Scritto da Giacomo Bottos
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Negli ultimi anni le mobilitazioni dei rider sono state in grado di ottenere uno spazio rilevante nel dibattito pubblico, non solo per quanto riguarda il lavoro dei ciclofattorini. L’attenzione che hanno saputo generare ha infatti coinvolto, più in generale, anche altre forme di lavoro legate alla gig economy e alle piattaforme, mettendo in luce la necessità di regolamentare queste nuove forme economiche. Per approfondire le mobilitazioni dei rider nel recente passato e per provare a cogliere alcuni elementi dello sviluppo futuro delle loro rivendicazioni, abbiamo intervistato Riccardo Mancuso, delegato FILT CGIL e rappresentante del coordinamento nazionale “RiderXiDiritti”. Mancuso segue da tempo le esperienze di organizzazione dei rider ed è stato tra gli esponenti di “Riders Union”.
Di per sé un lavoro simile a quello svolto dai rider esiste da tempo; ad essere nuove sono ovviamente le caratteristiche legate al fatto che questo lavoro è mediato dalle piattaforme tecnologiche. Questo introduce una serie di problematiche nuove – pensiamo ad esempio a quelle legate all’organizzazione dei lavoratori –. Ripensando agli inizi del settore, come si presentava la situazione quando è stata introdotta – anche a livello di immaginario – questa “nuova” figura professionale?
Riccardo Mancuso: La situazione iniziale – in quella che fin da subito si è configurata come una periferia del mondo del lavoro – era per molti aspetti paragonabile ad una “giungla”. Gli stessi lavoratori facevano fatica anche a riconoscersi come tali. Ad essere riconosciuta era al massimo una forma di collaborazione con le piattaforme. E, di fatto, una app era l’unica interfaccia per i lavoratori. Proprio per questo il primo ostacolo che abbiamo dovuto affrontare è stato farci riconoscere dall’opinione pubblica come lavoratori. All’inizio era infatti molto diffusa l’idea che quello del rider fosse più un hobby che un “vero lavoro”. Il primo passo è stato conoscersi tra colleghi, proprio perché c’era un’atomizzazione fortissima tra i lavoratori e mancava la coscienza della propria peculiare situazione e della connessione con la situazione degli altri lavoratori. Ma c’era anche un problema legato al riconoscimento della valenza sociale del lavoro che i rider facevano, e fanno tuttora, nelle nostre città. Questo è stato chiaro nel periodo della pandemia, quando ai rider è stato chiesto di continuare a lavorare e di dare un contributo fondamentale per consentire a tutti di vivere in sicurezza.
A Bologna siete stati protagonisti di un primo esperimento di organizzazione dei rider, che ha tracciato una strada anche a livello nazionale. Come si è articolato questo percorso?
Riccardo Mancuso: Qui a Bologna la data che tutti ricordiamo e che ha segnato l’inizio del protagonismo dal basso dei lavoratori è stata quella della nevicata del novembre del 2017. È stato un evento che ha compromesso le condizioni di sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici, a cui veniva comunque chiesto di continuare a lavorare come se nulla fosse. Ciò ci ha posti di fronte all’esigenza di interrompere il servizio. Partendo da qui – e dal tema della sicurezza, come è avvenuto in passato per molte categorie di lavoratori – abbiamo creato una piattaforma programmatica, perché ci siamo resi conto che il settore era completamente sprovvisto di diritti e tutele. Questo è stato subito chiaro agli occhi di chi aveva conosciuto il mondo del lavoro in precedenti esperienze e di coloro che provenivano da percorsi di attivismo politico. Anche grazie a questo retroterra è stato possibile mettere in piedi “Riders Union Bologna”, punto di partenza per un percorso diventato poi di carattere nazionale. Bologna è stata tra le prime a muoversi, insieme a Milano a Torino, e superando le diversità si è riusciti a porsi un obiettivo comune, a costruire un’unitarietà di intenti, che è stata alla base di “RiderXiDiritti”, un coordinamento nazionale in cui si sono riunite tutte le esperienze sindacali dei rider attive nei territori, unendo all’interno dello stesso ambito di discussione rappresentanti dei sindacati autonomi e rappresentanti dei sindacati confederali. Il coordinamento riunisce trenta realtà, dal Sud al Nord del Paese: da Palermo, Catania, Bari e Brindisi fino ad arrivare a Bologna, Milano e Torino. In questo contesto è possibile creare delle rappresentanze territoriali e partecipare dando vita ad una lotta che non riguarda soltanto i rider, ma mette in discussione un modello di lavoro precario segnato dalle contraddizioni generate dall’innesto delle nuove tecnologie all’interno del mondo del lavoro. Non a caso, la nostra battaglia si incardina su un messaggio che abbiamo utilizzato fin dal principio, partendo da Bologna: “non per noi ma per tutti”. A nostro avviso si tratta di un elemento molto prezioso, che ha favorito un riconoscimento pieno anche da parte di altre frange del precariato rispetto alla nostra battaglia, che ha saputo parlare ad altre categorie di lavoratori che vivono la precarietà come una condizione esistenziale.
