“Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita” di Marco Mondini
- 28 Ottobre 2022

“Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita” di Marco Mondini

Recensione a: Marco Mondini, Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita, il Mulino, Bologna 2022, pp. 288, 22 euro (scheda libro)

Scritto da Andrea Germani

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«Gli uomini vecchi saranno travolti da questa massa enorme, cinque milioni di combattenti premono ai confini territoriali, cinque milioni di ritornanti. Bisogna mettersi al passo, passo serrato. La previsione non cambia, farà brutto ancora. All’ordine del giorno è ancora la guerra. Il mondo va verso due grandi partiti: quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati» (Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo).

La Grande Guerra non finì a Villa Giusti il 4 novembre 1918, ma a Roma il 28 ottobre 1922. In mezzo c’è una terza data, il 23 marzo 1919, il luogo è Piazza San Sepolcro, Milano, città in cui il capitolo della controrivoluzione europea novecentesca si aprì e si chiuse nell’arco di 26 anni. Quel giorno nella sala riunioni del Circolo dell’Alleanza industriale, presso Palazzo Castani, furono costituiti i Fasci italiani di combattimento; meno di tre mesi dopo, il 6 giugno, fu pubblicato il manifesto del movimento sul giornale Il Popolo d’Italia, fondato da Benito Mussolini nel novembre del 1914. Volendo aggiungere una quarta data, il 24 maggio 1915, si può sostenere che la storia del primo fascismo – il “fascismo movimento”, nella definizione data da Renzo De Felice – cominci proprio quel giorno del “radioso maggio” in cui la giovane Italia rispose, catastroficamente, all’appuntamento con la storia. Con Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita Marco Mondini, docente di Storia contemporanea all’Università di Padova, tenta un’agile ricostruzione di questi “sette anni di guerra”, dal 1915 al 1922, chiusisi nel giorno di cui il 28 ottobre 2022 cade il centenario.

Nonostante il programma sansepolcrista del 1919 fosse in parte affine a quello di partiti e movimenti di sinistra, i fascisti si fecero notare già qualche settimana dopo la fondazione per l’assalto alla sede dell’Avanti!, organo di informazione del Partito Socialista Italiano. Fu subito chiaro a tutti che c’era ben poco da fidarsi di un movimento che pur proponendo “suffragio universale”, “minimi di paga”, “otto ore di lavoro” e “espropriazione parziale” delle ricchezze della grande impresa, radunava nazionalisti e anticomunisti per contrastare scioperi e manifestazioni sindacali. La storia del primo fascismo è una storia di contraddizioni e convivenze impossibili. La sgangherata marcia tramite cui Mussolini conquistò la fiducia del re Vittorio Emanuele III sopraggiunse dopo aver cavalcato per anni rabbia e frustrazione, mascherati per l’occasione da audacia e ardimento; fu il culmine di quell’eroismo posticcio che, agli atti, risultò essere niente più che il fascino per la vita spericolata che aveva sedotto giovanissimi ragazzi privilegiati, spaventati all’idea di trovarsi, un giorno, trattati al pari dei propri domestici.

Particolarmente azzeccato è il sottotitolo di questo volume; verrebbe da trasformare la congiunzione e in una voce verbale: il fascismo è la guerra mai finita. Perché il fascismo non ha mai voluto, né dovuto o potuto, chiudere i conti con quella stessa guerra da cui ha tratto la linfa vitale, facendo leva sui sentimenti di un’Italia polarizzata, divisa fra chi guardava alla Roma di Augusto e chi alla Mosca di Lenin, o, più prosaicamente, fra chi doveva difendere il diritto del padrone per non finire declassato, e chi i propri diritti per non perdere l’ultimo tozzo di pane. La “guerra civile” che l’Italia ha vissuto fra il 1918 e il 1922 fu una continuazione del conflitto con i reduci che, dopo l’armistizio di Villa Giusti, non combattevano più contro gli Imperi centrali, ma per reagire a una fantomatica rivoluzione imminente – “biennio rosso” è, secondo Mondini, una «etichetta mistificante, entrata nel linguaggio fondamentalmente sulla base dell’errata convinzione che l’Italia del 1919-1920 fosse effettivamente in una situazione rivoluzionaria» (p. 91). La guera granda mutò presto nel conflitto fra “quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati”.

