Sul convegno “Riformabilità o irriformabilità del capitalismo?” – I ‘fondi dei salariati’ in Svezia (Borioni)
- 16 Marzo 2015

Sul convegno “Riformabilità o irriformabilità del capitalismo?” – I ‘fondi dei salariati’ in Svezia (Borioni)

Scritto da Roberto Volpe

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Questo testo è una rielaborazione dell’intervento di Paolo Borioni presso il seminario internazionale “Riformabilità o irriformabilità del Capitalismo? La ricostruzione della sfera pubblica democratica nella crisi permanente”, organizzato congiuntamente dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso e dalla Friedrich Ebert Stiftung il 19-20 febbraio presso Palazzo Giustiniani, Senato della Repubblica.
Sullo stesso tema, Borioni ha recentemente scritto anche su Esseblog. Il suo articolo (“Il Piano Meidner”, 11 marzo 2015) lo trovate a questo link: http://www.esseblog.it/2015/03/il-piano-meidner


Il contesto

Iniziamo dalle radici ideologiche del rapporto tra socialdemocrazia nordica e il concetto di proprietà. Dai suoi teorici (e pratici), la proprietà non è considerata un diritto giusnaturale: trattasi di fenomeno sociale di cui la società può disporre, e che lo Stato, suo creatore, può rimodellare e scomporre.
Come lo scompone? Tramite le politiche attive del mercato del lavoro e la sua regolamentazione, è possibile modificare le condizioni contrattuali dei salariati, intervenendo in questo modo su alcune funzioni della proprietà; una concezione di socializzazione nota come “funktionssocialisme”. Si noti la differenza con la visione più rigida del termine diffusa nel socialismo italiano, ben esemplificata dalla visione di Lombardi secondo cui, nel periodo del centro-sinistra degli anni ‘60, non si era avuta nessuna riforma “degna di questo nome”.

I fondi dei salariati (LTF) – dizione più corretta rispetto a quella comunemente usata di “Piano Meidner”, che è solo una delle proposte avanzate in tal senso – nascono dunque come conseguenza di tale concezione, rappresentata nella pratica da quel particolare sistema di gestione del lavoro, in atto in Svezia dagli anni ‘50, noto come “sistema Rehn-Meidner”.

Suo elemento chiave: nella negoziazione salariale, i salari più bassi devono crescere, relativamente, più velocemente di quanto accada a quelli più elevati. Tale pratica, per essere sostenibile, impone al sistema produttivo un processo di perpetua innovazione.

Conseguenza logica: un’elevata spesa sia in politiche attive del lavoro che in ricerca e sviluppo, due caratteristiche proprie di tutti i sistemi nordici. Tale spinta all’innovazione, con continua distruzione e creazione di posti di lavoro, è dunque accompagnata da accentuata mobilità – anche geografica – dei lavoratori, peraltro una condizione stressante che certo non contribuiva alla popolarità del sistema.

 

Ai fondi dei lavoratori si è così arrivati per induzione strutturale, “schumpeteriana”, endogena a un sistema in cui c’è forte bilanciamento tra politiche della domanda e dell’offerta. Notiamo la forza delle prime: l’intenso aumento dei salari più bassi crea una società in cui il reddito è distribuito in maniera estremamente eguale. L’indice di Gini raggiunto dalla Svezia a metà degli anni ‘80 (0,20), è secondo alcuni inferiore persino a quello delle residue società di cacciatori-raccoglitori.

Tutto questo, chiaramente, non può non essere sostenuto da una forte intensità dell’investimento. Può essa venir garantita dalle naturali dinamiche del capitalismo? Da molto prima del cosiddetto “Piano Meidner”, la confederazione dei colletti blu LO aveva tentato a più riprese di spingere il Partito Socialdemocratico (SAP) al governo a politiche rivolte a stabilizzare il flusso di investimenti. Già dagli anni ‘50, nell’ambito del sistema pensionistico ATP, esistevano fondi di questo tipo.

I progetti

Il vero e proprio piano Meidner, sviluppato dall’economista di LO Rudolf Meidner, viene presentato al congresso del 1976 del suo sindacato. Si tratta di un progetto particolarmente avanzato e ambizioso, con una fortissima carica ideologica.

Alcuni tratti fondamentali: il 20% dei profitti delle medie e grandi imprese sarebbe stato trasferito, tramite l’emissione forzosa di corrispondenti azioni, in un fondo di audit nazionale con ripartizioni settoriali. Al contrario dei fondi pensionistici, non era prevista alcuna titolarità individuale. La rendita sarebbe stata reinvestita in formazione, sicurezza, ricerca… Cosa particolarmente importante, infine, il meccanismo di nomina degli organismi di controllo avrebbe reso i fondi, di fatto, controllati dal sindacato.

L’obiettivo era dunque duplice. Da un lato, redistribuire la capacità di investimento: come insegna Schumpeter, un sistema come quello svedese (relativamente piccolo, ma con la presenza di numerose grandi imprese) tende naturalmente alla concentrazione di capitale.
D’altra parte, coesisteva un obiettivo chiaramente politico: la conquista della maggioranza nei consigli di amministrazione, e dunque del potere economico nelle grandi aziende. Ammesso apertamente da Meidner come obiettivo a lungo termine, questo punto contribuì a ideologizzare grandemente il dibattito.

Negli anni successivi, SAP e LO lavorarono a una proposta meno ideologica. Presentato nel 1978 – con la SAP all’opposizione – il nuovo progetto prevede maggior “pluralismo”: non più uno ma due fondi, con risorse e rappresentanza sociale differente, e limitato alle aziende con più di 500 addetti. L’obiettivo dunque è diversificare, diffondere la partecipazione all’investimento anche oltre i sindacati.

