Recensione a: Antonio De Rossi (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli, 2018, pp. 589, euro 44,00 (scheda libro)
Scritto da Alessandro Ambrosino
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Il tema delle disuguaglianze territoriali è entrato da qualche tempo nell’agenda di molti ricercatori e funzionari pubblici, i quali hanno osservato in molti contesti una sorta di polarizzazione tra territori avvantaggiati dai macro-processi della globalizzazione e aree che sono state marginalizzate. Semplificando, si è notato come alcuni dei trend di lungo periodo della modernizzazione abbiano creato una frattura fra i centri urbani, dove si concentrano ricchezza e servizi, e i luoghi periferici: un vero e proprio “resto”, di difficile definizione, che sperimenta fenomeni di impoverimento, spopolamento e mancanza di attrattività.
La lunga crisi iniziata nel 2008 ha messo in luce questo generale malcontento delle periferie, limpidamente definite: «i posti che non contano»[1], che hanno poi reagito incanalando la loro rabbia di “perdenti” della globalizzazione nel voto di protesta. Questa levata di scudi dei «territori del margine»[2] ha assunto varie forme, dalla Brexit alla vittoria di Trump passando per la crescita dei movimenti populisti in Europa, e ha messo in difficoltà le letture mainstream della crisi, concentrate solo sugli aspetti finanziari e sulle politiche urbane, spingendo alcuni studiosi a chiedersi quale sia il ruolo di questi spazi nei cambiamenti socio-politici attuali.
Fra i paesi più colpiti da questi sintomi figura proprio l’Italia e per questa ragione un team di ricercatori ha tentato di costruire una lettura non convenzionale della Penisola che, integrando le trasformazioni in corso nelle aree metropolitane con ciò che avviene nelle cosiddette “aree interne”[3], ha reinserito i luoghi periferici nel discorso politico. Il risultato è il volume collettaneo Riabitare l’Italia, a cura dell’architetto e docente del Politecnico di Torino Antonio De Rossi. Un vero e proprio viaggio nelle pieghe più remote del Paese, dalle rugosità delle vallate alpine, passando per la complessità della dorsale appenninica fino ad arrivare alle zone che il meridionalismo classico aveva chiamato “l’osso” del Sud, contrapposto alla “polpa” delle pianure sviluppate[4], con l’obiettivo di analizzare la complessità dell’Italia in tutte le sue articolazioni e differenze[5].
La novità di Riabitare l’Italia, però, deriva da una radicale metamorfosi della percezione delle aree interne. Se per tutto il Novecento ha imperversato una visione paternalistica, fatta di assistenzialismo e difesa di territori perennemente “a rischio”, oggi quegli stessi territori iniziano ad essere visti come opportunità. Nonostante il permanere di profonde fratture e contrazioni, la crisi dei modelli di sviluppo “metrofili” – che vedono cioè la città quale unico soggetto in cui pensare il futuro della competizione internazionale – ha fatto riemergere il «senso dei luoghi»[6] e la ricerca di una riappropriazione degli spazi[7]. Si osservano quindi nelle aree interne processi di riattivazione, tentativi di riorganizzazione economica e nuove progettualità che vanno inserite in un unico insieme in movimento. Nelle parole di De Rossi: «Non l’Italia dei margini […] contrapposta all’Italia della modernità. […] Semmai l’urgenza di guardare a queste parti del Paese a partire da una loro messa in relazione con il tutto. […] Una ri-centralizzazione del margine dove l’attenzione per i “vuoti” va di pari passo con l’osservazione di quanto sta avvenendo nei “pieni”»[8].
Riabitare l’Italia nasce nella primavera del 2017 come progetto di cinque studiosi: il già citato Antonio De Rossi, l’architetta Laura Mancino, l’editore Carmine Donzelli, il geografo Arturo Lanzani e l’economista della cultura Pier Luigi Sacco. Come spesso accade, però, il gruppo si è poi ampliato arrivando ad oltre quaranta autori, allargando le tematiche affrontate nelle direzioni più diverse, tanto da renderne complessa una sintesi concettuale.
D’altra parte, qui sta il gioco del volume: spingere il lettore a sfidare il senso comune delle rappresentazioni classiche dell’Italia per sostituirle con nuove chiavi di lettura, non per forza schematiche, anzi, adatte alla fluidità del mondo contemporaneo. Un libro, come consiglia a chiusura Fabrizio Barca, già ministro per la coesione territoriale: «da leggere tutto d’un fiato […] cogliendo il flusso che trabocca dalle pagine»[9].
Ecco che, dunque, nel volume si confrontano le riflessioni di storici, architetti, territorialisti, geografi, sociologi, statistici, economisti, demografi, ecologisti ed altri, impegnati a descrivere spopolamenti e ripopolamenti, rigenerazioni culturali e abbandoni, perdite e recuperi in un grande movimento incrociato che si congiunge per la prima volta in uno sguardo d’insieme alle “mille Italie” che compongono l’Italia[10].
