La Cina “economia di mercato”: uno scontro (in)evitabile?
- 08 Luglio 2016

La Cina “economia di mercato”: uno scontro (in)evitabile?

Scritto da Federico Damin

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Tra i più recenti dibattiti riguardanti l’Unione Europea e il commercio internazionale, si staglia in maniera preponderante il riconoscimento della Cina quale economia di mercato, materia che, a differenza di eventuali trattati internazionali, è di sicura competenza esclusiva dell’Unione. Inoltre, il riconoscimento come economia di mercato prevede solamente una modifica ad un atto interno direttamente applicabile a tutti gli Stati Membri, senza il loro coinvolgimento. Questo articolo, che fa seguito ad una precedente analisi sullo stesso tema già pubblicata su Pandora, si divide in tre parti: la prime due sono di carattere generale e descrittivo del fenomeno del dumping e della sua rilevanza nei rapporti UE-Cina; la terza parte propone una soluzione negoziale, non drastica, a questa impasse.


Il dumping

Il dumping può essere equiparato alla pratica dei prezzi predatori, tuttavia riguarda il commercio internazionale: quando delle imprese vendono dei prodotti o servizi in un mercato estero ad un prezzo troppo basso, questo può creare danno all`industria domestica del paese oggetto di dumping. Il dumping viene spesso usato come metodo per accedere ad un mercato estero, invogliando i consumatori a spostarsi sul prodotto con il prezzo più basso. Il danno, o la minaccia del danno, si verifica quando questo prezzo costringe le imprese concorrenti ad abbandonare il mercato, con la conseguenza che l’impresa autrice di dumping rimanga la sola nel mercato e possa godere di una rendita monopolistica. Per ovviare a questa minaccia, gli Stati reagiscono con dei dazi anti-dumping, da aggiungersi ai dazi doganali. Nella teoria economia è ancora aperto il dibattito fra quanti ritengono che questa sia una regolare pratica commerciale e quanti invece affermano che essa sia una pratica scorretta, spesso risultante dall’esistenza di un mercato protetto nel paese esportatore le cui imprese praticano il dumping.

A livello internazionale si è raggiunta una soluzione di compromesso, riflessa nell’articolo VI del GATT, trattato che regola il commercio internazionale dei beni all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Secondo questo articolo il dumping si verifica quando il prodotto è venduto nel mercato estero ad un prezzo più basso del suo valore normale, generalmente riconosciuto come il prezzo praticato nel mercato domestico dell’esportatore. Il dazio anti-dumping può essere applicato solamente nel caso in cui il dumping crei un danno, o rischi di creare un danno, all’industria dello Stato oggetto di dumping. Questo dazio anti-dumping non può in nessun caso essere maggiore del margine di dumping, che è la differenza tra il prezzo del prodotto venduto sul mercato estero ed il prezzo praticato nel mercato domestico. Nel caso in cui non vi sia un mercato domestico, sono previsti altri metodi di calcolo. È importante sottolineare che il dumping non è una pratica dello Stato esportatore, come accade invece nel caso dei sussidi, ma una pratica commerciale effettuata da imprese (pubbliche e private).

Ciò che deve essere provato, oltre al dumping, sono anche il danno (o minaccia) all’industria domestica del paese oggetto di dumping e un collegamento causale tra questi due fattori, che porti alla conclusione che quel danno sia dovuto esclusivamente dalla pratica di dumping. Una volta accertato, possono essere applicati dei dazi maggiorati, calcolati o per i periodi passati o per i periodi futuri, oppure può essere accordato un prezzo tra l’esportatore e l’autorità investigatrice del paese importatore. Naturalmente, questa misura non è definitiva ma soggetta a continue revisioni; in particolare è previsto che il dazio anti-dumping cada dopo 5 anni dalla sua imposizione se non rivisto. Essendo una questione delicata e complessa, sono previste delle specifiche garanzie procedurali nell’Accordo sui dazi anti-dumping; uno dei fondamentali problemi è che l’autorità preposta ad imporre questi dazi è l’autorità dello stesso paese la cui industria domestica si lamenta del dumping, prospettandosi così un potenziale conflitto di interessi. Sarebbe auspicabile che la procedura e la conseguente imposizione di dazi anti-dumping venga svolta da un´autorità indipendente, come può essere l’OMC stessa.

Unione Europea e Cina: lo status di economia di mercato

L’art.3 (e) del Trattato sul Funzionamento dell´Unione Europea comprende espressamente la politica commerciale comune come competenza esclusiva dell’Unione. I dazi anti-dumping sono una delle espressioni della politica commerciale comune e si ritrovano nel Regolamento 1225/2009, il quale attua quanto già previsto a livello internazionale dagli strumenti dell´OMC.

Nel 2001 la Cina diventa ufficialmente membro dell’OMC ed il Protocollo di Accessione della Cina all’OMC è la fonte delle sue obbligazioni. In particolare, per quanto riguarda le misure anti-dumping, la Cina è considerata quale economia non di mercato, pertanto la metodologia usata per calcolare il margine di dumping non è quella tradizionale ma si utilizza un prezzo costruito, il quale porta ad un margine di dumping più alto rispetto alla metodologia tradizionale. Questo perché il mercato cinese è particolarmente protetto ed i prezzi non sono frutto di dinamiche concorrenziali, quindi considerati non affidabili. Il Regolamento 1225/2009 prende atto di questa situazione e la implementa, fissando dei criteri che le imprese cinesi dovranno dimostrare per essere considerate economia di mercato e vedersi applicata la metodologia tradizionale, che comporta un prezzo più basso.

