Recensione a: Sabino Cassese, La democrazia e i suoi limiti, Mondadori, Milano 2017, pp. 120, 17 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Timponelli
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Il libro di Sabino Cassese vuole essere una presentazione, rivolta ad un pubblico vasto, del funzionamento della democrazia contemporanea. Fondamentale è per l’autore mettere in risalto i limiti che la sovranità popolare incontra all’interno del processo stesso di legittimazione democratica, nel confronto con le altre componenti dei poteri pubblici e nel contesto di integrazione internazionale proprio della fase più recente della globalizzazione. Trascurando questi limiti, ammonisce Cassese, si rischierebbe tanto di fraintendere la reale dinamica dei processi democratici, ricadendo in semplificazioni ideologiche, quanto di non cogliere come il buon funzionamento delle istituzioni richieda che il principio democratico sia corretto e integrato da altre istanze: l’efficienza dei processi decisionali, l’autonomia della magistratura e della pubblica amministrazione, le responsabilità assunte presso la comunità internazionale.
Cassese nega che vi sia al momento una crisi degli istituti democratici, come ad esempio la scarsa partecipazione elettorale che caratterizza da decenni i paesi occidentali sembrerebbe suggerire, e ritiene che una tale lettura sia dovuta all’interpretazione, ingenua, della democrazia come governo del popolo.
Anzitutto, la parola stessa “popolo” non ha mai rappresentato l’integrità degli abitanti di un territorio: dal popolo sono stati storicamente esclusi gli schiavi, i ceti meno abbienti, le donne; ne restano ora esclusi quanti risiedono in un paese pur non avendone la cittadinanza. Esiste dunque, anche in democrazia, un’irriducibile asimmetria tra governati e governanti.
In secondo luogo il popolo può esprimersi soltanto attraverso delle associazioni che ne definiscano le richieste e ne rappresentino le istanze. Queste, i partiti politici, da luoghi di elaborazione ideologica si sono trasformati nell’ultimo trentennio in aggregazioni elettorali più fluide che si contendono l’elettorato in modo non dissimile ad imprese concorrenti in un mercato (evoluzione che Cassese saluta come almeno in parte positiva, in quanto ora avrebbero perso quel “carattere autocratico e oligarchico” [p. 16] che li rendeva una potenziale minaccia per la democrazia).
Le decisioni politiche non sono poi prese, a eccezione dei referendum, direttamente dal popolo, ma dai suoi rappresentanti nominati a mezzo di elezioni. Il popolo è allora protagonista del processo democratico soltanto nell’investitura della classe dirigente, che al popolo deve comunque rispondere nel momento in cui il suo operato sarà giudicato alla successiva tornata elettorale. La democrazia è per Cassese così da intendersi, l’autore lo dice senza mezzi termini, come “governo di una parte dell’oligarchia per conto del popolo” (p. 37).
La stessa rappresentanza popolare si divide poi tra una maggioranza, alla quale va assicurata la capacità di poter prendere decisioni, e una minoranza, che per Cassese dovrebbe avere funzione di controllo dell’attività della maggioranza, ma senza intralciarne le decisioni, in un’ottica della competizione all’insegna dell’alternanza. L’esistenza di una pluralità di leggi elettorali permette inoltre diversi rapporti di forza tra maggioranza e opposizione.
Compito più importante del Parlamento resta però per Cassese il supporto all’esecutivo: il circuito di legittimazione dai governati ai governanti è, almeno nei regimi parlamentari, duplice: gli elettori esprimono una maggioranza parlamentare, e questa a sua volta nomina un governo di cui si impegna a supportare programma e iniziative di legge.
Alla rappresentanza nazionale si sono affiancate via via forme di rappresentanza a livello degli enti locali, regionali e comunali, che limitano ulteriormente le decisioni del centro, istituendo una competizione tra rappresentanza nazionale e periferica che costituisce per l’autore un salutare arricchimento della dialettica democratica di pesi e contrappesi.