Qual è stato l’impatto della pandemia sul vostro settore e sulle vostre rivendicazioni?
Riccardo Mancuso: L’impatto della pandemia è stato drammatico, perché i lavoratori hanno fronteggiato non solo il nemico invisibile del virus, ma anche le costrizioni dettate dall’algoritmo, che li obbligava a lavorare in condizioni di sicurezza ridotte, dovendosi accalcare nei pressi degli esercizi commerciali, in un regime di cottimo, in un clima di tensione sociale e malcontento e nell’assenza delle relazioni basilari tra le persone. Non avere più la possibilità di un contatto fisico o verbale ha mostrato quanto un’organizzazione del lavoro discriminante possa incidere sulle persone. I lavoratori, spesso non dotati di dispositivi di protezione individuale hanno dovuto gestire, in una corsa contro il tempo e contro il virus, il flusso delle consegne esploso con la pandemia. In quel periodo abbiamo vissuto davvero un bruttissimo clima e per qualche tempo abbiamo dovuto lavorare in condizioni quasi inagibili. Per questo a Bologna ci siamo astenuti dal lavoro per un certo periodo. Poi sono arrivate le prime sentenze, che hanno riconosciuto il dovere da parte del datore di lavoro di fornire quantomeno i dispositivi di protezione individuale. La pandemia ha fatto da acceleratore di processi, qui come altrove, e ha svelato tutte le storture esistenti nel food delivery. Però contemporaneamente ha permesso l’ulteriore affermazione delle multinazionali dell’economia delle piattaforme come grandi player che hanno beneficiato più di tutti gli altri nel momento della crisi, ponendosi come soggetti dominanti nel mercato.
La vostra categoria ha avuto negli scorsi anni una visibilità particolare ed è diventata in qualche modo emblematica di tutta una serie di trasformazioni che stanno avvenendo nel mondo del lavoro e delle ricadute dell’economia digitale. Questa maggiore condizione di visibilità vi ha messo nella posizione di rappresentare dei cambiamenti, magari anche a favore di altre categorie, che sono meno visibili nell’opinione pubblica. Quali spazi esistono per svolgere un ruolo di rappresentanza rispetto ad altre categorie di lavoratori?
Riccardo Mancuso: Abbiamo avuto fin dal principio l’intenzione di creare degli avanzamenti che andassero oltre il food delivery, perché da subito abbiamo avuto la netta impressione che questo settore fosse soltanto la “punta dell’iceberg”, il terreno di prova su cui si giocava la partita del futuro del mondo del lavoro. Le piattaforme estrattive sono una sovrastruttura che viene utilizzata per cercare di neutralizzare il conflitto, tagliare il costo del lavoro e quindi disegnare un modello che deve in qualche modo essere contrastato. Questo deve avvenire non solamente sul piano sindacale, è una battaglia culturale che interessa anche la politica e che deve intersecare le altre forme di attivazione presenti a livello sociale nel Paese e nei territori, in Emilia-Romagna e altrove. Abbiamo capito da subito che era questa la responsabilità che eravamo chiamati ad assumerci, e oggi siamo alla prova di maturità. Abbiamo ottenuto risultati sul piano contrattuale: con il contratto di Just Eat finalmente siamo giunti al pieno riconoscimento dei rider come lavoratori subordinati. L’altra grande partita che si apre ora è quella del controllo dei dati, della privacy dei lavoratori e dei clienti, e dunque del controllo dei bisogni e delle esigenze delle persone.