Il testo è diviso in quattro grandi sezioni. La prima, Verso nuovi atlanti, sottolinea proprio l’urgenza di una nuova descrizione del Paese che ribalti la fissità e l’immutabilità delle vecchie rappresentazioni. L’Italia interna, come ci spiega De Rossi: «è sempre stata uno spazio del resto»[11]. Luoghi mai produttivi in senso proprio, al contrario degli spazi urbani, ma solo custodi di paesaggi, storie e tradizioni. Eppure, appena si scende di scala, appaiono interdipendenze vecchie e nuove, aggregate ad un gran sovrapporsi di movimenti privi di limiti netti. Da qui le analisi Cersosimo-Ferrara-Nisticò, Carrosio-Faccini e Lanzani-Curci che, a metà strada tra economia e geografia fisica e umana, creano indicatori nuovissimi, capaci di superare gli impianti dicotomici del passato, integrandoli con le rapide metamorfosi attuali.
La sezione successiva, Storie e rappresentazioni, affronta invece temi più culturali e di lungo periodo. Tra i vari contributi, lo storico Pietro Bevilacqua traccia le linee dello spopolamento che affligge la montagna italiana da oltre un secolo, mentre l’antropologo Vito Teti si sofferma sul “senso dei luoghi”, analizzando le nostalgie per il “mondo di ieri”, sempre ondivaghe tra un utilizzo politico e una loro riformulazione con nuovi saperi, pratiche e concezioni.
La terza parte, Persone e trasformazioni, la più densa, costruisce il quadro dei fenomeni attualmente in atto, mettendo in luce una grande molteplicità di temi tra cui spiccano gli aspetti sociali. Vi è il multiforme filone del recupero del locale, che, nonostante la retorica «giacimentista di valenza conservatrice»[12], ha avuto il merito di attribuire alla montagna nuovi valori, rendendola quasi “di moda”. Qui vanno segnalati i saggi di Giuseppe Dematteis e del trio Barbera-Dagnes-Membretti. Nel primo, il geografo emerito dell’università di Torino descrive la nuova forza attrattiva della montagna, che faticosamente prova a superare sia l’idea di “luogo abbandonato” sia quella per cui l’unico sviluppo delle terre alte è il turismo confezionato a misura di cittadino. Nel secondo, il tema dei “nuovi montanari” prende piede sulla base dell’osservazione di alcuni, piccoli, esempi di flussi di ritorno. C’è poi il tema ecologico, declinato non solo nel problema attualissimo dei cambiamenti climatici ma anche nelle esperienze di valorizzazione dei prodotti e del benessere, al cui interno si trova: «un’inedita visione centrale delle aree interne, lontana e alternativa a quella marginale del mondo dei vinti»[13]. Seguono temi economici e giuridici molto concreti: nuove forme di imprenditorialità autocentrate quali le cooperative di comunità e l’evoluzione dei riferimenti normativi, fino ad arrivare alle più recenti esperienze di interdipendenza città-montagna. Infine, il tema del ripopolamento e dei migranti nel saggio di Andrea Membretti (EURAC di Bolzano) e di Elisa Ravazzoli, che apre questioni estremamente complesse e che obbliga a uscire da una visione fondata sulla lunga durata e sulla staticità.
La quarta ed ultima parte, Progetti e politiche, è quella più propositiva. Partendo dall’esperienza della SNAI, l’innovativa Strategia Nazionale per le Aree Interne, descritta da Filippo Tantillo e Sabina Lucatelli, si passa a progetti di politiche pubbliche per la gestione dell’energia e per la rigenerazione culturale degli spazi. Senza però tralasciare l’annosa questione dell’amministrazione del patrimonio boschivo, a cui è dedicato il saggio di Davide Pettenella. Seguono le conclusioni di Fabrizio Barca, che tirano le fila di un libro che già dal titolo ha valenza fortemente ricompositiva. Alla fine del viaggio, riemerge l’interrogativo iniziale circa l’utilità delle grandi rappresentazioni dualistiche, a cui però si deve rispondere non demonizzandole né considerandole sorpassate, ma constatando che la loro assolutizzazione ha contribuito alla segregazione delle aree interne dal discorso pubblico. Al contrario, in una società che «da liquida sta diventando gassosa»[14], la costruzioni di nuovi sguardi sulla complessità dell’Italia si rivela decisiva per comprenderne il presente e costruirne il futuro.
Uno dei “meme” più di successo dell’internet italiano recita semplicemente così: il Molise non esiste. Il significato è abbastanza chiaro: ci troviamo di fronte ad un’area così piccola e remota da pensare che “nessuno” ci sia mai stato, rendendolo di fatto un luogo dell’irrealtà. Eppure il Molise esiste, e l’effetto comico deriva proprio dal fatto che esso è un’entità amministrativa e geografica ben riconoscibile, sebbene trascurata dalla maggior parte degli italiani.
