Recensione a: Simone Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Editori Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 168, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Davide Regazzoni
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Con la prima guerra dell’oppio (1839-1842), il forzato e violento ingresso della Cina nella “modernità” occidentale ha dato inizio ad un lungo e tortuoso processo di riflessione introspettiva in termini culturali ed economici. Il periodo di caos e di guerra che ne seguì, portò sia ad un’introduzione del concetto di “modernità” nell’Impero Celeste, sia ad interrogarsi su come una tale idea doveva essere applicata all’interno di un così vasto e articolato Paese, forte di una storia e di una cultura plurimillenarie. Passati all’incirca settant’anni dalla fine del cosiddetto “secolo dell’umiliazione”, la Cina appare ora come un enorme alveare, operoso, prospero, guidato da abili leader e funzionari politici, pioniera di un mondo proiettato verso il domani. Ricca di contraddizioni e di sfaccettature, la Cina del terzo millennio, e nello specifico le sue realtà urbane e costiere, si presenta al mondo come la nazione portatrice della fiaccola del progresso scientifico e tecnologico.
Simone Pieranni, autore di Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, propone un accurato ritratto dell’avvenire di una realtà, poco immaginabile per noi occidentali, che sta prendendo forma dentro i confini dell’Impero del Centro. Pieranni accompagna il lettore, quasi come Doc con Marty McFly alla guida della Delorean in Ritorno al futuro, in un viaggio però essenzialmente spaziale alla scoperta di città e imprese cinesi, con lo scopo di mostrare una Cina immersa in una realtà futuristica, abitata da persone concentrate nel costruire la strada che l’intera umanità probabilmente percorrerà in un prossimo futuro. Il titolo richiama subito alla mente la famosa serie tv britannica Black Mirror, e proprio come quest’ultima il libro ha l’ambizione, portata al successo, di offrire al lettore spunti di riflessione e di comparazione con una società cinese urbanizzata che sembra vivere in una dimensione quasi parallela e fantascientifica, ma che nei fatti è già una realtà, e con cui presto l’Italia, come tutto l’Occidente, dovrà confrontarsi.
Il libro si apre con il racconto di una “giornata tipo” vissuta da Pieranni in Cina: paga, prenota biglietti, manda messaggi, fa chiamate, pubblica foto e storie attraverso un’unica app, WeChat (Weixin). Di proprietà della Tencent, WeChat per assonanza potrebbe ricordare al lettore l’app più usata in Occidente, WhatsApp, ma se ne differenzia perché in realtà è molto più di una semplice app di messaggistica. Essa racchiude infatti le funzionalità di Facebook, Messenger, Deliveroo e Instagram (solo per citare le principali), creando un ecosistema nel quale l’individuo è il cellulare e il cellulare è WeChat, senza soluzione di continuità. La forza di attrazione e l’onnipresenza di questa app sui cellulari dei cinesi è diventata pressoché totale da quando gli utenti hanno avuto la possibilità di collegarla direttamente al conto corrente. Attraverso i QR Code i cinesi saldano le spese correnti, pagano le bollette e operano giornalmente numerose transazioni burocratiche senza dover tirare fuori il portafogli. Attraverso l’innovazione, il popolo cinese, che rivoluzionò il mondo della scrittura introducendovi la carta, due millenni dopo propone un suo quasi completo superamento.
A partire proprio dalla riflessione su questa super-app, Pieranni cerca di far scorgere al lettore una Cina completamente trasformata: dal recente passato di “fabbrica del mondo” si sta ora velocemente accingendo a diventare la prima potenza produttrice e innovatrice nel settore tecnologico. Un tempo il mondo guardava agli Stati Uniti come Paese illuminato e principale fautore del progresso scientifico, ma Pieranni fa notare quanto gli investimenti cinesi nel settore dell’innovazione, istruzione e ricerca dal dopoguerra a oggi, siano via via aumentati al contrario di quanto è accaduto negli USA. Gli ingenti finanziamenti governativi si sono moltiplicati nel periodo post-crisi economica del 2007, durante il quale Pechino prese la decisione di trasformare la propria industria produttiva in termini qualitativi, riconvertendo la produzione da prodotti di bassa qualità a prodotti altamente innovativi, inaugurando nel 2015 il programma “Made in China 2025” con l’obiettivo primario di diventare in dieci anni la prima nazione al mondo nel campo tecnologico e delle produzioni automatizzate.
In questo grande progetto rientra anche lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Per arrivare ad ottenere una sorta di vero e proprio “pensiero artificiale”, questa tecnologia necessita di un elemento che nell’ultimo decennio è diventato il nuovo oro nero per le aziende del settore high-tech: i dati. Ogni giorno una persona, semplicemente usando Google, attivando il GPS, acquistando online o caricando una foto su Facebook, lascia delle tracce virtuali. WeChat, utilizzata da più di un miliardo di utenti[1], diventa quindi una miniera d’oro in termini di quantità prodotte di dati, che rivenduti al governo e debitamente rielaborati, servono a nutrire e a sviluppare l’intelligenza artificiale. Inoltre, il mercato dei dati, nonché il loro utilizzo per lo sviluppo di super-algoritmi e IA, è pienamente consentito e autorizzato da Pechino, mentre per un occidentale lo stesso uso sarebbe considerato come una grave interferenza alla propria privacy. Pieranni ricorda però al lettore una contraddizione abbastanza evidente: non capita solo in Cina che i dati vengano utilizzati impropriamente. Nel 2018 l’azienda di Mark Zuckerberg rimase coinvolta in uno scandalo insieme alla società britannica Cambridge Analytica, la quale utilizzò i dati di milioni di utenti acquistati da Facebook per influenzare le elezioni statunitensi del 2016[2]. Le critiche che l’Occidente rivolge spesso alla Cina riguardo al diritto alla privacy risultano quindi deboli e non prive di criticità, mettendo in luce la maggiore differenza d’uso dei dati tra l’Oriente e l’Occidente: per i primi a disporne del loro utilizzo è lo Stato, per i secondi sono le aziende private ad occuparsene per fini privati.
I dati sono fondamentali anche per lo sviluppo delle smart city, città organizzate e integrate con la tecnologia nelle quali il cittadino, iperconnesso con la realtà circostante, vive in un centro urbano efficiente, sostenibile e soprattutto sicuro. I temi come la delinquenza e la criminalità nelle città vengono enfatizzati proprio dal governo per fungere da leva e trasmettere senso di insicurezza nei cittadini. Questo sentimento diventa così uno strumento per aumentare il controllo sulla popolazione che, attraverso l’uso di telecamere a riconoscimento facciale, fa sì che la vita del cittadino nelle smart city (come anche nelle altre città) sia all’insegna di un attento monitoraggio. Lo sviluppo di queste telecamere ha consentito di identificare istantaneamente il profilo di chi infrange le leggi, con il rischio che la sua foto appaia su uno schermo pubblicitario come monito alla popolazione. In altri termini il diritto alla privacy viene barattato in cambio di un maggior senso di sicurezza. Infatti, una delle principali aziende sviluppatrici dei progetti relativi alle smart city è Terminus, impresa con sede a Pechino e leader nel mercato della sicurezza, il cui cliente principale è l’apparato securitario nazionale. Terminus è quindi l’azienda più indicata a sviluppare città intelligenti e sicure, essendo in corsa per il perfezionamento di telecamere a riconoscimento facciale e altri strumenti di monitoraggio, tecnologicamente sofisticati, che permettono di conoscere con precisione tutti gli spostamenti dei cittadini. In tempi di coronavirus, sono stati i sistemi di controllo e monitoraggio a facilitare il mantenimento dell’ordine e a consentire la buona riuscita del contenimento della pandemia, sigillando la città Wuhan, che insieme ad altri 15 centri urbani ha permesso la quarantena di 60 milioni di persone.
È proprio attraverso questa “tecnocrazia” che la morale confuciana trova nuova espressione. Pieranni, infatti, sottolinea come la conservazione del potere in Cina, e quindi il mantenimento del controllo sulla popolazione, è sempre stato al centro del pensiero filosofico-politico fin dai tempi più antichi. Lo stesso Confucio nei Dialoghi spiega: «Se si governa con le leggi e si mantiene l’ordine infliggendo punizioni, il popolo cercherà di evitarle ma non proverà alcun senso di vergogna. Ma se si governa con l’eccellenza morale e si mantiene l’ordine mediante l’osservanza delle norme rituali, allora nel popolo si radicheranno senso di vergogna e disciplina»[3]. La stabilità sociale quindi non è data dalla coercizione delle leggi, ma dalla moralità instillata nell’individuo. Arbitro della morale, colui che decide cosa è giusto e cosa è sbagliato, inevitabilmente non può che essere lo Stato. L’obiettivo del governo sarà dunque quello di ottenere il massimo controllo sulla popolazione con il fine ultimo di raggiungere l’armonia sociale confuciana, scopo condiviso con le dinastie del passato. L’individuo, conformandosi alle leggi in funzione di un’unità e di una armonia superiore, diventa così parte di quello che è l’ideale confuciano di Stato: una grande famiglia. Questo concetto viene espresso proprio da uno degli allievi indiretti del grande Maestro, Mencio: «Ciò che è sotto il cielo ha il suo fondamento nello Stato, lo Stato nella famiglia e la famiglia nell’individuo»[4]. La singola persona diventa talmente tanto fragile di fronte allo Stato che, per il bene di tutti, trova il proprio posto solamente inserendosi nella società (o famiglia), preferendo autocensurarsi, che rimanerne esclusa.
Governare la Cina non è come governare un qualsiasi altro Stato: le peculiarità di questo Paese sono così eccezionali che per mantenere un equilibrio necessita di misure altrettanto eccezionali, e nella storia cinese, quando il potere centrale non riusciva più a conservare la stabilità sociale, si sono sempre avuti periodi di forte precarietà che hanno portato a situazioni di divisione politica. Questo ha fatto sì che le forme di controllo sulla popolazione si sperimentassero fin dalla dinastia Qin (221-206 a.C.).
In questi termini, il governo cinese sta progettando un piano molto ambizioso: il Sistema dei Crediti Sociali. Introdotto in Cina nel 2014, ma ancora in fase di prova in diverse città, consiste nell’assegnare un punteggio ad ogni cittadino, attraverso il quale potrà godere o meno dei prodotti e dei servizi offerti dallo Stato o dalle aziende. Il punteggio salirà o scenderà in base alle azioni del singolo individuo: ad esempio donare il sangue farà guadagnare credito, al contrario gettare sporcizia per terra farà perdere punteggio. Lo stesso Pieranni racconta di come sia stato attentissimo nel suo ultimo viaggio in Cina ad attraversare la strada o a fare perfettamente la raccolta differenziata. In base al punteggio i cinesi possono o non possono comprare biglietti aerei, far andare i figli in determinate scuole o accedere a specifici servizi. La comunità cittadina, ove il sistema è stato stabilito in maniera saggia ed equilibrata, come nel caso della città di Rongcheng, ha portato ad una diminuzione della criminalità, delle contese, e le diatribe tra vicini si sono notevolmente ridotte. Il Sistema dei Crediti Sociali ricopre anche una valenza economica: in un Paese povero di dati finanziari come la Cina dove “solo” 320 milioni di persone hanno una storia di credito tradizionale, il sistema consente di sapere se il cittadino sia affidabile o no, ad esempio per l’ottenimento di un prestito bancario[5], ma è anche utilizzato a livello aziendale. Questo sistema infatti viene particolarmente apprezzato poiché applicato anche alle imprese: alla luce dell’ingresso del capitalismo in Cina insieme agli investimenti sono giunti anche molte truffe ai danni del consumatore, dunque il Sistema dei Crediti consentirebbe di dar loro un metro di giudizio oggettivo e attendibile per sapere da chi comprare o no. Questo sistema inevitabilmente colpisce anche le realtà aziendali straniere: in forza del potere economico della Repubblica Popolare, le imprese estere che non si adeguano a certi canoni voluti da Pechino semplicemente possono ricevere un feedback basso, venendo così escluse dal mercato interno.