Fra i due gruppi non corse mai buon sangue. I secondi, che non erano partiti per il fronte, fecero ricadere sui primi anni di privazioni e di rabbia provocati da quella guerra assurda, fino a farli passare per colpevoli del solo aver indossato una divisa, o dell’aver esposto la medaglia al valore guadagnata sul campo, per tanti l’unica soddisfazione di quei terrificanti mesi trascorsi in trincea. Dagli insulti si passò presto alle mani: «l’attacco ai simboli (le medaglie al valore, le bandiere) e ai corpi di ufficiali e soldati in uniforme, aggrediti, a volte picchiati, più spesso insultati, rappresentò una delle forme più inusuali, e proprio per questo più traumatiche, di questo sorprendente e frustrante scontro tra veterani e società civile» (p. 44). I casi registrati di aggressioni, fisiche o verbali che fossero, non erano molti a dire il vero, ma bastarono a produrre il «mito del combattente sputacchiato» (p. 45).

Il culto dell’eroe tradito fece il paio con un’altra leggenda dura a morire, ma che all’epoca fu la scintilla che infiammò gli animi dei più giovani: la vittoria mutilata. Mondini dedica all’argomento buona parte del primo capitolo, mostrando come l’impresa dannunziana di Fiume, partita il 12 settembre 1919, parse un’operazione necessaria per restituire dignità a una truppa umiliata prima a Parigi, alla conferenza di pace, e poi dai “rossi” al suo ritorno a casa. Ma l’affronto peggiore arrivò dagli stessi politici italiani che non presero le parti degli eroi di guerra: «l’ “anarchia dilagante” nel Paese era il prodotto della viltà dimostrata dai governi nel reprimere l’arroganza degli antipatrioti che schernivano i reduci e insultavano le bandiere, e l’intollerabile accoglienza alle truppe di ritorno nella totale indifferenza di comandi e autorità civili, era la dimostrazione che la dirigenza politica non aveva interesse o abbastanza coraggio per “difendere la Vittoria”» (p. 29).

La mancata celebrazione del trionfo fu presa come un segno di viltà, peggio, di connivenza dell’élite liberale con la compagine socialista, salto logico che parve ragionevole ai molti contadini improvvisati soldati, spesso analfabeti, provati da quell’esperienza da cui non aveva guadagnato né riconoscenza né terra. Proprio la terra rimase al centro delle dispute, “la terra ai contadini” «come impegno di un premio alla fine del conflitto, diffusa specialmente dopo Caporetto, aveva avuto un’indiscutibile fortuna in un esercito […] composto per oltre la metà da coscritti provenienti dalle campagne». Il contadino «aveva sofferto più di tutti» e, una volta a casa, «voleva un pezzo di terra, di quella terra promessagli in trincea» (p. 61).

Queste rivendicazioni furono alla base dei moti annonari, cavalcati dalle forze di sinistra e paventati dai proprietari terrieri che di spartire le proprie enormi proprietà non ne volevano sapere. Non solo le campagne, per quanto i numeri relativi alla sola terra coltivata erano impressionanti – un milione fra braccianti e mezzadri si rifiutarono di coltivare nel 1920, in occasione del rinnovo dei contratti colonici solo nella bassa bresciana 30 mila contadini scioperarono – furono coinvolte ma anche gli operai, la forza viva dei movimenti rivoluzionari d’Europa. Nel marzo 1920 «50 mila operai torinesi» e, a Napoli, «100 mila addetti alla metallurgia» (p. 89) indissero uno sciopero generale che paralizzò la produzione. Nel ferrarese e nel polesine le “guardie rosse” ingaggiarono scontri armati con i guardiani reclutati dai proprietari terrieri, il tutto sotto gli occhi della reticente Guardia regia che dimostrò, al pari di tutto l’apparato poliziesco, un’incapacità effettiva di gestire l’ordine pubblico e tutelare la sicurezza privata «in un quadro di desolante disgregazione del monopolio statale della violenza legittima» (ibidem).

