piuttosto la sua vera e propria costruzione. Tutte queste modalità – dall’apparenza spontanea, ma guidate e promosse dagli organizzatori patriottici – ebbero poi un’evidente funzione di incanalamento del potenziale esplosivo dell’emotività risorgimentale.

Nell’estate del 1848 – con l’indebolirsi del fronte italiano e la crescente frattura fra democratici e moderati – l’entusiasmo patriottico scemò e con esso anche questo tipo di pratiche politiche. La melodramatizzazione della politica italiana subì così una battuta d’arresto, acuita in seguito dalla chiusura degli spazi di libertà negli anni ‘50. Al tempo stesso questo modulo di narrazione aveva però varcato i (futuri) confini nazionali, nutrendo l’indignazione internazionale per la situazione italiana. Solo con l’Unità – raggiunta finalmente fra il 1861 e il 1871 – si assistette ad un riutilizzo pedagogico delle stesse modalità narrative. L’avvento della Sinistra liberale al potere – composta anche da ex garibaldini e mazziniani come il Presidente del Consiglio Francesco Crispi – ridiede spazio alla melodrammatizzazione del discorso nazionale, adoperata in questo ambito in un primo tentativo di nazionalizzazione delle masse italiane (secondo il noto motto dazegliano sulla necessità di «fare gli italiani»). Il romanzo Cuore di Edmondo de Amicis prima (1886) e l’avvento del cinema muto poi permisero di estendere ulteriormente il pubblico di questa narrazione melodrammatica – perpetuandola poi fino ai giorni nostri.

 

Il melodramma e la costruzione dell’identità nazionale

In piena dittatura fascista, Antonio Gramsci individuò nei suoi Quaderni la «malattia melodrammatica» come uno dei caratteri fondamentali del «nazionale-popolare» italiano[6]. La genesi di questo carattere sarebbe individuabile per Sorba proprio nel successo riscosso dal dispositivo narrativo melodrammatico nella prima metà del XIX secolo. In questo senso Il melodramma della nazione non è utile solo a comprendere i tratti della costruzione dell’identità nazionale italiana, ma anche e soprattutto a porre l’accento sulle modalità di popolarizzazione della stessa. Se infatti Alberto Banti nel suo fondamentale La nazione del Risorgimento aveva operato una prima importante verifica sulla costruzione dell’identità italiana[7], questa si era limitata ad un’analisi del pensiero e della produzione dei patrioti “letterati”. Né la partecipazione popolare a questa costruzione, né la sua ricezione negli strati più larghi della popolazione italiana erano stati presi in considerazione – anche per la natura “apripista” dell’opera. Il lavoro di Sorba – tramite lo studio di fonti non riconducibili al pensiero “alto” – si pone in questo senso come una prima breccia verso questi aspetti per ora trascurati, che rimangono passibili di un grande approfondimento in un’ottica tanto orizzontale (cioè dei tipi di ricezione a livello “microstorico” di comunità) quanto verticale (studiando cioè le modalità di produzione e ricezione della prima cultura di massa nella Penisola)[8].

Ma l’interpretazione di Sorba differisce da quella di Banti per un altro importante aspetto. Se entrambi i volumi in questione cercano – fondamentalmente – di dare una risposta al sorprendente successo della narrazione nazionale durante il Risorgimento, diverse sono le visioni sulla causa “profonda” di questa riuscita. Come abbiamo visto, per Sorba l’utilizzo della modalità del melodramma nelle narrazioni e nelle pratiche politiche sarebbe stato fondamentale nella popolarizzazione dell’ideale nazionale. Banti invece rintraccia la causa del successo del «discorso nazionale» nella sua natura di sostanziale riadattamento di discorsi preesistenti «opportunamente manipolati e rimontati»[9] – in particolare di quello cattolico. Sono queste due interpretazioni che rispecchiano un diverso approccio anche dal punto di vista metodologico (in particolare nella scelta delle fonti), ma che in un’ultima analisi non sono in contraddizione fra loro e possono completarsi vicendevolmente.

Infine Il melodramma della nazione ha un’ultima (ma non meno importante) valenza di stimolo, più legata alla contemporaneità: pone infatti l’accento sul ruolo della cultura di massa nella formazione delle identità collettive e della politicizzazione popolare. Ciò aiuta e spinge a considerare questo importante ambito della quotidianità contemporanea – utilizzando ancora una volta il Gramsci dei «Quaderni» (in questo caso senza alcuna responsabilità dell’autrice) – come una vera e propria «casamatta» da studiare e da espugnare, al pari degli altri centri di potere più “materiali” presenti nelle società avanzate. È questo un tema di riflessione che certo non può essere sviluppato in questa sede, ma che certifica una volta di più la fecondità (anche per una piena comprensione del presente) degli studi storici di matrice culturalista.


1 È interessante notare come nel medesimo “soggetto sociale” – emerso dai grandi cambiamenti urbanistici della Parigi post-rivoluzionaria – lo storico Maurizio Gribaudi abbia recentemente individuato il sorgere di una proposta politica autonoma da quella dominante e liberale. Cfr. Paris ville ouvrière. Une histoire occultée (1789-1848), Paris, La Découverte, 2015.

2 Si preferisce qua utilizzare il termine popolarizzazione (usato anche nel volume di Sorba) piuttosto che quello più usale (ma più ambiguo) di democratizzazione.

3 Il «lungo ‘48» fu preceduto in tal senso da un altro triennio altrettanto fugace: quello che seguì l’arrivo delle armate napoleoniche in Italia (1796-1799) e che segnò (per quanto molto limitatamente) un’apertura del dibattito politico oltre le tradizionali classi dirigenti.

4 La definizione si deve a Simonetta Soldani, Il lungo Quarantotto degli italiani in Storia della società italiana. Il movimento nazionale e il 1848, Milano, 1986.

5 Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Roma, manifestolibri, 1996.

6 Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1953.

7 Alberto Banti, La nazione nel Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000.

8 Simili direzioni di ricerca sono indicate nel recente studio di Enrico Francia sul ’48 italiano come premessa alla corretta interpretazione del movimento nazionale: «occorre delineare i diversi contesti nei quali si sviluppa questa estesa partecipazione [ai moti del ’48], e i canali utilizzati dalle élites politiche per entrare in contatto con le classi popolari urbane e rurali» (Enrico Francia, 1848. La rivoluzione del Risorgimento, Bologna, il mulino, 2012).

9 I cosiddetti «calchi». Ibid., pp 111 e sgg.

Scritto da
Stefano Poggi

Dottorando in storia all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. È stato Presidente dell’Associazione Fornaci Rosse di Vicenza. Ha contribuito a fondare Pandora Rivista e, in seguito, Senso Comune.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici