Recensione a: Michel Foucault, La società punitiva. Corso al College de France. 1972-1973, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 384, 35 euro (scheda libro)
Scritto da Paolo Missiroli
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Michel Foucault, almeno da una decina d’anni a questa parte, e con spaventosa potenza negli ultimi 2-3 anni, è diventato uno dei cuori pulsanti della riflessione contemporanea in una molteplicità di campi. Noi, uomini del Duemila, abbiamo sicuramente fatto quello che lui stesso auspicava si facesse con i suoi scritti: ” Faites-en ce que vous voulez.” Fatene quello che volete. Lo abbiamo letto in tutti i modi possibili; utilizzato come uno strumento in tantissimi campi del sapere; utilizzato come strumento di lotta, come fonte di ispirazione, come giustificatore di posizioni anche contraddittorie tra di loro. Si tratta di piste, di tracciati, non di sistemi; Foucault, pensatore anti-sistemico: sia nel senso di pensatore alternativo al mondo per come è nel suo complesso oggi, sia nel senso di pensatore contro la sistematizzazione del pensiero. Per questo, Michel Foucault è un personaggio della storia del pensiero estremamente difficile da inquadrare. Egli è impossibile, nel senso in cui si dice ad una persona: “sei proprio impossibile!”: è difficile da cogliere, da schematizzare, da rendere coerente con se stesso. In effetti, rendere Foucault coerente con se stesso, tracciare fili rossi troppo netti nel suo pensiero, è quanto di meno auspicabile si possa fare per comprenderne la portata. Per questo, anche, è così interessante leggere i suoi corsi, oggi, fuori da ogni teleologismo; a noi non importa, o meglio, ci importa, ma solo in una certa misura, sapere cosa vi è nelle cose che Foucault ha scritto prima di quanto verrà poi dopo. A noi interessa vedere i suoi testi nei loro contenuti; ci interessa poterne fare ciò che vogliamo.
Per questo è così importante leggere e studiare i primi corsi di Michel Foucault al Collége de France, che sono anche i meno conosciuti. Questi, lungi dall’essere semplici laboratori per l’elaborazione successiva di Foucault (certo, sono anche questo), hanno una loro completezza ed una loro autonomia, pur nella frammentarietà che certamente li caratterizza. Molto importante è quindi la pubblicazione, in italiano, del corso tenuto da Foucault nel 1973, La società punitiva, per Feltrinelli. In esso Michel Foucault comincia a sviluppare tutte le analisi che, di molto evolute e modificate, lo porteranno a pubblicare, nel 1975, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Si tratta in effetti di un corso preparatorio, per quanto, il corso possa essere considerato un libro a parte, nella misura in cui sviluppa tutto un’insieme di analisi che o non troveranno luogo in Sorvegliare e punire, o vi saranno solo accennate, o saranno citate ma stravolte nel loro significato.
Di cosa tratta questo corso? Sostanzialmente, quello che interessa a Foucault è tutto l’insieme di dispositivi e di pratiche che vengono messi in atto, a partire dal tardo XVIII secolo, per costituire una società punitiva, cioè una società dove mediante una punizione che avviene sempre più attraverso la pratica dell’imprigionamento (processo che Foucault, come è noto, studierà in Sorvegliare e punire) si disciplinano gli individui e li si normalizza in determinati schemi. Tutto questo, e questo elemento, tra gli altri, rende così interessante questo corso viene letto attraverso una lente pesantemente legata agli studi di Karl Marx: il disciplinamento qui viene legato alla messa al lavoro della società. Vedremo in che modo.
