Scritto da Giacomo Bottos
6 minuti di lettura
Riproponiamo il testo dell’intervento del direttore di Pandora Rivista Giacomo Bottos nell’ambito dell’iniziativa “Il posto dell’Italia nell’(anti)Europa”, presentazione congiunta del numero 7 (“Italia”) di Pandora Rivista e del numero 4/2019 (“Antieuropa. L’impero europeo dell’America”) di Limes, rivista italiana di geopolitica, ospitata dalla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e a cui hanno partecipato Romano Prodi e Lucio Caracciolo con la moderazione di Federico Petroni.
Questa discussione affronta temi cruciali e molto dibattuti come il ruolo dell’Italia e il suo posto in Europa. Vorremmo però provare a darle un taglio e una direzione coerente con l’impostazione alla quale, come rivista Pandora, abbiamo sempre cercato di tenere fede. Il nostro intento è sempre stato quello di trattare temi – di carattere economico, sociale, geopolitico, storico-filosofico – che hanno certamente una grande rilevanza politica, ma di farlo senza mai aderire completamente all’attualità e alla contingenza. E questo per una scelta precisa, che deriva dalla convinzione che oggi spesso manchino in Italia i luoghi e le forme in cui possa avvenire una riflessione di medio e lungo termine sulle grandi questioni e sulle priorità da affrontare.
Sembra spesso mancare una consapevolezza, un accordo, su quali siano le priorità del Paese nel medio e nel lungo periodo, in un orizzonte che vada oltre la prossima scadenza elettorale. Questo è proprio uno dei temi su abbiamo avuto il piacere di confrontarci con Lucio Caracciolo, nell’intervista che apre il numero 7 di Pandora, dedicato appunto all’Italia. L’idea che sta alla base del numero è proprio che vi sia cioè una difficoltà nel fissare un’agenda condivisa per quanto riguarda un nucleo fondamentale di priorità, di questioni cruciali per il Paese. Su questa agenda minima dovrebbero convergere non solo le forze politiche, ma anche la burocrazia, i corpi dello Stato, parti importanti del mondo economico. Attorno sarebbe poi necessario che si formasse un adeguato consenso nella società. Francamente non sembra possibile scorgere niente del genere all’orizzonte al momento. E questo è drammatico: se ci trovassimo in un momento in cui il quadro internazionale fosse stabile e la situazione positiva si potrebbe forse pensare di procedere per qualche tempo con il pilota automatico. Ma è chiaro che non è questo il caso.
C’è un nesso molto stretto tra la mancanza di questa coerenza di lungo periodo – che possiamo chiamare strategica, ma che in realtà riguarda tutti gli ambiti della vita di una società – e l’assenza di una cultura condivisa, di spazi fisici e culturali, dove questi problemi possano essere pensati e discussi. Un tempo questi spazi potevano essere i partiti, la grande impresa pubblica e privata, alcune grandi istituzioni. Oggi, se vogliamo ancora provare a immaginare un futuro per questo Paese dobbiamo probabilmente trovare forme e modi diversi. Ma formulare una risposta è comunque necessario.
Da un lato il problema riguarda le classi dirigenti. Oggi si parla molto della contrapposizione tra “élite” e “popolo”. Questa contrapposizione esprime in parte, nei paesi occidentali, il disagio di parti della società nei confronti delle contraddizioni e dai mutamenti generati dalla forma della globalizzazione che abbiamo conosciuto finora, e dalla sua stessa crisi: disuguaglianze, squilibri tra territori, tra centri e aree interne, sviluppo asimmetrico. Ma, paradossalmente, se si volesse davvero costruire un modello economico e sociale diverso, in grado di risolvere almeno in parte le contraddizioni che hanno generato questa crisi di legittimità, il punto di partenza sarebbero proprio le classi dirigenti. Non a caso al tema delle “élite” abbiamo dedicato il quarto numero della rivista. Occorre guardare alla loro composizione, alla loro cultura complessiva, alle occasioni di rinnovamento. Le classi dirigenti possono ancora fare la differenza.
La capacità di costruire una progettualità condivisa fa, del resto, la differenza nelle possibilità di un territorio di avere successo. Ma questo non basta. Non è solo questione di buona amministrazione. Perché questa progettualità sia davvero efficace in un tempo come quello in cui viviamo deve proiettarsi su una scala più vasta, almeno nazionale, se non europea. Tematiche come reti, infrastrutture, portualità, filiere, trasferimento tecnologico – che affrontiamo nel settimo numero e in quelli precedenti – richiedono oggi una progettualità che non può essere separata da una visione, da un lettura dei processi in corso su scala globale e da un’interpretazione del ruolo che in essi vogliamo giocare.
L’impressione è che in Italia, non da oggi, manchino i meccanismi e i presupposti attraverso cui quell’interpretazione di cui parlavo possa formarsi in modo coerente e organico. Questo nonostante le potenzialità che il Paese tuttora conserva. Le cause sono tante: la contrapposizione tra poteri diversi e opposti, l’inesistenza di quella base di fiducia tra soggetti e istituzioni diverse necessaria per cooperare al raggiungimento di uno scopo comune, il conflitto e la non cooperazione tra i diversi pezzi della classe dirigente, la mancanza di basi culturali condivise al suo interno. Tutto questo contribuisce a impedire che si formi quell’agenda comune di cui dicevamo.
