Recensione a: Didier Eribon, Ritorno a Reims, tr. it. di Annalisa Romani, Bompiani 2017, pp. 224, 18 euro, (scheda libro)
Scritto da Jessy Simonini
8 minuti di lettura
Qualche mese fa, il visionario regista tedesco Thomas Ostermeier ha firmato la messa in scena di uno spettacolo molto originale, Ritorno a Reims, che ha debuttato a Manchester nel luglio 2017. Il testo dello spettacolo trae spunto dall’omonimo libro di Didier Eribon, recentemente tradotto in italiano da Annalisa Romani e pubblicato da Bompiani.
Non è semplice definire questo libro, né inquadrarlo in una categoria precisa. Non sarà, del resto, difficile trovarsi d’accordo con le parole di una delle scrittrici francesi più acclamate dell’ultimo decennio, Annie Ernaux, divenuta celebre in Italia grazie al suo romanzo Gli anni, secondo cui è «difficile rendere conto di tutta l’emozione e la riflessione che questo libro [Ritorno a Reims] è capace di suscitare».
Emozione e riflessione sembrano, in effetti, essere le due polarità sulle quali si sviluppa il progetto saggistico-narrativo di Eribon, che si può definire appunto come un «saggio autobiografico» o, per riprendere una formula attribuita a Un weekend Post-moderno di Pier Vittorio Tondelli[1], come un tentativo di «romanzo critico»[2]. Nel solco dell’autobiografia, partendo dalla propria singolare esperienza di vita, Eribon ci racconta di un «ritorno a casa», nei sobborghi di Reims, nella Marna, dopo molti anni di assenza. Pagina dopo pagina, l’autore sviluppa così, alla luce di esperienze di vita familiare o sociale, riflessioni critiche sulle dinamiche di dominazione, sulla subalternità e sulle strutture familiari e la loro evoluzione, in particolare nel contesto francese.
Non sono pochi i libri e i film che, negli ultimi anni, hanno esplorato le dinamiche del ritorno a casa, in un contesto familiare rispetto al quale ci si sente totalmente estranei: anche l’ultimo film di Xavien Dolan, Juste la fin du monde, cerca di percorrere, almeno in parte, questo topos. Tuttavia, il «ritorno a casa» di Eribon, dopo la morte di un padre con il quale aveva deciso di troncare ogni rapporto, va in un’altra direzione e si apre a una riflessione di più ampio respiro sulla società francese, sull’evoluzione delle classi subalterne in Francia negli ultimi decenni e, in generale, sul politico.
Didier Eribon intellettuale divergente
La trama del romanzo non si presenta come lineare, ma si costruisce, piuttosto, per poli tematici; il lavoro di introspezione e di scavo condotto da Eribon si apre, quindi, su una pluralità di questioni che non vengono affrontate seguendo uno schema cronologico preciso, ma, al contrario, sovrapponendo i piani temporali e geografici, la narrazione autobiografica e l’elaborazione teorica. Eribon costruisce, in questo modo, una sintesi originale fra l’introspezione – e lo scavo, quasi à rebours, nel proprio passato – e la riflessione critica, condotta utilizzando soprattutto gli strumenti teorici del filosofo e del sociologo, in dialogo con altre voci, da Fanon a Baldwin, passando, ad esempio, per Jean Genet.
Di questi poli tematici, ve ne sono in particolare due che mi sembra importante citare. Il primo, è quello in cui viene proposta una ricostruzione quasi «geologica», per riprendere il titolo di un libro di Magrelli[3], del rapporto con il proprio padre, analizzato anche attraverso un importante scritto di James Baldwin[4]. Un rapporto caratterizzato da una distanza profonda e incolmabile: il padre – e l’odio nei suoi confronti – è, infatti, uno dei motivi che spinge Eribon a lasciare il sobborgo di Reims, per allontanarsi da quell’uomo all’apparenza «stupido e violento», «omofobo» e, quindi, dal modello di vita da lui incarnato. In realtà, la morte del padre diventa, per l’autore, il punto di partenza di una ricerca delle radici familiari e di una riflessione più profonda sul politico, che emerge per esempio nel ricordare la vicinanza del padre – e di quasi tutti gli uomini della propria famiglia – al Partito Comunista Francese, percepito come il solo e unico difensore degli interessi della classe operaia. Lo scavo di Eribon ci consente così di entrare in una storia che è anche «corale» e che, partendo dall’esperienza singolare di un rapporto fra padre e figlio, può diventare esperienza collettiva, storia di una classe e di una generazione.