Il punto focale della questione è che lo stesso Protocollo di Accessione prevede che questa metodologia di non mercato possa essere usata solamente per 15 anni, e dicembre 2016 è la data di scadenza: ecco perché questo dibattito è estremamente attuale.

Una simile previsione è invece esclusa dal Regolamento europeo, che continuerà ad applicarsi oltre dicembre; tuttavia l’Unione Europea, essendo membro dell’OMC è vincolata ai trattati internazionali e quello che può accadere è che la Cina porti una causa di fronte all’OMC. Vi è un acceso dibattito sul valore legale di questa data di scadenza, tuttavia uno scenario plausibile è che l’OMC dia ragione alla Cina e, pertanto, costringa l’UE a cambiare il proprio regolamento. Se il regolamento non verrà cambiato, la Cina sarà poi autorizzata a misure di ritorsione commerciali, che potrebbero essere più dannose rispetto al riconoscimento quale economia di mercato. Ciò che accadrebbe nel caso di riconoscimento non è così catastrofico come molti affermano, ma si risolve in uno scambio dell’onere della prova: non sarà più la Cina a dovere dimostrare di essere un’economia di mercato ma sarà l’UE a dovere dimostrare il contrario.

Dei principali attori del processo legislativo europeo, solamente il Parlamento ha già espressa una chiara posizione con una risoluzione il 12 maggio 2006, nella sessione plenaria di Strasburgo, con cui afferma drasticamente il mancato riconoscimento alla Cina come economia di mercato in tutto e per tutto, considerando soprattutto gli effettivi danni compiuti nei confronti del settore siderurgico.

In ogni caso, essendoci un danno, il dazio anti-dumping può essere applicato a prescindere dal riconoscimento come economia di mercato o meno.

Quello che traspare chiaramente da questa risoluzione è una malcelata paura nei confronti del futuro del settore industriale europeo che si trova in un rapido, troppo rapido, declino. Quello che manca è un piano industriale europeo che, andando oltre la difesa dei dazi anti-dumping, rilanci la competitività del settore e affronti un problema che è strutturale.

Uno scontro evitabile?

Come riconosciuto dalla stessa risoluzione del Parlamento Europeo, nel 2015 il flusso di investimenti tra Cina e Unione Europea si è invertito: sono maggiori gli investimenti cinesi in UE che gli investimenti europei in Cina. Questa sta a significare che attualmente, e nel medio termine, i fondi cinesi stanno sostenendo l’industria europea; se da una parte è vero che il problema maggiore è per gli Stati in surplus commerciale, che evidentemente devono trovare un luogo dove investire, dall’altra parte un mancato riconoscimento come economia di mercato potrebbe portare i cinesi ad investire altrove, seppure con rischi maggiori; in particolare gli investimenti potrebbero essere diretti in modo più massiccio in Asia centrale, in sintonia con la strategia cinese che prevede di ri-aprire la Via della Seta, e cercare di ostacolare le imprese europee, come sta accadendo ora nel continente africano.

Il dibattito riprenderà in autunno, con l’avvicinarsi della scadenza di dicembre, ed una via auspicabile è quella della negoziazione. L’Unione Europea potrebbe concedere alla Cina lo status di economia di mercato unicamente per determinati settori, mentre far rimanere nel limbo quelli più delicati, quale la siderurgia. Dall’altra parte la Cina dovrebbe impegnarsi di più nel finanziamento degli strumenti europei, in particolare il Fondo Strategico Europeo per gli Investimenti come era già stato previsto da precedenti dialoghi tra UE e Cina.

Se uno degli obiettivi della politica commerciale comune è proprio quello di sviluppare un commercio mondiale armonioso, scegliere una soluzione di cesura netta come ha fatto il Parlamento Europeo, non è forse la giusta strada per incoraggiare la Cina a proseguire il suo cammino verso l´economia di mercato.

Due dei grandi nodi irrisolti delle relazioni commerciali tra Pechino e Bruxelles sono la difesa della proprietà intellettuale e l’apertura del mercato finanziario cinese. Queste due tematiche dovrebbero essere portate al centro della discussione, nel contesto più ampio delle relazioni sino-europee senza restringere l’intera questione alla salvaguardia di determinati settori industriali europei e farne gli interessi a discapito di altri.

Infine, vi è da considerare che gran parte del dumping cinese è dato da un costo quasi irrisorio della manodopera, anche se recentemente i diritti dei lavoratori cinesi stanno migliorando (infatti le imprese occidentali tendono a ricollocare i propri centri produttivi in Vietnam e Bangladesh).

Questa occasione, al di là di un mero riconoscimento di una diversa metodologia di calcolo nei dazi anti-dumping, potrebbe essere un ulteriore passo verso la stabilità delle relazioni globali ed un miglioramento del tenore di vita di entrambe le parti, a patto che non si scelga di percorrere un vicolo cieco, quale è il mancato riconoscimento in tutto e per tutto.


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Scritto da
Federico Damin

23 anni, studente di giurisprudenza a Trento al quinto anno, affascinato dalle politiche energetiche, dall'intervento statale e dall'Estremo Oriente.

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