E impedisce anche una discussione pubblica ampia e informata su di essa. Impedisce che esista una sfera pubblica nella quale si possa parlare seriamente dei problemi. Perché la democrazia si trova oggi così in difficoltà, sia nel confronto con modelli esterni non democratici, sia per la spinte interne che la deformano? Forse anche perché, in una società che abbiamo dato per scontato essere “liquida”, mancano i meccanismi che rendano possibile una partecipazione e un dibattito consapevoli della complessità delle cose. Quando si parla di complessità, troppo spesso questa parola finisce per diventare un alibi per sancire un divorzio tra tecnica e semplificazione. E patologie come le fake news o le echo-chamber, forse vanno viste in relazione a questa fragilità dello spazio pubblico. Le nostre democrazie dovrebbero forse trovare il modo di ricomporre di nuovo dimensione orizzontale e verticale, di ridiventare – per così dire – “vertebrate”.
Questo è necessario per il nostro Paese e lo è anche in una prospettiva europea. Se, come crediamo convintamente, va mantenuto un orizzonte europeo, dobbiamo interrogarci su come questa prospettiva possa essere ripensata e declinata con realismo nel mondo in cui viviamo oggi. Un tempo in Italia l’europeismo era come l’aria, un presupposto che poteva essere dato quasi per scontato. Oggi, come ci rivela anche l’articolo di Ilvo Diamanti ed Elisa Lello sull’ultimo numero di Limes, l’atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea, quantomeno nei paesi del Sud Europa, è molto più disilluso e distaccato che in passato. Siamo del resto di fronte ad una realtà europea dove non solo prevale da tempo il metodo intergovernativo, ma dove si consolidano schieramenti di Paesi uniti, almeno in parte, da interessi comune e visioni divergenti dell’Unione. Intorno alla Germania, fulcro imprescindibile nel bene e nel male, e alla Francia, si disegnano variabili geografie e geometrie: da Visegrad all’Europa “anseatica” fino ai paesi mediterranei che vanno in ordine sparso.
Tenere l’Europa come orizzonte è necessario se, pur guardando come dobbiamo fare al Mediterraneo, non vogliamo precipitare in “caoslandia”, per usare le categorie di Limes. Ma proprio per questo bisogna attrezzarsi per vivere nell’Europa così com’è, cercando al tempo stesso di costruire le condizioni perché possa diventare qualcosa di diverso, qualcosa di più coerente con la nostra cultura economica e politica. Questo va fatto anche con proposte concrete. Un ottimo esempio è il piano presentato da Prodi a inizio 2018 per l’investimento in infrastrutture sociali, che cercava di intervenire su una questione cruciale, quella dell’insufficienza degli investimenti, problema che coinvolge tutta l’Europa, l’Italia ma anche la stessa Germania. Un altro dibattito molto interessante è quello sui “giganti europei” su cui si sofferma Alessandro Aresu in questo numero di Limes.
Ma anche per esprimere posizioni e proposte circostanziate in sede europea, occorre essere consapevoli di quali siano le nostre priorità come Paese, sapere qual è la base a partire dalla quale ragionare. In passato l’Italia ha pensato talvolta che l’adesione all’Unione europea potesse risolvere tutti i propri problemi. Che sciogliesse tutti i nodi irrisolti che la sua complessa storia le aveva consegnato in eredità. Non è così. Paesi come la Germania e la Francia si sono avvicinati all’esperienza europea avendo un’idea molto precisa di quali fossero le priorità e i limiti del proprio sistema-paese e attrezzandosi di conseguenza. Ad esempio inviando personale adeguato e preparato in Europa. Facendo sì che ciò che veniva deciso in sede europea fosse coerente o comunque compatibile con queste priorità. L’integrazione europea non sostituisce, ma anzi presuppone un’idea precisa di cosa sia importante per noi. È un lavoro complesso, lungo, laborioso, tutto il contrario del metodo dei “pugni sul tavolo”. Un lavoro che richiede uno sforzo collettivo.
Nel numero 7 di Pandora cerchiamo, in quest’ottica, di analizzare alcuni dei temi che pensiamo sia fondamentale porre. Un veloce riepilogo: la questione del vincolo esterno, il funzionamento della “macchina degli interessi”, il tema delle culture politiche, la questione meridionale, il problema delle aree interne, la debolezza dell’amministrazione e della burocrazia statale, la questione dell’intervento pubblico, i punti di forza e fragilità del sistema produttivo, il problema energetico, il sistema bancario, le infrastrutture, la portualità e le sfide poste dal progetto della via della Seta.
È un vasto catalogo di argomenti, peraltro incompleto, e che andrebbe almeno integrato facendo riferimento ai temi che abbiamo trattato nei numeri precedenti, come il quinto e il sesto, dedicati alla quarta rivoluzione industriale e alla politica industriale o nel numero speciale dedicato al mondo della cooperazione, attore di grande importanza, spesso non tenuto nella debita considerazione, dell’economia italiana.
Vi sono poi le questioni dell’occupazione e del futuro dei giovani, del trasferimento tecnologico, della ricerca e dell’università, della demografia e del ruolo della criminalità organizzata. Questo dà l’idea della vastità del lavoro che si volesse fare un vero tentativo di riportare l’Italia meno al di sotto dalle sue grandi potenzialità, date dalla sua posizione geopolitica, ma anche da molti altri fattori culturali, sociali ecc.
Servirebbe insomma “una strategia per l’Italia”. Quanto vediamo oggi intorno a noi dovrebbe indurci al pessimismo sulla prospettiva che ciò avvenga. Noi crediamo invece che occorra parlarne sempre di più, che si debbano porre con insistenza questi temi, che abbiamo il compito di provare a costruire un dibattito pubblico diverso e gli spazi perché questo dibattito abbia luogo. Chissà che il futuro non possa riservarci delle sorprese.