Il tema della rappresentanza operaia spesso ricompare nel dibattito politico senza essere trattato adeguatamente, sembra al contrario essere nominato di volta in volta per attrarre facili consensi. Questo avviene perché nessun cittadino ne è a priori contrario, specialmente se non sa cosa sia. Prima di intavolare qualsiasi ragionamento intorno a questo tema dovremmo chiederci prima di tutto cosa è la rappresentanza operaia, se è necessaria e a cosa serve.
Di cosa si tratta? È necessaria?
Quando si parla di rappresentanza operaia si dovrebbe intendere quell’organo eletto da tutti i lavoratori che è responsabile di vigilare sui problemi dei lavoratori e di condurre la base della contrattazione sindacale. In Italia questo organo si è tradotto con i consigli di fabbrica prima e con le RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) dopo. La confusione su questo punto avviene perché la rappresentanza ha avuto un ruolo molto più politico che pratico. In particolare, agli inizi degli anni ’90, l’entrata in vigore delle RSU avrebbe dovuto far sì che gli eletti rispondessero direttamente ai lavoratori sollevando i loro problemi davanti al management. Ma come spesso accade, l’innovazione nelle idee viene seguita dal conservatorismo nella loro applicazione e il ruolo politico delle RSU ha mantenuto un carattere dominante.
Una delle cause è stata l’assenza di una legislazione che regoli l’attività sindacale. Proprio come per i partiti politici, la nostra Costituzione prevede l’esistenza dei sindacati nell’art. 39 e la possibilità di partecipare alle decisioni aziendali nell’art. 46. Sfortunatamente nel dopoguerra gli imprenditori non volevano interferenze nelle loro decisioni così come i sindacati non volevano partecipare al sistema capitalistico. Più tardi, nessuno ha avuto convenienza a toccare il sistema informale che si era costituito perché favoriva l’una o l’altra parte a seconda dei momenti storici.
Negli anni ’70 i sindacati non avevano alcuna intenzione di essere imbrigliati in meccanismi di cogestione perché si sarebbero tradotti in una responsabilizzazione che avrebbe ridotto lo spirito conflittuale su cui si basava la loro azione. Con la sconfitta sindacale degli anni ’80, il tema della cogestione fu ripreso dalle imprese cercando di mantenere il clima di informalità. Prima l’IRI e poi la Fiat provarono l’approccio delle commissioni paritetiche, luoghi di discussione tra rappresentanti del management e degli operai in cui si sarebbero dovute prendere alcune decisioni riguardo la vita della fabbrica. Peccato che le decisioni, per essere valide, si dovessero prendere all’unanimità e che non fossero previsti meccanismi regolatori. Ad esempio, non esistevano né un calendario degli incontri né meccanismi punitivi nel caso in cui le parti avessero violato gli accordi presi. Fu insomma attuata la partecipazione senza responsabilità e fra alti e bassi la storia delle commissioni paritetiche è stata alquanto disastrata.
Non dobbiamo qui confondere rappresentanza e cogestione, due caratteristiche delle relazioni industriali ben diverse ma interconnesse tra loro. La nostra Costituzione sottolinea la possibilità della cogestione nell’art. 46, mentre la mera rappresentanza è garantita dall’art. 39. Dove esiste, la cogestione si tramuta in una partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese.
In Germania, la cogestione ha dato origine a una rappresentanza forte dove i delegati dei lavoratori hanno un potere contrattuale ampio e ben regolato che permette loro di vigilare sull’operato del management. In Svezia, dove la cogestione è altrettanto forte, la rappresentanza operaia non esiste. Esistono invece i circoli sindacali formati dai soli membri del sindacato che non è diviso ideologicamente ma secondo la qualifica dei lavoratori. Ovviamente bisogna considerare che il sindacato operaio svedese rappresenta circa il 90% dei lavoratori e quindi un corpo intermedio eletto da tutti i lavoratori sarebbe ridondante.
Se si volesse rispondere alla domanda se è necessaria la rappresentanza si potrebbe rispondere “dipende”. Questo perché ci sono dei sistemi che possono farne a meno. Il sistema italiano ne ha invece di certo bisogno perché vi mancano sia la cogestione che l’unità sindacale.
A cosa serve?