Il secondo nucleo tematico da evocare riguarda, invece, il rapporto dell’autore-protagonista con la cultura (in particolare con la filosofia) e con le istituzioni educative. Nel raccontare la propria storia, Eribon rivela così la propria natura di intellettuale divergente, lontano dalle dinamiche accademiche francesi e perfettamente conscio delle pratiche di riproduzione sociale su cui si regge tale sistema. La sua biografia è diversa, infatti, da quella della maggior parte degli intéllos della sua generazione. Niente classes prépas (delle quali il giovane Eribon, all’uscita del liceo, nemmeno è a conoscenza), niente concorso alla Normale della Rue d’Ulm, culla della classe intellettuale del Paese, niente concorso di agrégation in filosofia (concorso necessario per chi aspira ad una vita accademica in Francia) Un cursus diverso: un’esperienza di militanza in un gruppo trotzkista di provincia, un’università marginale, ancora fortemente conservatrice[5], e poi gli studi in fac alla Sorbona e una carriera come giornalista al Nouvel Observateur, giornale che, secondo Eribon, interpreta pienamente quella rivoluzione conservatrice che ha colpito buona parte degli intellettuali di sinistra in Francia a partire dagli anni Ottanta e che descrive con lucidità nel saggio D’une révolution conservatrice: et des effets sur la gauche française (Léo Scherr, 2007).
All’impossibilità di un dialogo con il proprio padre, si accompagnano, per converso, numerosi dialoghi con la propria madre, che sembrano essere la traccia più forte del «ritorno» di un uomo cresciuto in un contesto operaio e popolare, nella provincia francese più profonda, ma scappato altrove per proseguire i propri studi. Studi che fissano Eribon in un chiaro lignaggio intellettuale e che lo avvicinano a Foucault (di cui ha realizzato un’essenziale biografia[6]) e, soprattutto, al sociologo Pierre Bourdieu, autore, tra l’altro, de La distinzione. Al mestiere di giornalista per il Nouvel Obs e, poi, per Libération, l’autore ha sempre affiancato quello di teorico, vicino alle posizioni del movimento gay americano, di cui è un importante critico, almeno nel contesto francese[7].
Le premesse del «romanzo critico» di Eribon si possono così riassumere riprendendo una felice formula di Adrienne Rich, un lavoro che è insieme «intimo e politico» e che, senza filtri né censure, cerca di ricomporre il personalissimo lessico famigliare dell’autore e, attraverso quest’ultimo, costruire l’autobiografia di una classe sociale. La riflessione sul singolo, sul proprio tracciato biografico, si colora così di un senso tutto nuovo, che è pienamente politico e che ci parla di rapporti di dominazione, di modelli familiari e di normatività. E che trasforma il discorso autobiografico in qualcosa di diverso: diventa soprattutto costruzione politica e strumento di lavoro culturale.
La famiglia di Didier Eribon negli anni Cinquanta e Sessanta sembra essere una tipica famiglia operaia del nord-est della Francia, quel mondo di case di mattoni e cieli grigi che una certa filmografia ha cercato, più o meno con successo, di mettere in scena, descrivendo l’autunno di un modello di sviluppo e di crescita. Una famiglia comunista, che si vede rappresentata dal Pcf e dalle sue istanze, cosciente della propria appartenenza alla classe operaia e della differenza fra «noi» e loro, i ricchi, i borghesi di provincia. Una famiglia che a fatica può accettare, per pragmatismo, che il proprio figlio decida di compiere studi in filosofia e che, altrettanto a fatica, può accettarne l’omosessualità.
Distanza e subalternità
Ritorno a Reims ci parla, come già evocato, soprattutto di distanza. In primo luogo, la distanza spaziale fra l’autore e la propria famiglia, la scelta di allontanarsi per non tornare mai più e per farla finita[8] con «il mondo di prima», con il sobborgo di Reims e i suoi alloggi popolari, lontanissimi, in tutti sensi, da ogni centro[9]. E quindi, la distanza fra l’autore – oramai cresciuto – e la propria classe sociale di origine. Una distanza che genera una dissonanza costitutiva: se Eribon si sente empaticamente solidale con la classe sociale in cui è nato e cresciuto, allo stesso modo egli si sente estraneo, sempre più lontano da quel mondo e da quell’universo, tanto da provare una vera e propria «vergogna di classe» che lo spinge a negare e nascondere le proprie origini popolari. Per ripensarsi, e trovare una nuova narrazione di sé, della propria storia, da proporre agli altri oltre che a se stesso. Per vivere, ad esempio, la propria omosessualità fuori dallo spazio ostile della provincia, ma a Parigi, che già negli anni Settanta è un centro della subcultura gay e che rappresenta l’approdo per molti omosessuali fuggiti da un contesto a loro sfavorevole.