Cosa significa lavorare per una piattaforma? Che impatto ha sul rapporto di lavoro?
Riccardo Mancuso: Queste piattaforme sono disegnate a partire dagli obiettivi dei datori di lavoro. Un elemento che emerge chiaramente dalle sentenze che sono state promulgate a Bologna e a Palermo è il carattere discriminatorio degli algoritmi nei confronti dei lavoratori. Ad esempio, se i lavoratori scelgono di scioperare durante gli orari di punta vengono pesantemente penalizzati dall’algoritmo. Infatti le app prevedono un ranking nel quale il lavoratore viene classificato. Questo ranking era esplicito fino a qualche mese, ora vi è anche la possibilità di un free login, ma vi è ragione di pensare che il ranking, anche se non visibile, rimanga presente. La logica del ranking è sostanzialmente quella di valutare l’affidabilità e la partecipazione del lavoratore ai turni di punta, ovvero quelli del fine settimana. Fino a qualche tempo fa era esplicito che se un lavoratore non partecipava a determinate sessioni subiva una penalizzazione. Dunque chi scioperava durante quelle ore di lavoro aveva minori opportunità di lavoro nei periodi successivi.
Come si è arrivati al risultato contrattuale che hai menzionato prima?
Riccardo Mancuso: Il contratto di Just Eat è un modello e per ricostruire il percorso che ha portato ad esso bisogna partire da quello che era l’intento dei lavoratori: quello di andare nella direzione di un lavoro pienamente riconosciuto come subordinato, con i relativi diritti e tutele, con un salario garantito a tutti e la possibilità di accesso al lavoro e a un monte ore garantito, con un’adeguata copertura assicurativa. L’altro punto chiave consisteva nella possibilità di definire dal basso una piattaforma rivendicativa, finalizzata ad una discussione con le aziende sul tema del riconoscimento della rappresentanza organizzata dei lavoratori e sulla questione dell’organizzazione del lavoro, che è cambiata radicalmente. Non si può pensare che le aziende possano continuare ad operare con criteri di unidirezionalità. Devono mettere i lavoratori a conoscenza del funzionamento del sistema e della sua implementazione con l’utilizzo delle piattaforme e degli algoritmi. È un tema molto importante per il sindacato, per la politica e per il futuro del mondo del lavoro, e noi siamo ben consapevoli che si tratta del prossimo passo in avanti che bisogna fare.
Sul tema della trasparenza sul funzionamento dell’algoritmo, legato strettamente alla questione dei dati, è stato fatto qualche passo avanti oppure ci troviamo di fronte a una situazione di stallo?
Riccardo Mancuso: Si tratta di un tema globale. C’è un confronto con referenti delle aziende a livello nazionale, ma su questi temi la discussione è demandata in queste multinazionali al livello più elevato. Noi riteniamo quindi che la discussione debba essere portata su un altro livello. Non è un caso che a livello europeo ci sia stata una presa di posizione netta da parte del Parlamento per andare incontro alle esigenze dei lavoratori con una direttiva che regolamenti finalmente questo settore. C’è infatti una certa recalcitranza da parte delle multinazionali che non vorrebbero abbandonare l’equilibrio precedente, caratterizzato da un basso costo del lavoro e dalla sua deregolamentazione e da sistemi fiscali e contributivi elusivi e ambigui. L’organizzazione di questo settore ci pone quindi di fronte ad una questione globale, in cui tutti questi elementi si intrecciano, per arrivare fino al tema dell’utilizzo dei dati sensibili del cliente e dei lavoratori. Proprio quest’ultimo è il tema che va ora messo al centro e posto all’attenzione delle istituzioni, un tema che riguarda non soltanto i rider e i lavoratori delle piattaforme, ma tutti noi. Su questo c’è la possibilità di coinvolgere attivamente anche gli utenti e la cittadinanza nelle nostre mobilitazioni e nelle nostre lotte. È interesse di tutti costruire una visione diversa.