Le dinamiche industriali degli ultimi anni hanno dato all’opinione pubblica un’immagine distorta della rappresentanza sindacale. Specialmente le vicende Fiat hanno teso a idealizzare le parti in causa. La Fiat nella persona di Marchionne si è vestita dei panni del Cavaliere Nero che per il bene dell’azienda è disposto a fare azioni malvagie per impedire la rappresentanza alla Fiom, vista come un pericoloso conservatore. La Fiom, nella persona Maurizio Landini, ha vestito i panni del Cavaliere Rosso che difende i diritti dei lavoratori cercando di riottenere la rappresentanza perduta a causa del Cavaliere Nero e dei suoi destrieri, le altre forze sindacali. Queste ultime si sono mostrate come coloro che sono disposti a scendere a patti con il diavolo pur di non abbandonare la rappresentanza. Insomma tutti hanno dato al loro ruolo un carattere romantico che poco si addice al carattere molto più pratico della rappresentanza.
Tutto questo serve a dare un colore politico alla rappresentanza in continuazione con la mancata applicazione dell’accordo sulle RSU. In realtà la contrattazione in azienda ha obiettivi molto più pratici. Ad esempio, le ferie vanno programmate e deve essere la contrattazione a farlo cercando di capire le esigenze dei singoli lavoratori. Ogni altro piccolo problema dei lavoratori dovrebbe essere portato alla luce, un permesso di lavoro negato, una sanzione ingiusta, un carico di lavoro eccessivo, il mancato rispetto del contratto. Quando si parla dei diritti dei lavoratori si fa quindi riferimento ad una sommatoria di piccole cose, perlopiù problemi pratici anziché di ideali di giustizia e libertà.
In questo, la rappresentanza è un presidio dei sindacati rispetto alle esigenze dei lavoratori e ha la funzione di risolvere problemi concreti. La realtà è che non si può escludere un sindacato rappresentativo come la Fiom da questi meccanismi di contrattazione perché c’è il rischio di un appiattimento del dibattito che può penalizzare sia i lavoratori che l’azienda. Questo accade perché l’assenza di un pezzo di rappresentanza dà il via libera al clientelismo per la risoluzione dei problemi pratici: chi sa usare i contatti giusti può vedere il suo problema risolto, chi non è in grado vede solo aumentare la sua frustrazione.
Allo stesso modo, la decisione della Fiom di idealizzare un problema che è in gran parte pratico può portare ulteriori problemi. Se il problema fosse solamente ideale, sarebbe giusto rifiutare una rappresentanza dimezzata per combattere meglio l’azienda nell’attesa di una fulminante vittoria. Ma le cose cambiano se si guardano dal punto di vista pratico.
Da una parte, la riforma della rappresentanza è necessaria e chiudersi a riccio o fare proposte troppo velleitarie significa lasciare il pallino nelle mani dei manager. Dall’altra parte, se la Fiom si rifiuta di rappresentare parte dei lavoratori per non cedere al ricatto della Fiat, cosa faranno questi? Aspetteranno pazientemente la vittoria della Fiom, o si faranno rappresentare da qualcun altro? E se la Fiom tornerà da vincitrice, come si comporteranno i lavoratori che non sono stati rappresentanti?
Che fare?
In parole povere, la situazione non è sostenibile né per la Fiat né per i sindacati firmatari perché rischiano l’esplosione del clientelismo nelle fabbriche. Né per la Fiom che rischia di ritrovarsi senza iscritti per gli anni a venire in tutte le fabbriche della maggiore azienda privata (quasi) italiana. Finora la soluzione si è risolta grazie alla sentenza della Corte Costituzionale che ha ribadito la possibilità per la Fiom di accedere alla rappresentanza. Ma il nodo politico non si può risolvere per sentenza giuridica.
Il dibattito che si è generato non aiuta a trovare le soluzioni adeguate. È un fatto positivo che si parli di tanto in tanto di cogestione alla tedesca ma finora si sono visti solo alcuni spot per la Fiom e per il Governo senza alcuna conseguenza pratica. Se l’uscita dall’informalità è quanto mai necessaria per fermare i problemi, un dibattito serio appare impossibile. Bisognerebbe capire cosa tutte le parti sono disposte a concedere per arrivare a una regolazione che ne diminuirebbe l’autonomia ma ne aumenterebbe la forza di rivendicazione. Questo obiettivo potrebbe essere raggiunto in diversi modi, ad esempio si potrebbe stabilire una cogestione di tipo tedesco, si potrebbe dare un carattere formale alle commissioni paritetiche oppure si potrebbero meglio definire le RSU stabilendo una più folta rosa di diritti e doveri.
L’importante è che non si arrivi a provvedimenti di facciata volti a lasciare tutto nell’informalità, come una democrazia di fabbrica applicata con dei referendum utili solo a testare il grado di consenso di leader sindacali o manageriali. Oppure una cogestione che preveda regole facilmente aggirabili. Se questi fossero i risultati, tanto varrebbe non farne di niente e aspettare che le contraddizioni esplodano.
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