La distanza geografica tra Parigi e Reims è così, prima di tutto, una distanza di classe. E ritornare nei sobborghi di Reims è ritornare ad un universo con il quale Eribon deve fare i conti: quello, per esempio, degli operai che votano Le Pen. Eribon in questo modo analizza anche come è cambiata la sensibilità dell’elettorato popolare, che negli ultimi due o tre decenni ha pressoché totalmente cessato di riconoscersi nel Partito Comunista Francese, quasi del tutto annientato, almeno elettoralmente, se si escludono le roccaforti in quel che resta della cosiddetta banlieue rouge a nord di Parigi. Come è accaduto ai genitori di Eribon, che per molti anni hanno identificato il Pcf come il partito della classe operaia, salvo poi spostarsi a destra, così molti operai si sono avvicinati alla destra, nelle sue molteplici sigle, e anche al Front National di Jean-Marie Le Pen ed eredi. Del resto proprio nelle aree del paese che sono state più colpite dalla crisi economica e dalla de-industrializzazione, il Front ha ottenuto i suoi risultati migliori: nel dipartimento di Reims, per esempio, la Le Pen ha sfiorato il 30% al primo turno nel 2017, raccogliendo un elettorato popolare spaventato dal fenomeno migratorio e vittima degli effetti della globalizzazione. Molti hanno ancora in mente l’immagine di Marine Le Pen che viene accolta, durante la campagna delle presidenziali, dagli applausi di alcuni operai davanti ai cancelli di una fabbrica in crisi e di una campagna elettorale caratterizzata da discorsi contro gli effetti della globalizzazione e del liberismo.
In questa prospettiva, leggere Ritorno a Reims può anche fornire un’utile chiave di lettura per comprendere alcune delle dinamiche che si sono manifestate nelle ultime elezioni francesi, ma che già da molti anni sono note, come mostra per esempio Nonna Mayer in molti dei suoi lavori di ricerca. Dinamiche che, oggi, ci sembrano chiare: la vittoria di Mitterrand, nel 1981, ha segnato forse uno spartiacque essenziale e l’inizio di quella «rivoluzione conservatrice» che ha attraversato la classe politica e intellettuale della sinistra francese. Una sinistra che, contestualmente alla marginalizzazione dei comunisti, è stata egemonizzata dalla visione liberista e si è attestata su posizioni sempre più centriste – ma in alcuni casi anche più chiaramente conservatrici – perdendo i consensi fra le classi popolari e aumentandoli fra gli strati della borghesia urbana. Questo fenomeno, che riguarda anche altre democrazie europee, ha, però, in Francia, radici forse più profonde, che risalgono già agli anni della presidenza Mitterrand – anni nei quali è iniziata la lenta ma significativa crescita del lepenismo.
Ma il voto al Front National sembra essere, almeno per i familiari di Eribon, non un voto di appartenenza che corrisponde a un ripiegamento su posizioni identitarie o neofasciste, quanto piuttosto un «segnale» di dégagisme lanciato alle forze politiche tradizionali, a una destra e una sinistra che, alla prova dei fatti, «sono la stessa cosa», come emerge in uno dei tanti dialoghi fra l’autore e la propria madre.
In conclusione, la duplice polarità fra riflessione ed emozione evocata da Annie Ernaux si sostanzia, per Eribon, in un’autobiografia critica che cerca di aprire al politico l’esperienza personale, costruendo, di fatto, un genere tutto nuovo. Un saggio autobiografico che, fra passione e ideologia, ci fornisce nuove categorie di analisi sociale e politica e nuovi spunti per pensare i rapporti di dominazione e di subalternità, anche fuori dal contesto francese. E che testimonia la straordinaria sensibilità dell’autore nel leggere, alla luce della propria storia, i cambiamenti della società che lo circonda, rendendo la propria singolare esperienza la chiave per costruire un discorso corale e critico, oltre che uno strumento possibile per la pratica politica.
[1] Nel romanzo Camere separate, dello stesso Tondelli, benché in forme molto diverse (e per certi versi opposte), riemerge – tra l’altro – il tema del ritorno a casa.
[2] Tale definizione di Un Weekend Postmoderno di Pier Vittorio Tondelli si può attribuire al critico Fulvio Panzeri, autore di un saggio contenuto nell’edizione Bompiani del Weekend: Fulvio Panzeri, «Appunti per un romanzo critico», in Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, Bompiani, Milano, 1990.
[3] Valerio Magrelli, Geologia di un padre, Einaudi, Torino, 2014.
[4] James Baldwin, Notes of a Native Son, Penguin Books, Londra, 1995 [1964].
[5] E dove autori come Foucault o Derrida non erano in programma. Eribon ricorda, ad esempio, di aver citato, in un’occasione, Simone de Beauvoir, provocando la reazione di uno dei suoi docenti di filosofia, scandalizzato da una filosofa che avrebbe «mancato di rispetto alla propria madre».
[6] Didier Eribon, Michel Foucault, Flammarion, Parigi, 2011.
[7] Didier Eribon, Réflexions sur la question gay, Fayard, Parigi, 2009.
[8] Édouard Louis, En finir avec Eddy Bellegueule, Seuil, Pargi, 2014.
[9] Per il sociologo Luciano Gallino, del resto, la misura della marginalità è proprio la distanza fra un punto e i centri dove si prendono le decisioni.