Cassese sposa così un’interpretazione schumpeteriana del processo democratico, tanto come descrizione dello stato di cose quanto come ideale normativo: da un lato ruolo degli elettori è scegliere tra una pluralità di opzioni, date dai partiti politici, in modo non dissimile a come i consumatori scelgono sul mercato il prodotto che ritengono migliore; dall’altro si deve lasciare che la formazione scelta possa realizzare il programma che le ha fatto vincere le elezioni. La possibilità per gli elettori di giudicare periodicamente gli eletti e l’esistenza di un’effettiva competizione tra i partiti sono per Cassese il principale contrappeso a qualsiasi tirannia della maggioranza. Il medesimo principio schumpeteriano deve estendersi anche ai partiti a mezzo delle primarie come garanzia della loro democrazia interna.
L’alternativa kelseniana, per la quale le decisioni vengono elaborate attraverso la mediazione parlamentare ed il compromesso tra interessi diversi rappresentati, viene dall’autore frettolosamente liquidata da un lato come fonte di inefficienze e ostacoli al processo decisionale, e dall’altro come idealizzazione propria di una “retorica parlamentarista” (p. 25) che sopravvaluterebbe il ruolo effettivamente svolto dagli organi legislativi. La dialettica parlamentare può essere soltanto di schieramento, in cui “si appartiene a una parte e ci si contrappone a un’altra, con formazioni normalmente stabili”, di contro ad altri organi quali le corti, che possono seguire una logica di ponderazione, in cui “non ci si schiera, ma si ragiona, si cerca di convincere e si è convinti” (p. 30).
Dopo aver così ridefinito cosa sia la sovranità popolare, Cassese passa a quelle che definisce “componenti aristocratiche dello stato democratico” (p. 27), la pubblica amministrazione e la magistratura, che rispondono a un criterio, la competenza tecnica, irriducibile alla legittimazione popolare.
La pubblica amministrazione è necessaria alla realizzazione degli obiettivi stabiliti dalla politica ma è bene che quest’ultima, sostiene l’autore, non interferisca nella nomina dei funzionari, che deve essere fatta per concorso, né ecceda nella regolamentazione legislativa. Il tentativo del parlamento di controllare l’amministrazione si rivelerebbe controproducente nel momento in cui il personale tecnico-giuridico sarebbe molto più abile dei parlamentari nell’interpretazione delle norme stesse. Similmente Cassese condanna un iperattivismo da parte del controllo giudiziario sull’operato della pubblica amministrazione a mezzo delle procure, che giudica come un’interferenza nei confronti dell’esecutivo. Una burocrazia efficiente deve per l’autore allontanarsi tanto dalla contaminazione tra amministrazione e politica nella selezione degli amministratori, quanto non ricadere in un corporativismo autoreferenziale a suo giudizio poco prono alla modernizzazione. È invece il “travaso di élite tra il settore pubblico e il settore privato” (p. 33) che può assicurare l’importazione nel settore pubblico di una cultura dell’efficienza. L’autore non sembra preoccupato del fatto che una simile posizione rischi di gettare la macchina statale nelle maglie dell’interesse privato, e anzi difende la propria posizione sostenendo che da un lato l’instabilità cronica dei governi del nostro paese renderebbe necessaria la figura di tecnici esterni al mondo politico per una gestione efficiente dell’amministrazione (argomentazione che non tiene però conto, almeno per l’esperienza primo-repubblicana, della relativa stabilità della classe dirigente e dell’equilibrio tra le forze politiche in gioco) e dall’altro ribadendo l’esistenza del controllo popolare sul governo come contrappeso al fatto che sia compito di chi governa definire le politiche e dettare le regole. Pur riconoscendo la questione della lealtà dei funzionari, che potrebbero eventualmente sabotare l’esecuzione di politiche loro sgradite, Cassese sembra dimenticare il caso in cui l’ostacolo potrebbe non venire dalla nomina politica dei funzionari o dal corporativismo burocratico.
L’altro campo che limita la sovranità popolare è quello del diritto, nelle diverse forme della giustizia costituzionale, dell’interpretazione delle norme che inevitabilmente si propone nel caso della giustizia ordinaria, e delle competenze che vengono affidate ad autorità indipendenti. Si ha in tutti questi casi una tensione, mai compiutamente risolvibile, tra il principio democratico e il principio liberale. Cassese tende però a stemperare l’opposizione tra democrazia e giustizia costituzionale, sostenendo che quest’ultima possa intervenire soltanto in casi ben delimitati e circoscritti. La diffusione di standard universali tra i giudici lascia inoltre sperare che la giustizia costituzionale diventi un veicolo di omologazione dell’ordinamento interno dei singoli paesi.
