Riflessioni sul modello di sviluppo cinese. Intervista a Gabriele Battaglia
- 27 Novembre 2023

Riflessioni sul modello di sviluppo cinese. Intervista a Gabriele Battaglia

Scritto da Clara Galzerano

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Tra i Paesi che negli ultimi decenni hanno conosciuto un’importante traiettoria di sviluppo e modernizzazione la Cina rappresenta sicuramente il caso più significativo. Si tratta naturalmente di una parabola di sviluppo con caratteristiche peculiari che discendono dal modello economico-politico del “socialismo con caratteristiche cinesi” che vede una commistione tra economia di mercato e forte controllo politico. Questa stagione di sviluppo non è stata esente da forti contraddizioni e la stagione attuale presenta nuovi dilemmi che il Paese deve fronteggiare. In questa intervista Gabriele Battaglia giornalista che ha vissuto per più di dieci anni a Pechino ed è stato corrispondente per la Radiotelevisione della Svizzera Italiana (RSI) e per Radio Popolare riflette su queste tematiche a partire dal suo ultimo libro Massa per velocità. Un racconto dalla Cina profonda (Prospero Editore).


Massa per velocità è molte cose: è un diario di quarantena a Pechino scritto tra il 2020 e il 2021, è un racconto di viaggio in una delle contee più povere della Cina, ma anche una raccolta di storie vissute durante la sua lunga permanenza nel Paese asiatico. Partiamo però dall’inizio: lei si è trasferito a Pechino nel 2011, cosa l’ha fatto avvicinare ad un Paese complesso come la Cina?

Gabriele Battaglia: Ho iniziato negli anni Novanta a fare viaggi in Oriente, ma non in Cina, in “altri orienti”, ed è un universo che mi ha sempre intrigato molto dal punto di vista filosofico-culturale, probabilmente a causa della mia formazione politica: provengo dall’area antagonista e sostanzialmente mi interessava molto l’uomo confuciano. Una delle questioni per me nodali, che ero interessato a risolvere, era quella della contraddizione tra dimensione collettiva e dimensione individuale, un tema che viene spesso problematizzato all’interno dei movimenti politici. Mi sembrava invece che nello “Oriente allargato”, quello con impronta confuciana, questa contraddizione non fosse tale e, anzi, che le due dimensioni fossero strettamente connesse: qui l’individuo trovava la propria realizzazione solamente se inserito in una dimensione collettiva. In secondo luogo, l’Oriente rappresentava un elemento di alternativa al pensiero dominante neoliberale occidentale: ero interessato ad indagare quelle realtà capaci di mettere in dubbio questo pensiero unico e la Cina era il grande “altro” che stava emergendo. Infine, per mantenere un occhio sul presente, mi piaceva l’idea di collocarmi nel punto privilegiato da cui osservare i processi di globalizzazione: in quel momento era la Cina the place to be. Ci sono anche fattori di carattere personale, ma l’idea di andare in Cina è probabilmente sempre stata nel mio retropensiero ed è maturata dopo il G8 di Genova: lì mi sono reso conto sulla mia pelle che si era chiusa una fase e che quindi avevo bisogno di cambiamento, di innescare qualcos’altro. Ho iniziato prima a occuparmi di Cina, dove ero andato per la prima volta nel 2006 e che poi avevo iniziato a frequentare ogni anno, e in seguito a studiare il cinese; nel 2011 ho deciso infine di trasferirmi definitivamente. Questo, in sintesi, è il percorso che mi ha portato in Cina.

 

In Massa per velocità della Cina lei dice di amare «l’incoerenza semantica ripetuta all’infinito» determinata da due fattori: «la velocità […]; e la dimensione massiva che assume, come tutto, in Cina». Leggendo il libro però pare che già tra il 2020 e il 2021 qualcosa stesse cambiando nella Repubblica Popolare Cinese (RPC). Ossia che gli elementi di contraddizione di cui parla e da cui è rimasto affascinato stessero venendo meno, soprattutto in riferimento alla capitale Pechino. È così?