Innanzitutto Michel Foucault elabora, nella lezione del 10 gennaio, una nozione di “guerra civile” che risulterà fondamentale per il suo percorso futuro e soprattutto (quello che qui ci interessa) per il corso del ’73. Come è noto, il pensiero politico occidentale è, in generale, un pensiero che ragiona sulla guerra in termini essenzialmente negativi. A partire da Hobbes, il compito della politica e dello Stato è fermare la guerra. Non vi è guerra se vi è organizzazione statuale; non vi è guerra se vi è contratto. Ritroviamo questo ragionamento, in un certo senso, nella moderna concezione dell’Europa: spesso si dice “l’Europa è nata per impedire la guerra; per costruire la pace”. Per Hobbes, come è noto, vi è guerra di tutti contro tutti solo nello stato di natura; a questa stessa condizione il contratto deve porre rimedio; nello Stato, vi sarà la pace. Per Hobbes, in effetti, guerra di tutti contro tutti e guerra civile sono due sinonimi. Entrambi sono annullati sotto il dominio del Leviatano: là, domina la pace. Michel Foucault, lungi dal negare la centralità dello stato (abbiamo già affrontato l’argomento qui: Foucault contro il Leviatano), nega però questa visione, in fondo irenica, della società: per lui, al contrario, ogni società è attraversata dalla guerra. Il potere è coestensivo ad una dimensione di guerra civile, di scontro tra gruppi sociali (non per forza classi) che agiscono e producono discorsi, pratiche, esercitano forze, creano campi di battaglia, impongono situazione. Non vi è potere senza guerra civile; non vi è guerra civile senza potere. A partire da questa constatazione per così dire metodologica, Foucault passa a studiare l’insieme dei discorsi (quaccheri, fisiocratici etc) che hanno cominciato a qualificare ed a normalizzare il criminale come nemico sociale, in quanto persona non-produttiva. In effetti, questa qualificazione è tutt’altro che naturale, evidentemente. In questo corso Michel Foucault prosegue il suo percorso di progressiva separazione dal suo periodo archeologico, mostrando sempre più interesse alle pratiche piuttosto che ai soli discorsi: il complesso sociale resta un complesso sapere-potere, ma esso si costituisce a partire da tutto un’insieme di pratiche continue, parcellari, molecolari. Appunto, la costituzione del criminale come nemico sociale avviene, ad esempio, mediante la riflessione dei fisiocrati, da un lato, che rendono nemico sociale chiunque non sia produttivo (Le Trosne); dall’altro attraverso tutto un’insieme di azioni come quelle portate avanti dai Quaccheri e dai Metodisti come i gruppi di difesa spontanea, la creazione di società contro il vizio ecc… c’è tutta una microfisica del potere che emerge già in queste pagine. Certamente la visione del potere in queste pagine non è ancora quella “classica” foucaultiana, sebbene ne emergano già diversi elementi. In effetti, non è chiaro, mi pare, se il potere venga già inteso come produttivo o se, in parte, sia ancora pensato come repressivo, non certamente di un qualcosa di originario (la vita) ma rispetto ad una enorme molteplicità di pratiche che il potere non può fare altro che indirizzare, senza poter guidare fino in fondo. Comunque, nel Foucault successivo questa idea verrà meno, e si costituirà al suo posto una teoria produttiva del potere: il potere è l’insieme delle relazioni che costituisce, ad esempio, il complesso di una società governamentale. E’ invece molto netta, già in questo corso, l’idea secondo cui il potere non sia posseduto, ma sia essenzialmente una relazione. Nessuna classe, ad esempio, detiene il potere: semplicemente perché il potere non si detiene mai, il potere è una relazione. Il potere sta ad esempio nel discorso normalizzatore che rende il criminale nemico della società in quanto non produttore.
Questa affermazione potrebbe apparire, ad un primo sguardo, radicalmente anti-marxiana. Non verrebbe infatti meno, in questo modo, una possibilità di dare una lettura critica del capitalismo? Come parlare del capitalismo in modo critico eliminando il concetto di classe? In effetti, Michel Foucault non elimina mai il concetto di classe, che in questo corso è quanto mai presente. Come può un’idea relazionale del potere adattarsi all’idea di una società divisa in classi, con una che “domina” sull’altra? Lasciamolo dire a Foucault stesso:
Naturalmente, in questa specie di guerra generale attraverso la quale il potere si esercita, c’è una classe sociale che occupa un posto privilegiato e che, da lì, può imporre la sua stratega, riportare un certo numero di vittorie, accumularle e ottenere a suo profitto un effetto di sur-pouvoir […] Il potere non è mai interamente controllato da un certo punto di vista da un certo numero di persone. In ogni istante, esso si gioca in piccole parti singolari, con dei ribaltamenti locali, delle sconfitte e delle vittorie regionali, delle rivincite possibili.