Uno sviluppo così dinamico, celere e sfrenato ha però un risvolto della medaglia. Altro importante tema affrontato da Pieranni nel libro sono coloro che lavorano da dietro le quinte per produrre nuove idee e nuove tecnologie. Ad esempio, i big data per essere utili allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, devono passare al vaglio di una numerosissima schiera di lavoratori che hanno il compito di etichettarli e di registrarli in precise categorie. Si delinea così una massa di impiegati che costituiscono la nuova classe operaia del terzo millennio, sottopagata e senza orari. Della medesima classe operaia fanno parte anche coloro che assemblano i cellulari. Caso esemplare è la Foxconn, multinazionale taiwanese leader mondiale nella produzione di componenti elettronici. Gli operai di questa multinazionale nel loro impiego, spesso ripetitivo e meccanico, seguono il modello 996, cioè lavorano dalle nove del mattino fino alle nove di sera, sei giorni la settimana. Questi ritmi sfiancanti, quasi come se lo scopo del dipendente fosse sacrificare la propria esistenza a favore della ricchezza della Cina[6], segnano irrimediabilmente la loro vita. Le condizioni lavorative estreme degli operai della Foxconn ebbero notorietà nazionale dopo il suicidio, nel 2014, del famoso poeta cinese Xu Lizhi, autore di numerosi e toccanti versi con argomento il lavoro in fabbrica e lo sfruttamento[7].
È inquietante pensare, fa notare Pieranni, come alcune di queste industrie delocalizzino proprio in Europa, esportando il loro modello produttivo e lavorativo. L’autore pone quindi un punto di riflessione centrale: nel XIX secolo le potenze occidentali arrivarono ed aprirono violentemente le porte del Celeste Impero al commercio e allo sfruttamento, esportando l’industria, la filosofia e la tecnologia militare europea in Cina. Iniziò così uno dei periodi di crisi peggiori vissuti dall’Impero del Centro, che vide rimesse in discussione perfino le radici della propria cultura, ricercando disperatamente una nuova anima. A quell’epoca era l’Europa in una posizione di indiscussa forza militare ed economica, mentre l’immagine della Cina era quella di un corpo arretrato e senza futuro. Come l’Occidente qualche secolo addietro cambiò il loro modo di vedere sé stessi e il mondo, ora sono i cinesi a proporre una nuova idea di produzione, di lavoro e anche di stile di vita. Due secoli fa era toccato a loro piegarsi alla forza distruttiva dell’espansione europea, forse in un futuro non troppo lontano sarà l’Europa a dover subire un ritorno di marea proveniente dal Levante.
[1] https://www.statista.com/number-of-active-wechat-messenger-accounts/
[2] https://www.ilpost.it/2018/03/19/facebook-cambridge-analytica/
[3] Confucio, T. Lippiello (a cura di), Dialoghi, Torino, Einaudi, 2006, p. 11 (2.3).
[4] M. Scarpari, Ritorno a Confucio: la Cina di oggi fra tradizione e mercato, Bologna, il Mulino, 2015, p. 20.
[5] S. Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Editori Laterza, Roma-Bari 2020, p. 102.
[6] Ivi, p. 66.
[7] http://sinosfere.com/2020/03/13/federico-picerni-metamorfosi-operaie-corpo-e-alienazione-in-alcuni-operai-cinesi/