Ci sono state delle esperienze di sperimentazione interessanti nelle quali si è cercato di affrontare alcuni di questi problemi? La scala cittadina può aiutare o bisogna lavorare comunque anche su altri livelli?
Riccardo Mancuso: Esistono esperienze virtuose, ad esempio nell’ambito del cooperativismo: lavoratori e lavoratrici che hanno manifestato la volontà di opporre un modello organizzativo alternativo rispetto a quello propugnato dalle multinazionali. Stiamo parlando di realtà che da un punto di vista etico si sono poste su un versante completamente diverso rispetto a quello delle piattaforme estrattive. Si tratta di esempi virtuosi, che devono però ancora svilupparsi ed essere implementati maggiormente. A Bologna ci sono realtà che sono state strutturate nel territorio come “Consegne etiche”, c’è un’esperienza simile anche a Firenze, mentre a Barcellona si può ricordare “Riders X Derechos”, che ha messo in piedi una grande cooperativa di lavoratori. Importante è stato anche l’esempio di “CoopCycle” a Parigi. Si tratta di esperienze importanti, animate da intenti condivisibili e che stanno ottenendo un radicamento sul territorio, ma bisogna sempre tenere presente l’obiettivo di garantire a tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici – e non solo ai rider – condizioni di lavoro degne.
Di fronte a quali sfide vi siete trovati cercando di organizzare i lavoratori in un settore come questo? Quali sperimentazioni organizzative avete messo in atto? Avete posto istanze di innovazione e rinnovamento ai sindacati?
Riccardo Mancuso: In effetti in questo settore si ravvisa una componente significativa di innovazione delle pratiche sindacali e Bologna è stato un laboratorio da questo punto di vista. Questa onda lunga di riorganizzazione del lavoro ha colto il mondo sindacale in parte alla sprovvista, e ha segnalato l’urgenza del rinnovamento delle sue pratiche. L’importanza delle realtà autorganizzate nei territori è anche questa: aver saputo interpretare i bisogni dei lavoratori e cogliere il funzionamento di questa nuova modalità di organizzazione del lavoro e della sua strutturazione attraverso le innovazioni tecnologiche. Ci troviamo in un contesto che vede il cambiamento avvenire anche dal punto di vista dello spazio urbano e della sua composizione. Il luogo di lavoro è diventato la strada e i punti di riferimento sono diventati informali. Su questo terreno si sono create anche le realtà autorganizzate, intorno ai punti di socialità dei lavoratori dentro lo spazio urbano. Ciò ha avuto un riflesso particolarmente significativo anche rispetto all’approccio del sindacato. Non è un caso che il percorso di “RiderXiDiritti” sia stato sostenuto in parte anche dal sindacato, a partire da un riconoscimento fattuale dell’importanza del lavoro svolto in questi anni da parte delle realtà autorganizzate. C’è stato quindi un processo virtuoso di scambio e ibridazione tra realtà auto organizzate e i settori più consapevoli del sindacato.
Siete stati in grado di coinvolgere una base significativa di lavoratori, anche priva di precedenti esperienze politiche e sindacali?
