Recensione a: Gianmarco Ottaviano, Riglobalizzazione. Dall’interdipendenza tra Paesi a nuove coalizioni economiche, Egea, Milano 2022, pp. 144, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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«Al momento, l’esito più probabile di questa riconfigurazione strategica a livello mondiale non sembra poter essere tanto la deglobalizzazione temuta o auspicata da molti commentatori, quanto una “riglobalizzazione selettiva”, una ridefinizione cioè dell’economia globale per gruppi integrati di Paesi affini, coalizioni in competizione tra loro per l’egemonia economica, politica e culturale, sullo sfondo di un riequilibrio di forze tra Paesi industrializzati occidentali e Paesi emergenti, soprattutto asiatici».
Con queste parole l’economista Gianmarco Ottaviano riassume la tesi del suo ultimo libro, Riglobalizzazione. Dall’interdipendenza tra Paesi a nuove coalizioni economiche, edito da Egea. Un lavoro che raccoglie i numerosi contributi che l’autore ha scritto negli ultimi anni per diverse riviste e giornali e che vede nelle incognite dell’attuale fase storica una ragione valida per provare a trarre qualche conclusione, seppure parziale e in divenire, sulle trasformazioni di quel fenomeno che siamo soliti chiamare globalizzazione. Esperto, tra gli altri, in tema di international trade e geografia economica, Ottaviano si è sempre interessato degli equilibri commerciali tra i diversi Paesi, evidenziando soprattutto i benefici di una cooperazione che sappia da un lato garantire una interdipendenza virtuosa tra Stati o regioni, dall’altro affrontare le sfide interne, a partire dalle disuguaglianze, e quelle esterne, nonché globali, come il cambiamento climatico o la tassazione transnazionale.
Una prospettiva tanto interessante quanto costretta da questa fase storica – caratterizzata da un ritorno della forza militare, dall’uso geopolitico delle materie prime, dal congelarsi del panorama internazionale e, più in generale, dal (ri)emergere delle categorie politiche in luogo di quelle economiche – a porsi in discussione. Ad esempio, da un punto di vista meramente economico, il rapporto che si è instaurato da circa metà degli anni Settanta tra Europa e Russia pareva fosse un gioco win-win: l’Europa otteneva energia a basso costo per alimentare il proprio sistema produttivo, mentre la Russia si garantiva innanzitutto un mercato di sbocco vicino e, non meno importante, ingenti entrate (sovente in dollari) nonché tecnologie europee per migliorare un apparato industriale sotto molti profili arretrato. Eppure, ora questo rapporto sembra destinato a spezzarsi, con conseguenze gravose non solo, come stiamo assistendo, per l’Europa – in disperata ricerca di fornitori sostitutivi, che però avranno prezzi più alti – ma anche per la Russia, che ancora non dispone, in direzione Est, delle migliaia di chilometri di metanodotti che aveva negli anni costruito verso Ovest. Le dinamiche geopolitiche hanno interrotto un rapporto che, economicamente parlando, sembrava razionale, creando un precedente importante per i futuri equilibri commerciali.
Da qui la domanda fondamentale, che con questo lavoro Ottaviano vuole porre a se stesso e ai lettori: «L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia solleva una domanda fondamentale e scomoda per i sostenitori della globalizzazione dura e pura: è prudente che società democratiche, le cui economie sono fondate sul capitalismo di mercato, mantengano normali relazioni economiche con società autocratiche, le cui economie sono invece fondate sul capitalismo di Stato, quando queste società autocratiche diventano tanto più aggressive quanto più si arricchiscono proprio grazie a quelle relazioni economiche?» (p. 105). Proprio a partire da questo interrogativo si sta sviluppando, per ora soprattutto in letteratura, l’idea di una tendenza globale verso una divisione economica, politica e culturale in blocchi o assi, a partire da una nuova forma di bipolarismo che vedrebbe da un lato il blocco delle democrazie a guida statunitense, dall’altro il blocco delle autocrazie sotto la sfera dell’influenza cinese. Questa dinamica, tra l’altro, è strettamente collegata a un’altra tendenza che si pensa influenzerà la riscrittura delle catene del valore nei prossimi anni, ossia quella del cosiddetto reshoring o nearshoring o friendshoring: in sostanza, un ritorno delle produzioni, soprattutto quelle strategiche, in patria o in un Paese comunque più vicino (anche per ovviare ai colli di bottiglia dei trasporti, si pensi all’impatto del blocco del Canale di Suez o dei lockdown dei terminal cinesi) o alleato (secondo una logica, per l’appunto, di divisione in assi). Al netto della persuasività di tale tesi, sposata con cautela anche da Ottaviano e pure da chi scrive, bisogna in ogni caso considerare che nella pratica questo fenomeno è ancora molto residuale. Le problematiche infatti sono numerose: dalla profonda complessità che hanno raggiunto le supply chain, tale da rendere ogni attore parte integrante di un ingranaggio che quasi trascende i singoli – pensiamo ad un chip la cui filiera sovente presenta software americano, fonderie taiwanesi, logistica e trasporto taiwanese, assemblaggio in Cina – agli effettivi benefici che andrebbero perduti, specie in termini di prezzi finali, del vantaggio comparato ricardiano, cui l’autore dedica tra l’altro numerose pagine. Pertanto, da un lato vi sono tendenze e auspici, dall’altro le difficoltà