A ben guardare, è possibile far valere questo meme anche a tutti quei territori che abbiamo imparato a definire “interni”, con la differenza che qui l’effetto comico svanisce perché per loro non c’è – e non può esserci – alcuna definizione chiaramente intuibile, il che rischia di tramutare la battuta in una condanna vera e propria. Nelle parole di Pier Luigi Sacco: «le aree interne “non esistono due volte”: non solo perché remote […] ma anche perché in un certo senso impossibili persino da denominare. E se questi territori non esistono, il motto di spirito diventa già una sentenza: non soltanto non hanno futuro, ma non hanno nemmeno un presente»[15].
Questa “non esistenza” di larghe fette della nazione, che poi si traduce in un disinteresse generale dell’opinione pubblica, dovrebbe essere un segnale di allerta, perché rischia di tramutarsi in una resa delle istituzioni non solo di fronte al dissesto idrogeologico, ma anche alla perdita di cultura e produttività dell’insieme-Paese. Per questa ragione la tenuta delle nostre democrazie dipende dalla capacità di ridare spazio, voce e soprattutto dignità a questi territori, creando nuove condizioni di fiducia in grado di superare la resa alla paura e la tentazione dell’auto-segregazione. Così configurata, la questione politica e culturale delle aree interne smette di essere residuale e diviene, forse, il terreno decisivo per vincere le sfide dei prossimi decenni.
Eppure, riportare il “vuoto” al centro necessita di una svolta radicale, che scavalca i soliti luoghi comuni e va ad incidere profondamente sul nostro modo di concettualizzare il Paese. Come dice Pier Luigi Sacco: «se si vuole davvero mostrare alla società civile che il Molise esiste, e che esistono i tanti altri territori di cui parliamo, […] non lo si può fare né con qualche piano di sostegno all’occupazione locale o di fiscalità privilegiata, né con qualche operazione di marketing territoriale […]. Perché il Molise esista, occorre in primo luogo che il Molise abbia un senso»[16].
Quello che sta emergendo, e questo libro ne è la prima messa in luce collettiva, è proprio questa nuova cultura del Paese e della sua abitabilità, che unisce i vecchi modelli patrimoniali con innovative pratiche di sviluppo collettivo lontane dalle linee istituzionali classiche[17]. Ciò che ci si auspica ora, come delinea Barca nelle conclusioni, è che anche le élite siano pronte a rivedere i loro schemi, per tre principali ragioni. In primis il fatto che i costi di mantenimento dei vecchi sistemi stanno rapidamente diventando insostenibili. In secondo luogo perché si potrebbe immaginare un innovativo ripensamento dell’identità italiana tutelata proprio da una politica delle diversità, la quale, secondo Barca è forse l’elemento che più di tutti ha permesso alla SNAI di svilupparsi per quattro governi. Infine, perché il Paese, se non l’Europa intera, pretende un riallineamento del passo tra élite e società, nella consapevolezza che un forte movimento politico e culturale è già in atto[18].
[1] A. Rodriguez-Posé, The revenge of Places that don’t matter, in «Cambridge Journal of Regions, Economy and Society», a. XI (2017) n.1, pp. 189-209.
[2] A. De Rossi (a cura di), Riabitare l’Italia, Donzelli, Roma, 2018.
[3] Le aree interne, così come definite dalla SNAI (Strategia Nazionale Aree Interne), sono tutte quelle aree del Paese caratterizzate da una significativa distanza dai principali centri di offerta dei servizi essenziali (salute, istruzione e mobilità) e allo stesso tempo con un’elevata disponibilità di risorse ambientali e culturali. Occupano il 53% dei comuni italiani (il 60% del territorio del Paese) e il 23% della popolazione, pari a 13,5 milioni di abitanti.
[4] Cfr. M. Rossi Doria, La polpa e l’osso, (a cura di M. Gorgoni), L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2005.
[5] A. De Rossi, Riabitare l’Italia, cit., pp. 6-7.
[6] V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma, 2004.
[7] A. De Rossi, Riabitare l’Italia, cit., p. 5.
[8] Ibidem, cit., pp. 4-6.
[9] Ibidem, cit., p. 551.
[10] Cfr. E. Borghi, Piccole Italie, Donzelli, Roma, 2017.
[11] A. De Rossi, Riabitare l’Italia, cit., p. 15.
[12] Ibidem, cit., p. 13.
[13] Ibidem, cit., p. 12. Corsivo mio.
[14] E. Borghi, Piccole Italie, Donzelli, Roma, 2017.
[15] Ibidem, cit., p. 537.
[16] A. De Rossi, Riabitare l’Italia, cit., p. 540.
[17] A. De Rossi, Riabitare l’Italia, in «Dislivelli.eu», 25 novembre 2018, URL: http://www.dislivelli.eu/blog/riabitare-litalia.html
[18] A. De Rossi, Riabitare l’Italia, cit., p. 566.