Una terza proposta risale al 1981. All’obiettivo principale – combattere la stagflazione, e il ridimensionamento del capitale industriale – se ne aggiunge un altro: il miglioramento del benessere sul posto di lavoro, un qualcosa che mancava nello stesso sistema Rehn-Meidner di cui si è detto.

Una questione cruciale: quanto erano popolari questi fondi?

In effetti, molto poco. Tra gli elettori dei partiti “borghesi”, la quasi totalità era contraria, seppure persino da tali partiti fossero venute delle proposte in questo senso. Anche nella stessa SAP, nonché in LO, i favorevoli rappresentavano una minoranza. Solo tra gli elettori comunisti troviamo una maggioranza, ma si tratta di una piccola forza. Insomma: decisamente la cosa non era al centro delle aspirazioni dei lavoratori.

meidner_tabellada Lewin, Ideology and Strategy, 1988, p. 296, da sondaggio SIFO-Indicator, 1983:6, p. 9

Particolarmente rilevanti dunque appaiono le obiezioni del leader della socialdemocrazia di quegli anni, Olof Palme. L’obiettivo di Palme era passare dai fondi dei salariati ai fondi dei cittadini: creare uno strumento che potesse dunque essere dato in mano alla società nel suo complesso.

Viene riaffermato un elemento cardine del modello nordico: la parità tra lavoro e capitale. Notiamo che, nel piano Meidner originale, tale parità si sarebbe dovuta tramutare in supremazia del primo. Palme invece cercava di porre le basi di una nuova collaborazione tra le parti: in quest’ottica, i fondi non erano “il primo passo verso la socializzazione, ma il passo”, oltre cui dunque non si sarebbe andati.

Ritorna la scomposizione del diritto di proprietà e il funktionssocialisme. Era considerata giusta la distribuzione parte del potere d’investimento ai lavoratori, modificando dunque tale parte del diritto di proprietà, ma non una socializzazione ultimativa e totale. In un momento in cui occorreva stabilizzazione e redistribuzione, i fondi sarebbero serviti così a rafforzare una comunità di interessi, fondata su parità capitale-lavoro e welfare state.

I fondi diventano legge nel dicembre 1983. Ne vengono creati 5, collocati nel sistema pensionistico: le quote, dunque, sono individuali. Sono finanziati in parte dalla tassazione generale, in parte dai “profitti in eccesso”, ma solo sopra un certo livello. Soprattutto, si rinuncia alla loro espansione indefinita e finalistica: l’acquisizione azionaria sarebbe stata ordinaria, non forzosa, e non avrebbe potuto in ogni caso superare l’8% di voti azionari in ciascuna azienda.

Cosa insegna l’esperienza nordica?

Prima di tutto, insegna che tali proposte, pur molto avanzate e in un contesto radicalizzato, lasciavano l’aperta e moderna società svedese tutto sommato indifferente. I fondi meramente sindacali, poi, provocavano una vera e propria opposizione nel pubblico, spaccando le stesse alleanze sociali alla base della socialdemocrazia, costringendola a ripensare la sua strategia egemonica, e rivedere certi punti d’attacco ai limiti del capitalismo.

L’argomentazione che il capitalismo non sia in grado di alimentare i meccanismi che mantengono un’economia della parità, e i benefici che essa comporta (un sistema equo, cooperativo, competitivo… è questa l’origine della competitività dei sistemi nordici, anche nell’odierno mondo globalizzato) è probabilmente valida ancor oggi.

Se guardiamo l’enorme massa di liquidità non investita e l’estrema finanziarizzazione, è possibile argomentare egemonicamente che il capitalismo non sia in grado di reggere un sistema del genere. Certo va incoraggiato, ma è legittimo proporre ulteriori forme di investimento.

Oggi c’è più bisogno di domanda effettiva, che, riprendendo il sistema Rehn-Meidner, nasce dalla forte crescita dei salari operai più bassi, e da investimenti innovativi e di lungo periodo. Se già all’epoca della stagflazione la cultura sindacale socialdemocratica aveva riflettuto su come uscirne evitando la “demonizzazione del salario”, oggi tale demonizzazione è divenuta realtà: si pensi al concetto di NAWRU (non accelerating wages rate of unemployment) utilizzato nel gergo dell’Unione Europea. [1]

Quella battaglia persa allora è ancor oggi un problema egemonico. Investire in innovazione è un modo per togliere ogni scusa al fatto che il salario debba crescere. E se ieri il “nemico” era la concentrazione dell’investimento, oggi esso è il capitalismo finanziario globale.

Concludendo, i fondi salariali hanno fatto fallire alcune alleanze storiche che hanno caratterizzato la fase egemonica della socialdemocrazia negli anni ‘30: l’alleanza tra città e campagna, tra operai e contadini – e rispettivi partiti – con politiche specifiche in cui ognuno diventava la domanda dell’altro, nonché l’alleanza tra colletti blu e colletti bianchi, le classi medie.

C’è una forte connessione tra creazione del welfare state e stabilizzazione dello status sociale delle classi medie. Solo questo riesce a riassorbire, nel lungo periodo, la precarietà, effetto di politiche che vanno in direzione contraria: non stabilizzazione dell’investimento, sbilanciamento dal lato dell’offerta.

 

[1] Per approfondire: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-10-21/italia-e-germania-divise-nawru-064121.shtml?uuid=AB0ulB5B


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Scritto da
Roberto Volpe

Classe 1993, studia Governo e Politiche alla Luiss di Roma e fa parte dei fondatori di Rethinking Economics Italia. Quando ha voglia di rilassarsi scrive di Scandinavia dove può.

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