Riccardo Mancuso: Sicuramente c’è stata un’importante base di riferimento di lavoratori che avevano già un retroterra e strumenti che permettevano loro di leggere la realtà e i processi di trasformazione. Ma se c’è una particolarità e un punto di forza all’interno di questa lotta è stata la capacità di coinvolgere anche lavoratori che erano privi di questo retroterra, che hanno contribuito a costruire una coscienza collettiva, dando apporto fondamentale. Il protagonismo dei rider ci racconta di una forza agita dal basso di centinaia di lavoratori che si sono visti coinvolti all’interno di un percorso grazie alla sperimentazione di nuove pratiche di democratizzazione nei luoghi di lavoro, che sono state poi codificate e tradotte in nuovi diritti. La sfida ulteriore è quella di collegare queste ed altre rivendicazioni, ad esempio nel più vasto settore della logistica. Per ottenere questo risultato occorre molto impegno. Stiamo spingendo per una strutturazione e una regolamentazione del settore e nel fare questo stiamo avviando un dialogo con altre realtà. L’orizzonte è quello di una collaborazione tra categorie che abbiano la forza di combattere per una visione e un modello di lavoro che fino ad oggi è stato precarizzato e posto in una condizione di grandissima difficoltà.
Per quanto riguarda i lavoratori impiegati nelle grandi imprese tecnologiche, avete la percezione che vi sia un qualche tipo di consapevolezza e sensibilità rispetto a questo insieme di problematiche?
Riccardo Mancuso: I tech worker sono un’ampia e diversificata categoria di lavoratori con i quali intendiamo avviare un percorso che porti ad un confronto con l’obiettivo di collaborare insieme agli altri pezzi del mondo del lavoro che stanno ugualmente sperimentando l’ingresso di innovazioni tecnologiche. Quello che è chiaro è che se restiamo sul versante della frammentazione e se permettiamo che ci sia un progresso disegnato esclusivamente dalle multinazionali che non guarda agli interessi e ai bisogni dei lavoratori, ad oggi dispersi e divisi non per volontà loro ma a causa di una parcellizzazione dall’alto, sarà difficile compiere passi avanti reali. La nostra posizione è quella di creare un fronte unitario che mostri una visione alternativa del mondo del lavoro. Una visione che parli di unità indipendentemente dal riferimento a questo o quel lavoratore, indipendentemente dalla mansione che svolge, e anche unitarietà di intenti rispetto a tutti quegli elementi del processo produttivo che oggi sono controllati in modo unidirezionale dalle piattaforme e dalle big tech.
Di recente avete svolto iniziative significative anche a livello europeo. Quali sono stati gli esiti e, più in generale, che possibilità vedete per un’azione a livello delle istituzioni comunitarie?
Riccardo Mancuso: Abbiamo portato in sede di Commissione Lavoro al Parlamento Europeo, all’attenzione del Presidente Nicolas Schmit, la posizione del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici. Poco prima abbiamo discusso assieme alle rappresentanze provenienti da numerosi Paesi europei all’interno di un’assemblea molto partecipata e concorde nel portare con fermezza le rivendicazioni storiche che ci vedono impegnati nella lotta contro la falsa autonomia nella gig economy, la prepotenza prevaricatrice delle multinazionali le quali, grazie alla narrazione che vorrebbe la tecnologia come uno strumento neutro e autoregolato, hanno determinato una condizione precaria di vita e di lavoro per migliaia di persone. Due i punti fondamentali e inderogabili: riconoscimento dello status di lavoratori subordinati con accesso a diritti e tutele pieni e trasparenza dell’algoritmo. Il piano internazionale è stato per noi sempre un aspetto fondamentale. Anzi, potremmo dire che il movimento dei rider è un movimento che si dà come internazionale sin dall’origine. E questo non solo perché anche in Italia abbiamo iniziato a mobilitarci a seguito di quanto avveniva in città come Londra e Berlino già da qualche anno, ma perché questa economia – quella di piattaforma – è un’economia che, a differenza del passato, si dà come globale sin dalla sua fondazione. Mi spiego meglio: se abbiamo dovuto attendere quasi 100 anni perché il taylorismo si diffondesse fuori dai confini dell’occidente – peraltro paradossalmente proprio a seguito della crisi che questo aveva conosciuto soprattutto in Europa – oggi abbiamo piattaforme digitali non solo a Bologna, Parigi o New York, ma anche a Buenos Aires, Nairobi, Calcutta ecc… È per questo motivo che già nel 2018 abbiamo fondato l’International Federation of Couriers, tra le promotrici di un importante sciopero internazionale, o che già da diversi anni abbiamo dato vita assieme agli altri lavoratori di piattaforma (come gli autisti di Uber, i lavoratori e le lavoratrici delle app di lavoro domestico) al Forum transnazionale per le alternative all’uberizzazione. Il risultato è una proposta di Direttiva Europea che ci soddisfa nel merito, riconoscendo come prioritario un intervento che punti ad una uniformazione regolamentazione del settore afferente ai platform worker, con un punto fondamentale che prevede inoltre la cosiddetta inversione dell’onere di prova a carico dell’azione nel caso in cui si volesse dimostrare in sede giudiziale che non siamo lavoratori dipendenti ma autonomi, con gli oneri di avvio di eventuali processi a carico delle aziende, a differenza di quanto avveniva in passato. Dal basso torneremo a spingere affinché venga riaperto un confronto con le aziende facenti capo ad AssoDelivery, auspicando una presa di coscienza da parte delle istituzioni qualora le multinazionali fossero restie, per rimettere al centro il lavoro e anticipare parte dei contenuti che riteniamo indispensabili che vadano nella direzione di una soluzione alle criticità che hanno costretto i lavoratori e le lavoratrici a condizioni di precarietà e sfruttamento.