Gabriele Battaglia: Sì. Potrebbe anche esserci un elemento di carattere personale e biografico: dopo dieci anni trascorsi in Cina non vedi più le cose come fosse la prima volta, non ti meravigli più come all’inizio. Ciononostante, è anche vero che si è assistito, dal 2014-2015 in poi, qualche anno dopo l’ascesa al potere di Xi Jinping (iniziata nel 2013), ad un tentativo di razionalizzare la Cina, di ridurre le contraddizioni e i contrasti all’interno del Paese. Questa politica, che, a mio avviso, è anche una grande vetrina di come la Cina si vuole autorappresentare, ha portato, soprattutto nelle grandi città, ad una certa rigidità. Un fenomeno come lo svuotamento e la ricostruzione degli hutong – i vicoli nel centro di Pechino –[1] o come l’espulsione dei migranti, di quella popolazione fluttuante che era stata motore del boom economico del Paese, dal centro delle grandi città a quelle di nuova costruzione sono dei processi di grande ingegneria sociale, che riducono di molto la complessità del Paese. Oggi l’economia è cambiata e servono meno manodopera e più competenze per la produzione di servizi ad alto valore aggiunto. Anche la questione ecologica diventa un mezzo per attuare l’ingegneria sociale: l’inquinamento e le fasce della popolazione più povere vengono spinti fuori dalle città, con l’obiettivo di rendere i centri urbani prosperi, sostenibili e armoniosi. L’impressione per chi ci vive è quella di rimanere incastrati dentro a questi meccanismi e tentativi di razionalizzazione. Il processo poi è stato accentuato e velocizzato da quell’evento eccezionale che è stato il Covid-19, che ha funzionato come metafora: i grandi confinamenti rappresentavano proprio l’esasperazione del processo di sistematizzazione e inscatolamento, anche se poi queste stesse pratiche rivelavano comunque l’irrazionalità cinese. Con quella bisogna sempre fare i conti, essendo un Paese così anomalo e così grande.

 

I cambiamenti di cui parla hanno quindi a che fare con il nuovo percorso di sviluppo cinese, che mira a trasformare il Paese in una “società moderna, forte, prospera, democratica e culturalmente avanzata e armoniosa”. Quali sono i punti caratterizzanti del modello Cina, quelli che hanno permesso la crescita del Paese negli ultimi quarant’anni?

Gabriele Battaglia: Tutti gli Stati dell’Asia orientale sono Stati “sviluppisti”. La Cina ha però una sua particolarità: è l’unico ad aver percorso questo sviluppismo in un quadro politico-istituzionale di tipo diverso, cioè non nel contesto di uno stato liberal-democratico capitalistico, ma socialista. L’altra peculiarità sta nelle dimensioni della Cina, nella sua massa per velocità, appunto. In questo contesto, la Cina tende a rappresentare la propria storia secondo un continuum, a differenza nostra, che, invece, vediamo una contraddizione tra la Cina di Mao Zedong (1949-1976), quella di Deng Xiaoping (1978-1992) e quella contemporanea. C’è un episodio che cito nel libro che rende bene l’idea. Era il 1° ottobre 2019, ricorreva il settantesimo anniversario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese, e nella periferia urbana di Pechino mi ritrovai a parlare con un signore che, mentre guardava il presidente Xi Jinping sfilare alla televisione, quasi commosso, mi disse: «Mao ci ha fatto rialzare in piedi, Deng ci ha fatto arricchire e “questo qua” [Xi] ci renderà di nuovo grandi». L’idea di una continuità, certamente promossa e avvalorata dal Partito Comunista Cinese (PCC), è quindi molto diffusa. Io tendo a credere che il marxismo cinese declinato nel maoismo sia stato un dispositivo di modernizzazione: dal momento di inizio del cosiddetto secolo dell’umiliazione, che coincide con il periodo che va dalla Prima guerra dell’oppio (1839-1842) in poi, c’è sempre stato il tentativo costante di recuperare il terreno perso nei confronti dell’Occidente e questo sforzo è stato declinato in modi diversi in base al periodo storico. Lo sviluppismo, in questo senso, è una costante della storia cinese, ma negli ultimi quarant’anni ha assunto delle caratteristiche comuni al capitalismo, pur con peculiarità cinesi. Lo Stato sviluppista, anche in Giappone e in Corea del Sud, non lascia quasi mai totale libertà alle forze di mercato di esprimersi, ma si destreggia in un gioco che si basa sulla dialettica tra controllo dello Stato – player importantissimo nel veicolare risorse ed organizzarle, nel dare impulso a certi settori piuttosto che ad altri – e le libere forze di mercato. Quello che abbiamo osservato in Cina negli ultimi quarant’anni è questa altalena continua tra fasi in cui si lascia correre lo spirito animale del capitalismo – si pensi allo sviluppo che hanno avuto negli ultimi dieci anni il settore delle imprese tecnologiche e quello della finanza – e la ripresa in mano da parte del Partito-Stato di queste dinamiche di sviluppo. Tale oscillazione è dovuta al fatto che il motore del mercato può incepparsi, creando poi dei grandissimi scompensi che, su scala cinese, diventano veramente problematici. Quindi lo Stato sviluppista cinese è fortemente connotato dalla presenza dello Stato che organizza le risorse, pur non essendo l’unica realtà asiatica da questo punto di vista.