dell’applicazione concreta. Dopodiché, un altro punto problematico circa questa divisione in blocchi è l’individuazione o meno di ciò che è democratico e ciò che non lo è. Non è questa la sede per cimentarsi in un’analisi teoretica sui fondamentali che contraddistinguono democrazie da autocrazie. Vale la pena però menzionare l’iniziativa, citata da Ottaviano, Our World in Data, legata all’Università di Oxford, che prova a tratteggiare una sommaria classificazione di democrazie e autocrazie. In particolare, sono interessanti le conclusioni numeriche di questo studio: nel 1990 circa il 60 per cento della popolazione mondiale viveva in un’autocrazia, mentre il 40 per cento viveva in una democrazia; già solo nel 2005, la composizione diventa più bilanciata: il 50 per cento circa viveva in una autocrazia e l’altro 50 per cento in una democrazia; infine, nel 2021 la ritirata della democrazia appare evidente: il 75 per cento della popolazione mondiale vive in un’autocrazia e solo il 25 per cento in una democrazia. Al netto dei limiti di tale studio, il punto che preme sottolineare è questo: risulta difficile, in simili condizioni, pensare ad una configurazione della globalizzazione in un blocco democratico e in uno autocratico; specie per il primo, salvo non si intenda recidere i rapporti con gran parte dei Paesi solo per la mancata condivisione degli stessi valori. Considerato che una tale scelta risulterebbe economicamente impraticabile, è chiaro che tale definizione in blocchi rappresenterebbe una mera traccia, solo superficialmente colorabile con le etichette della democrazia da un lato e quelle dell’autocrazia dall’altro, ma nel profondo decisamente più articolata, secondo logiche di interessi e influenze spesso scisse da considerazioni valoriali (si pensi che tra gli alleati dell’ “Occidente” vi sarebbe l’Arabia Saudita, o la Turchia). Sul punto, Ottaviano ritiene che una sorta di multilateralismo “di fatto” potrebbe rivelarsi inevitabile: «Pertanto, mentre una riglobalizzazione selettiva è indubbiamente in atto, la logica della multilateralità potrebbe nondimeno riaffermarsi negli anni a venire di fronte all’impossibilità pratica di disegnare alleanze stabili indipendentemente dalle necessità del momento. Ci sono mosche e mosche, ma l’esperienza di tutti i giorni ci insegna che selezionare quali fare entrare quando si apre la finestra non è poi così facile» (p. 124).
Le sfide di questo secolo, ribadisce più volte l’autore, necessiterebbero di una globalizzazione aperta, fiducia tra Paesi e una cooperazione globale; come esempi vi sono non solo la transizione ecologica ma anche l’ambito sanitario: la pandemia avrebbe dovuto insegnarci, sostiene Ottaviano, come o il vaccino supera i confini, o vi saranno sempre nuovi contagiati e varianti. Nel complesso, l’autore parte dal presupposto per cui non può esservi alcuna sicurezza nazionale se non vi è prima una sicurezza internazionale. Nonostante i diversi progressi in questo senso, però, è chiaro che gli ultimi decenni stiano conducendo in una direzione del tutto diversa. «Dall’inizio del secolo l’economia globale è entrata in acque molto agitate: attentato alle Torri Gemelle, guerre in Afghanistan e Iraq, crisi della finanza americana e del debito pubblico europeo, primavera araba e guerra in Siria, guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, conflitto militare tra Russia e Ucraina, cambiamento climatico, pressioni migratorie, emergenze alimentari, disuguaglianze, minacce nucleari e pandemie. Questi eventi e le reazioni da essi scatenate hanno messo in evidenza la diversità dei punti di vista nazionali e la difficoltà a convergere su iniziative comuni» (pp. 125-126).
In questo contesto, una riglobalizzazione selettiva pare, dal punto di vista di Ottaviano, quasi ineludibile. Il punto però è un altro: ci ritroveremmo in un mondo più sicuro? L’autore ne dubita fortemente. La direzione che si sta prendendo sembra riesumare, ammesso e non concesso che se ne sia mai andata, la minaccia delle armi in luogo del diritto internazionale nelle relazioni internazionali. Lo scacchiere globale ragiona con vecchie (in realtà da sempre presenti) categorie, come interesse nazionale, forza militare, aree di influenza, ponendo in secondo piano quelle più economicistiche che sembravano garantire equilibri virtuosi, come la teoria del vantaggio comparato, oppure il diritto internazionale. È una realtà cui bisogna prendere atto. Chiaramente le sfide globali cui Ottaviano ha fatto cenno nel corso del volume andrebbero affrontate, auspicabilmente, tramite una cooperazione internazionale. Però in attesa di raggiungere questa chimera (?) occorre partecipare attivamente alla riscrittura degli equilibri globali, cercando di trarre il maggiore beneficio come Italia e Unione Europea. Da questo punto di vista, una divisione in blocchi potrà forse garantire una maggiore tranquillità, nonché stabilità, quantomeno per quanto concerne taluni settori strategici. Non è però, come si accennava, di facile realizzazione. Rinunciare ai benefici, specie in termini di prezzi, di catene del valore spezzettate, così come modificarne gli ingranaggi, non è cosa che si fa dall’oggi al domani. Questa è forse la sfida maggiore, sovente sottaciuta, che si cela dietro all’immagine politica del mondo in blocchi: come realizzarlo nel concreto? Un dibattito che coinvolga esperti di relazioni internazionali, economisti, giuristi, imprese e operatori del settore diventa sempre più fondamentale.