Cassese si domanda poi se le trasformazioni del ruolo dello Stato portate dalla globalizzazione non rischino di condurre a una crisi della democrazia. Anzitutto, l’autore si indirizza alla questione delle privatizzazioni, assegnando allo Stato la funzione regolatrice di determinare finalità, standard e controlli dei servizi la cui erogazione è però assegnata a mani private. La prospettiva è ancora quella della collaborazione tra i due settori, all’insegna degli obiettivi che soltanto la legittimità popolare può fissare, ma che soltanto l’efficienza privata può garantire. Di nuovo, si trascura il conflitto tra interesse generale, di cui il settore pubblico dovrebbe farsi portavoce, e profitto particolare che il privato non può non esigere.
Altro tema, brevemente toccato, è quello della corruzione, in cui non si manca di criticare “l’inefficacia dell’azione pubblica – quella, in particolare, relativa ai grandi investimenti pubblici” (p. 54), che risulta prodotta tanto dalla corruzione quanto da un’autorità anticorruzione sovraccaricata di mansioni, e che finirebbe per produrre disaffezione nei confronti della democrazia nel momento in cui le sue promesse eccedono quanto lo Stato è effettivamente in grado di mantenere. Di nuovo, si ignora il nesso tra crescita della corruzione e espansione del settore privato, e si auspica che la disillusione verso la democrazia sia superata non tramite il potenziamento dei mezzi dell’azione pubblica, giudicata costitutivamente incapace, ma mediante una moderazione delle sue promesse.
È indicativa della visione liberale di Cassese la sezione successiva dedicata invece alle disuguaglianze, in cui si mette in luce la problematicità tanto della disuguaglianza formale quanto di quella materiale (esemplificata, si badi, dal differente potere di ascolto presso il governo delle multinazionali americane rispetto ai piccoli imprenditori). Il discorso, nella medesima sezione, si volge però presto a condannare, come altrettanto, se non più dannosi per la democrazia, gli eccessi della democrazia stessa, fautori, secondo una tesi già contenuta nel celebre rapporto sulla democrazia elaborato da Crozier, Huntington e Watanuki per la Commissione Trilaterale (1975), di instabilità sistemica. La decisione popolare viene identificata con la parzialità degli interessi di breve periodo o dei singoli gruppi più attivi, di contro all’interesse di lungo periodo che, evidentemente, devono essere definiti al di fuori della democrazia stessa.
Cassese si rivolge infine ai pericoli che la crescente integrazione globale e l’emergere di forme di organizzazione sovranazionale possono rappresentare per la democrazia. La preoccupazione che decisioni prese dall’alto e da organismi non rappresentativi possano mettere a rischio la democrazia risulta per l’autore attenuata da una serie di considerazioni. Da un lato alcuni tra gli organismi internazionali stessi promuovono e incentivano la democrazia, possono fissare standard e sanzionare paesi che non li rispettano. Alcune organizzazioni possiedono inoltre organi rappresentativi, diretti o indiretti. Gli organismi intergovernativi inoltre cercano di dotarsi di metodi di ascolto degli interessati, coinvolgendo ad esempio organizzazioni legate alla società civile nelle loro riunioni, o sperimentando procedure di democrazia deliberativa. Infine, Cassese elogia la nascita di comunità epistemiche e reti internazionali di élite che possono agire come institution builders.