 

La Cina popolare oggi può dunque definirsi a tutti gli effetti un Paese capitalista?

Gabriele Battaglia: Sì, e per rispondere mi rifaccio alle riflessioni di Branko Milanović, economista serbo che si occupa di temi come disuguaglianza e sviluppo, autore di Capitalism, Alone. The Future of the System that Rules the World[2]. Utilizzando le categorie di Marx e di Weber, Milanović afferma che una società può essere definita capitalista quando la maggior parte della produzione avviene utilizzando mezzi di produzione privati; quando la maggior parte dei lavoratori sono salariati; quando la maggior parte delle decisioni sulla produzione e sui prezzi sono presi in maniera decentralizzata, cioè senza che nessuno li imponga alle imprese. Su tutti e tre i fronti la Cina appare decisamente capitalista, anche se c’è una forte presenza dello Stato, che ogni tanto richiama all’ordine le energie vitali del mercato, come già accennato. Prima delle riforme inaugurate da Deng Xiaoping (1979), la quota di produzione che faceva capo alle imprese statali si aggirava intorno al 100%, perché le industrie erano quasi tutte di proprietà dello Stato. Nel 1998 la quota dello Stato nella produzione industriale si era già dimezzata e oggi è di poco superiore al 20%; per quanto riguarda l’agricoltura, il fenomeno è ancora più marcato. Dopo l’introduzione del sistema di responsabilità familiare e l’abolizione delle comuni agricole nei primi anni Ottanta, quasi tutti sono diventati prima coltivatori diretti, poi piccoli mercanti, e così via. La Cina è sicuramente uno Stato capitalista, ma, certo, di un capitalismo diverso. Che poi questa fase di capitalismo, come dicono alcuni marxisti millenaristi, sia una fase in direzione della creazione del socialismo, questo non lo sappiamo. Il modello cinese è comunque connotato anche da caratteristiche tipiche di altre società: ad esempio, un elemento comunista tipicamente cinese è quello della mobilitazione di massa, di cui parlo molto del libro. Di fronte a situazioni eccezionali, sia positive che negative, la Cina è in grado di scatenare queste forme di mobilitazione, un dispositivo che a noi sfugge e che non riusciamo a comprendere fino in fondo. L’abbiamo vista impiegare questa strategia a fronte di sfide di diverso genere, come nell’organizzazione delle Olimpiadi o nella gestione dell’emergenza Covid. E poi c’è la presenza capillare del Partito Comunista, che non si colloca “sopra”, ma “dentro” la società cinese. Il Partito è la persona comune, è il tuo vicino di casa, che entra in gioco e si mobilita nel momento di emergenza. Ad esempio, il Partito è quella persona che durante la pandemia organizzava la chiusura dei cancelli dei compound per tenerne aperto solo uno in modo da agevolare i controlli per il Covid. È difficile dunque scindere il popolo dal governo. Nel ceto medio urbano difficilmente troverai qualcuno che parla bene del PCC, così come da noi non c’era nessuno che parlava bene della Democrazia Cristiana, o nessuno che parla bene dei governi che si susseguono al potere, ma nelle pratiche quotidiane esiste questo rapporto di interazione continua tra la base della società e il governo.

 

Quanto incide nella formula del successo del modello cinese il fatto che nel Paese viene promossa una narrazione collettiva e che il Partito fornisce una chiave di lettura molto chiara del presente e proietta le proprie politiche nel futuro?