Quali prospettive ulteriori vi ponete per il futuro?
Riccardo Mancuso: Come detto, la sfida principale è costituita dalla contrattazione di quegli elementi fino a questo momento monopolizzati da azioni unilaterali da parte delle aziende: gestione dell’algoritmo e dei dati personali e organizzazione del lavoro e delle varie fasi del processo produttivo. Crediamo inoltre che sia centrale il tema della formazione continua dei lavoratori per garantire una partecipazione attiva e una tutela rispetto al tema della sicurezza sul luogo di lavoro. In realtà, quanto fatto sino ad ora è soltanto una piccola parte di ciò che servirebbe per mettere davvero in discussione il potere di piattaforma. Questo perché, anzitutto, quando ci troviamo di fronte le grandi piattaforme non abbiamo a che fare con aziende come le altre. Perché a nutrire la loro continua espansione e a rendere possibile la loro pervasività nelle nostre vite – che ben abbiamo visto durante la pandemia dove è stato necessario ricorrere a piattaforme digitali anche per comunicare con i nostri amici o per garantire un diritto costituzionale come quello all’istruzione – sono i dati che continuamente produciamo. Se fino ad ora siamo riusciti a convincere i governi dell’Unione Europea che, anche se usano uno smartphone, i rider e i lavoratori di piattaforma sono lavoratori come gli altri, ora dobbiamo convincere che i rider (e gli altri lavoratori di piattaforma) non lavorano soltanto quando consegnano, ma tutte le volte che sono costretti a cliccare sullo smartphone, per prenotare un turno, per segnalare i loro movimenti. Insomma, ormai non è più soltanto una questione di privacy, ma c’è da capire seriamente come regolare – e redistribuire – questa continua estrazione di valore che le piattaforme compiono nelle nostre vite. Per quanto riguarda i rider, torneremo a mobilitarci per rivendicare un miglioramento delle nostre condizioni di vita e di lavoro, contro il modello di lavoro precario che priva di dignità il lavoro e per vedere riconosciuto il valore sociale della nostra figura professionale. Riteniamo che una convergenza di forze, oltre ogni particolarismo, in un mondo del lavoro che sta vivendo processi di precarizzazione in espansione, sia necessaria e fondamentale. Dalle strade delle nostre città vogliamo che il protagonismo dei soggetti del precariato torni ad emergere per spezzare la catena di sfruttamento e di abbruttimento del lavoro attraverso il coinvolgimento, la partecipazione e la lotta. Sentiamo la responsabilità di essere un motore di cambiamento e rinnovamento anche all’interno della compagine sindacale che si sta aprendo alla necessità di trarre nuova linfa per l’introduzione di una nuova generazione di rappresentanti sindacali che dalla strada hanno dimostrato di sapersi districare nei rapporti con le istituzioni e nelle fasi di confronto con la parte datoriale.