Scritto da Alfredo Morganti
4 minuti di lettura
Riceviamo e pubblichiamo questo intervento inviato alla redazione, che si inserisce nel dibattito scaturito dal nostro seminario organizzata a Roma lo scorso venerdì 16 dicembre “Una nuova cultura politica?”, del quale abbiamo pubblicato le tre relazioni, di Salvatore Biasco, Giacomo Bottos e Peppe Provenzano e un intervento.
Ho letto con attenzione i contributi di Salvatore Biasco e di Giacomo Bottos sui temi della cultura politica. Sono interventi densi di argomentazioni senz’altro utili a una definizione più accurata delle questioni in campo. In essi manca, tuttavia, una testarda messa a fuoco della ragione principale della faglia che si è aperta nel rapporto tra politica e cultura politica. Ragione che io credo risieda proprio nel declino progressivo del partito. Anzi, nella sua evaporazione. Non di questo o quel modello storico di partito, piuttosto del concetto stesso di ‘partito’ come strumento cardine dell’azione politica. Sostituito in ciò da soggetti intesi variamente come movimenti, comitati, rassemblement, coalizioni, poli e, in ultimo, persino ‘campi’. Biasco, per dire, in un passo associa la cultura politica non solo al partito, ma anche a un’area oppure a uno schieramento. Bottos sottolinea con più convinzione il tema quando dice che serve una ‘riflessione sui partiti come snodo essenziale della democrazia’, ma qui purtroppo si ferma. E invece la cultura politica è cultura di partito, non nel senso burocratico, zdanoviano, del termine, ma in quello che solo un partito può organizzare cultura politica, costruire una mediazione essenziale tra élite e popolo, produrre un’antropologia valida collettivamente, fare formazione, dare continuità di pensiero alle riflessioni messe in campo, innestarle entro una tavola di valori e trasformarle, infine, in un programma di governo. Un partito, non altri.
È evidente che l’assenza del soggetto (perché di questo si tratta), e nella fattispecie di un soggetto specifico come un partito, toglie corpo al complesso di idee, riflessioni, azioni intellettuali pur prodotte spontaneamente, per confinarle in ambiti ristretti, elitari, politicamente scabri. È come costruire una proposizione senza un soggetto: verrebbe a mancare il riferimento essenziale di ogni predicato successivo. E non vale la banale considerazione che il partito novecentesco è superato e oggi non se ne vede un modello parimenti efficace. Il punto è la considerazione ormai diffusa, scontata, naturale che il partito non è più cardine politico, risorsa, grimaldello di alcunché. Con l’acqua sporca si è buttato via anche il bambino, anzi si è buttato via il bambino e ci si è tenuta l’acqua sporca dei vari surrogati, siano essi il ‘movimento’, il comitato elettorale, il partito-azienda, oggi il campo (sic!). Detto ciò, venendo a mancare le gambe dell’azione politica, venendo a mancare un ‘corpo’ politico capace di manifestare una ‘forza’ (la ‘forza’ in politica è tutto, oggi invece si vuole vincere col doping del premio maggioritario e il fumus delle ‘narrazioni’), confidando in élite più o meno ‘tecniche’, più o meno vicine, svincolate dal rapporto sociale, prive spesso di referenti concreti (a meno che essi non siano poteri di varia natura, quasi sempre di natura oligarchica) – venendo a mancare tutto ciò, è evidente che le idee, quando pure siano espresse, perdano di consistenza, evaporino oppure tendano a non aggregarsi, a non produrre un bene ‘teorico’ comune, un’antropologia che distingua un ‘noi’ da un ‘loro’ e promuova così la nascita e l’affermazione di un’identità (senza la quale ci dobbiamo contentare dei ‘campi’ e dei raggruppamenti di un ceto politico allo sbando – e, assieme, della teoria per la quale un partito sarebbe solo una zavorra burocratica sin troppo ‘costosa’).
Proporre di riflettere sulla cultura politica, allora, dovrebbe in primis voler dire ‘parliamo del partito’, cerchiamo di capire perché questa variabile sia scomparsa dallo scacchiere, perché oggi la cultura scivoli pericolosamente verso una rinsecchita deriva ‘tecnica’, tecnocratica, specialistica senza più alcun senso generale. La formula ‘specialista più politico’ questo indicava: lo scivolamento ‘tecnico’ in assenza di una ‘forza’ politica (ossia di un partito-intellettuale collettivo). Non ci lamentiamo poi, se le ‘narrazioni’ surroghino le ‘teorie’, se la comunicazione scansi la politica, se l’imbonitore scacci il segretario. È destino. Senza un partito non c’è una ‘base’ che possa far germogliare una cultura politica: essa si trasforma quindi in ‘narrazione’, la politica diventa abbordaggio, pura politique d’abord, e la classe politica viene ad assumere sembianze inclassificabili. L’attuale dominio della tecnica è, in realtà, frutto proprio del declino della politica. Si tratta quasi di un’equazione. La politica è dibattito, mediazione, scelta, confronto di opinioni, rappresentanza. La tecnica è invece soluzione ‘unica’, specialistica, ristretta, la migliore tecnicamente, quella più efficacemente scientifica. Così che avere opinioni in eccesso (e dunque idee) può apparire (e appare) del tutto fuorviante o controproducente. Non consiste proprio in questo il renzismo? Non si fa portatore dell’ideologia della tecnica come ‘fare’ efficace che si appella al ‘buon senso’ diffuso? Una soluzione unica, senza tante chiacchiere politiche attorno, appunto? Facciamo ripartire, allora, il dibattito sul partito, ripensiamolo di nuovo come cardine centrale dell’azione politica. Partito ‘nuovo’ certo, ma non movimento, non comitato, non campo più o meno ibrido, o schieramento, o polo, oppure ‘coalizione’. Serve consistenza e durevolezza, non provvisorietà. Solo allora la cultura avrà anch’essa una robustezza, e potrà tornare a essere la chiave di volta per interpretare il mondo, la fase, le circostanze in vista di una trasformazione degli assetti di potere. Se non si fa questo, al più ci dovremmo contentare di com’è oggi il mondo. E, nel peggiore dei casi, saremmo anche complici delle sue nefandezze.