Gabriele Battaglia: Certamente conta, ma dobbiamo raffinare l’idea di una Cina monolitica e di una propaganda rigida che cade dall’alto. La Cina è molteplice e il Paese è caratterizzato da un vivo dibattito interno. Certo, c’è un pensiero ordinante che viene dall’alto, che veicola quella che è la versione ufficiale. La linea del Partito è resa molto chiara anche grazie alla peculiarità della lingua cinese, che è molto simmetrica e si presta ad inquadrare concetti complessi in slogan efficaci. I cinesi sono però consapevoli dell’importanza della politica e della propaganda e scelgono di riposizionarsi a seconda del messaggio che viene dall’alto. Il che non significa necessariamente che lo adottino al 100%, ma cercano di perseguire i loro interessi a seconda del messaggio che viene veicolato. Vedi cosa sta succedendo nel settore immobiliare: nonostante i moniti del governo, i cinesi hanno continuato ad investire, perché, da quanto ho constatato mentre ero in Cina, alcuni si rendevano conto, proprio a causa di queste direttive, che il potere non riusciva a frenare il mercato immobiliare. Poi il governo ha dovuto introdurre delle misure ad hoc che lo hanno stroncato, con l’effetto che ci sono stati dei fallimenti a catena che hanno portato alla complessa situazione a cui assistiamo adesso. È un esempio molto interessante per restituire un’immagine dei cinesi come persone pensanti, non come una massa di pecore condizionate dalla propaganda, perché in Occidente, a volte per ignoranza, a volte perché fa comodo, l’immagine che passa è quella che i cinesi siano o dei dissidenti, dei perseguitati, oppure dei “pecoroni”. Questo processo è poi fondamentalmente una forma di proiezione di noi stessi e delle nostre esigenze sui cinesi.

 

Cosa può fare allora l’informazione al fine di agevolare un dibattito franco e costruttivo sulla Cina popolare? Quali sono i problemi dell’informazione del nostro Paese in questo senso?

Gabriele Battaglia: L’informazione italiana ha un vizio di forma che viene da lontano: è sempre stata condizionata dalla ragion politica. C’è poi un altro elemento, che ha a che fare con la mancanza di risorse, fattore che rende il nostro sistema mediatico più debole rispetto a quello in cui operano le grandi agenzie internazionali, che invece dispongono di mezzi incredibili. Si può certo parlare anche di un problema di competenze, ma a ciò si aggiunge un altro fatto piuttosto recente e che ho sperimentato in prima persona. La percezione è che i cinesi rendano sempre più difficile ai giornalisti fare il proprio mestiere. Pur non divulgando i soliti stereotipi e cliché sulla Cina, è difficile avere accesso ai luoghi e alle informazioni. È sempre stato difficile, ma prima era perlomeno possibile. È una tendenza che, anche in questo caso, è peggiorata con il Covid, ma credo sia andata delineandosi quando i cinesi hanno cominciato a sentirsi sotto pressione in concomitanza della guerra commerciale inaugurata da Donald Trump e da quando Xi Jinping ha cercato di imporre sempre di più un’industria culturale di Stato, una linea di condotta un po’ più rigida. Il giornalista che vuole fare seriamente il proprio mestiere si trova letteralmente schiacciato tra un Occidente che vuole sentirsi dire solamente alcune cose e una Cina che non ha più voglia di farsi raccontare, perché vuole prendere in mano il racconto di sé stessa.

 

I problemi economici che sta fronteggiando la Cina sono legati alla crisi del mercato immobiliare, all’aumento della disoccupazione giovanile e alla sfiducia del popolo cinese nel futuro, tutti elementi che lei analizza anche in Massa per velocità e che dunque costituiscono da almeno qualche anno dei nodi importanti della politica e dell’economia cinese. Come interpreta questa crisi e i fattori che l’hanno scatenata?