Lo scontro tutto politico fu presto monopolizzato dalle squadracce e dagli insorgenti. E l’esercito? «la prima domanda che un uomo di governo si fa, quando si deve adoperare l’esercito per un fine di ordine pubblico è questa: l’esercito risponderà?» (riportato a p. 173). Così il socialista riformista Antonio Labriola nell’estate del 1922. L’esercito molto raramente aveva risposto. Un po’ perché era formato perlopiù da uomini corrotti e indisciplinati, male addestrati e male armati, e un po’ perché in quel clima di confusione pochi avevano intenzione di rischiare una pallottola su due fronti, “rosso” e “nero”, per uno Stato che andava sempre più a rotoli. Ma soprattutto perché molti soldati vedevano con grande timore i socialisti e le loro velleità rivoluzionarie, e con grande simpatia i fascisti, fra cui riconoscevano commilitoni e uomini segnati dallo stesso destino.

A destra della barricata reduci, picchiatori ed “eroi”, sicuramente, ma anche tanti ragazzini che la guerra non l’avevano nemmeno vista, avendo raggiunto la maggiore età a guerra finita, o avendo potuto scegliere di fare l’università, vista la provenienza borghese. I nodi vennero al pettine nel corso della marcia. Il comando generale si trovava a Perugia – presto diventata nell’immaginario la città da cui partì la marcia, “capitale della rivoluzione” e “città fascistissima”[1] – ma coordinò ben poco. Il 28 ottobre entrò negli annali come “il giorno della marcia” ma «nessun fascista sarebbe mai riuscito a vederle, le mura romane, almeno fino al 30 ottobre» (p. 211). Quello che doveva essere l’assedio dei patrioti che entravano in città dopo aver vinto l’ardua resistenza dei guardiani dello Stato liberale morente si ridusse a una lunga e logorante passeggiata, «per una massa di ventenni che non mangiava da giorni» (p. 216).

«O Roma… o Orte!» dice Domenico Rocchetti / Vittorio Gassman nelle battute finali del film del 1962 di Dino Risi La marcia su Roma. Dopo una disavventura ai limiti del grottesco, i due camerati Rocchetti e Umberto Gavazza / Ugo Tognazzi si ritrovano sulla direzione della linea ferrata delle ferrovie e, indecisi se tornare a nord (Orte) o proseguire verso Roma, fanno il verso al grido di guerra garibaldino. Quel 28 ottobre rappresenta ancora oggi l’epilogo dello scontro “fra quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati”, la chiusura di un capitolo e l’apertura di una nuova fase in cui un’Italia squassata da una profonda conflittualità politica si avviava verso il ventennio della dittatura fascista. Si chiudeva così il sipario su un momento dal sapore tragico, anche se non privo di contorni da commedia, che diede il via ad una delle pagine più drammatiche della storia italiana.


[1] Per approfondimenti si rimanda a: Leonardo Varasano, L’Umbria in camicia nera (1922 – 1943), Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.

Scritto da
Andrea Germani

Nato a Perugia, concluso il liceo classico si è spostato a Bologna per studiare filosofia, successivamente ha conseguito un dottorato in Diritto e Scienze Umane all’Università dell’Insubria specializzandosi in Filosofia Politica. Attualmente è Knowledge Transfer Manager all’Università di Bologna e collabora con alcune riviste di cultura; il suo podcast “Libri che NON hanno fatto la storia” è disponibile sulle principali piattaforme.

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