Vi è dunque una selezione da parte della classe che dalle relazioni di potere è collocata in un “posto privilegiato”: nominalismo di Foucault. Non si tratta infatti di negare l’esistenza di universali (la classe, lo Stato) ma piuttosto di farne la genealogia e di negarne quindi la sostanzialità: mostrare come questi grandi insiemi, che certo ricoprono ruoli fondamentali all’interno di una società, siano il prodotto di un insieme di elementi e movimenti microscopici che attraversano la società in ogni sua parte. Quando parla di “microfisica del potere” Michel Foucault intende esattamente questo. La classe borghese domina all’interno di un sistema capitalistico non perché essa sia il soggetto fondante del sistema, ma perché al contrario essa è fatta dal sistema (cioè dall’insieme di relazioni di potere e di sapere) e da esso è collocata in una certa posizione, dove le è consentito di selezionare determinate pratiche. Ad esempio, tutta la disciplina proveniente dai monasteri medievali, tutta la dimensione del governo pastorale che Foucault studierà a lungo in futuro, non divengono affatto per caso, come spesso si dice, fattori dominanti in una società. In questo testo Foucault descrive ad esempio tutta la dinamica dello scansionamento del tempo nel mondo della fabbrica. Dunque, è evidente che questo scansionamento non sia affatto casuale ma al contrario sia impiegato dalla borghesia nel sistema di fabbrica in quanto esso porti ad un aumento di produttività. Due punti però devono chiarire il senso di questo reimpiego:
Avendo trattato velocemente del contenuto del testo e dell’elemento del potere, che emerge definitivamente come centrale proprio a partire da questo corso, vorrei ora analizzare con più attenzione una lezione in particolare de La società punitiva, quella del 14 marzo. In essa Michel Foucault fa un’analisi dell’illegalismo ponendolo al centro della sua attenzione. A noi interessa la parte centrale della lezione, quella in cui Foucault analizza l’illegalismo operaio. Confrontandosi (cosa più unica che rara per un autore come Foucault) con un gruppo di storici del movimento operaio (ad esempio Thompson) Foucault cerca di mostrare le pratiche di resistenza dei lavoratori nella fabbrica e fuori dalla fabbrica nel XIX secolo. Vi sono, dice Foucault, due tipo di resistenza alle pratiche di disciplinamento e di sottomissione messe in pratica in fabbrica: di depredazione e di dissipazione. La prima consiste nella distruzione del materiale prodotto in fabbrica, nel furto e nella rapina; il secondo nel non voler-essere ciò che la normalizzazione imporrebbe: non utilizzare le proprie forze, non disciplinare il proprio corpo, nel disporre delle proprie energie diversamente dalle necessità del capitale. La prima è dispersiva, ma estremamente violenta e in effetti terrorizza il padronato (è un termine che impiega Foucault). Il secondo si presta invece a forme organizzate e continue di lotta (sciopero). Nelle pagine successive, Michel Foucault descrive come la borghesia reagisca (sempre nei termini indicati sopra) a queste lotte attraverso l’introduzione nel sistema di fabbrica di ulteriori dispositivi di controllo: libretto di risparmio, di lavoro, criminalizzazione di chi non lavora, capillarizzazione della giustizia alla vita quotidiana…
Si tratta di pagine fondamentali, che andrebbero commentate a lungo. Innanzitutto, appare evidente che un lavoro che volesse analizzare fino in fondo il legame Marx- Foucault da un punto di vista politico non potrebbe che partire da qui. A noi questo ora non interessa. Ricaviamo piuttosto, da queste pagine sull’illegalismo, tre lezioni. Lezioni di quelle di cui davvero possiamo “farne ciò che vogliamo”:
Per Michel Foucault, resistere vuol semplicemente dire negare questo: negare la configurazione che le relazioni di potere impongono. Resistere non è venire da altro, dal fuori del potere, dall’originario; resistere è piuttosto andare altrove.