Gabriele Battaglia: Ci sono una serie di problemi che si sono trascinati nel tempo e che la Cina fa fatica a superare. Ad esempio, l’idea dello sviluppo più qualitativo e meno quantitativo: è un obiettivo che non stanno riuscendo a perseguire con la facilità e la velocità che forse immaginavano. Anche la questione delle campagne, che ho affrontato parzialmente nel libro, è cruciale. Pechino desidera consolidare i risultati ottenuti nella lotta contro la povertà nel corso degli ultimi decenni e uno dei temi più importanti per la leadership oggi è l’uscita dalla povertà di quella parte di proletariato che accarezza il sogno di diventare ceto medio. L’idea di “risollevare dalla povertà” i 600 milioni di cinesi a basso reddito che abitano nelle zone rurali e suburbane deriva dalla volontà di sviluppare un nuovo mercato domestico enorme, da sfruttare per la vendita di beni cinesi. Questo, complice il Covid e le difficoltà nel creare uno Stato sociale, non si sta verificando con la prontezza che la leadership si aspettava. Qui ritorna uno dei vizi dello Stato sviluppista, cioè l’idea che la popolazione non sia altro che un mercato di consumatori, e che quindi le campagne debbano svilupparsi grazie ai consumi di prodotti cinesi. Tuttavia, non basta rendere ricca la gente, bisogna anche creare altri tipi di sicurezze, come quelle sociali, ossia un sistema pensionistico e sanitario unificato ed efficiente. Al tempo stesso, è venuta meno proprio la promessa dell’arricchimento. In questo momento chi si trova in Cina osserva che non c’è una condizione realmente prerivoluzionaria, però – e forse ciò è ancora più grave per il Paese – si percepisce la rassegnazione delle nuove generazioni, meno numerose di quelle precedenti – un dato, anche questo, non di poco conto. È finita la rendita demografica, il grande esercito industriale di riserva che ha pompato lo sviluppo cinese, e sembra che la Cina stia perdendo la propria forza propulsiva basata sugli esseri umani. Tutti questi fenomeni sono dunque preoccupanti per il Partito-Stato. Anche se, contrariamente a quanto pensano alcuni, non credo che il patto sociale tra il Partico Comunista Cinese e il popolo sia basato solo ed esclusivamente sulla premessa di arricchimento. Ci sono tanti altri livelli, a volte per noi imperscrutabili, che non rendono la relazione tra i cinesi e il Partito semplicemente un rapporto di scambio. Basti pensare a tutta la retorica nazionalista e all’idea che l’Occidente sia pronto a saltargli alla gola.

 

A proposito del rapporto tra il Partito-Stato e il popolo, quali sono le dinamiche che, secondo lei, hanno portato alle riaperture del gennaio 2023 in Cina, quelle che hanno segnato l’uscita ufficiale del Paese dall’emergenza della pandemia e l’abbandono delle politiche “zero Covid”?

Gabriele Battaglia: A questo proposito consiglio un’ottima ricostruzione pubblicata da Adam Tooze[3]. Quel momento l’ho vissuto praticamente in diretta, perché ho lasciato la Cina il 15 novembre. Eravamo ancora in fase di rigide politiche anti-Covid, però già si percepiva che si sarebbero aperti i primi spiragli. Credo che i cinesi ci abbiano messo un po’ ad elaborare il fatto che con la variante Omicron era cambiato tutto il quadro. Finché la variante Delta era quella dominante, le politiche di lockdown mirati, molto drastici, di azzeramento dinamico erano, dal mio punto di vista, del tutto coerenti per la realtà cinese ed erano sostenute dalla popolazione. Quando è subentrata Omicron, invece, sono cambiate completamente le carte in tavola, essendo una variante poco omicida ma molto contagiosa. Non è possibile controllarla neanche impiegando confinamenti draconiani e, dall’altra parte, potrebbe non esserci un rischio così grande dal punto di vista della tenuta del sistema sanitario o dal punto di vista politico – in confronto ad un’esplosione dei decessi. Per questo hanno poi deciso di ricorrere alle aperture. Mi sembra siano riusciti tutto sommato a gestire il virus, guardando anche ai termini statistici: dal punto di vista dei morti da Covid la Cina ha registrato dati migliori delle liberal-democrazie. Dopo di che, l’effetto di lungo periodo è che il rimbalzo dell’economia che si aspettavano non c’è stato per tante ragioni. Non solo per il Covid, ma anche per la guerra ibrida scatenata dagli Stati Uniti. Adesso i cinesi si trovano ad un bivio e devono capire come procedere sulla via di uno sviluppo che non sia solo crescita, e che guardi quindi anche alle dimensioni sociali e ambientali del progresso, in un contesto interno e internazionale mutato.


[1] Per un approfondimento sul tema, si veda: Gabriele Battaglia, Pechino, l’infinita ricostruzione, «il manifesto», 22 luglio 2013.

[2] In Italia è stato pubblicato da Laterza con il titolo Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro (2020).

[3] Adam Tooze, Chartbook 237: Whither China? (4): Zero-Covid myths, dynamic clearing & the Omicron crisis of 2022, «Chartbook», 3 settembre 2023.

Scritto da
Clara Galzerano

Assegnista di ricerca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia delle istituzioni e del pensiero. Dal Medioevo all’Età contemporanea presso l’Università degli Studi di Trieste e si è laureata in Lingua e cultura cinese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente le relazioni politiche, economiche, culturali sino-europee e la storia dei media nella Cina contemporanea.

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