Questa analisi ottimistica è trasferita anche all’ambito dell’Unione Europea. Anzitutto Cassese nega che i vincoli di bilancio dei trattati europei costituiscano un ostacolo per la democrazia: essa ne risulterebbe arricchita poiché ciascun governo diventerebbe responsabile non più davanti soltanto al popolo che l’ha eletto, ma all’intera comunità di stati alla quale il suo paese ha scelto di appartenere. In secondo luogo, l’Unione Europea può agire a salvaguardia dei valori fondamentali dell’Unione, tra i quali figura appunto la democrazia, che risulta così “richiesta, imposta e protetta” (p. 91) anche a livello sovranazionale. Infine, Cassese contesta l’esistenza di un deficit democratico, sostenendo che da un lato i cittadini europei hanno come luogo di propria rappresentanza il Parlamento, mentre i singoli popoli sono rappresentati nel Consiglio europeo e nel Consiglio dei ministri dai loro governi. La stessa Commissione è comunque di nomina governativa. Le amministrazioni statali inoltre rimangono responsabili dell’esecuzione di gran parte delle decisioni europee. La mancanza di “una cinghia di trasmissione tra domanda popolare e politiche europee simile a quella nazionale” (p. 92) non è quindi vista come un ostacolo, ma come una peculiarità di un ordinamento diverso da quello nazionale, ma pur sempre democratico, vale a dire legittimato, sia pure con diversi livelli di intermediazione, dal popolo. Conseguentemente Cassese non giudica auspicabile una federazione in senso stretto, e ritiene che l’Europa possa sopravvivere anche senza un forte governo centrale.
Chiudono il libro rapidi cenni al ruolo delle religioni, ai rischi del terrorismo, alle sperimentazioni della democrazia deliberativa e al ruolo delle primarie come strumento di democratizzazione dei partiti.
La visione di cui Cassese si fa portavoce, come il lettore avrà avuto modo di vedere, è fortemente elitista e, più che ricollocare la sovranità popolare all’interno di un contesto più vasto, sembra restringerla entro ambiti molto angusti (certamente in linea con quanto effettivamente accaduto negli ultimi decenni). Il pensiero di Cassese fonde insieme un conservatorismo di antica data, improntato alla ricerca del “governo misto” come regime ottimale e una concezione ordoliberale dei rapporti tra Stato e operatori economici. L’atteggiamento che lui qualifica come realista, mirante a smorzare quanto il lessico della democrazia pure non può cessare di promettere, è in realtà profondamente ripiegato nella difesa dell’esistente. Non possono mancare le perplessità. Quanto ampia può essere la scelta fra alternative, che per Cassese è il fondamento della legittimazione democratica, se la decisione sul “bene comune” di lungo periodo è esplicitamente sottratta al dibattito democratico? Non è in questa riduzione di alternative praticabili, e non in una hỳbris per cui troppo si vuole, da ricercarsi il disincanto verso la democrazia che colpisce sempre più persone, confinandole nell’astensione e nell’apatia o spingendole a cercare rifugio nel populismo? Quanto rappresenta il vincolo esterno una forma di horizontal accountability di un popolo davanti agli altri e non piuttosto un’autolimitazione dei poteri pubblici di fronte alla presunta efficienza dei mercati? Quanto i programmi politici possono tradursi in realtà con una pubblica amministrazione in cui diventa egemone l’elemento privatistico, invocato a correggere la (presunta) fisiologica manchevolezza della politica? Quanto l’ordine internazionale può dirsi democratico in assenza di quelle forme di sovranità al cui interno soltanto la democrazia moderna ha potuto sbocciare e di un esplicito consenso sulle proprie istituzioni, come fu il caso delle costituzioni nazionali redatte da una Costituente eletta, e dalla cui volontà la stessa giustizia costituzionale – così cara a Cassese – trae legittimazione? È davvero sufficiente l’ascolto della società civile o di una comunità epistemica internazionale perché si possa parlare di legittimazione democratica delle organizzazioni internazionali? Una sensibilità del genere si può trovare anche in un dispotismo illuminato.
Sarebbe infine auspicabile un confronto serio con una concezione diversa di democrazia, quale quella proposta da Hans Kelsen, e con il suo correlato economico, il keynesismo. Tale modello, che ha reso per la prima volta le masse protagoniste della vita politica dei paesi occidentali e che ha permesso sviluppo, welfare, occupazione e benessere diffuso, oltre che un reale pluralismo di modelli di società incarnati dai diversi partiti (e una notevole educazione della classe politica, che Cassese stesso rimpiange), non può essere dismesso come “retorica parlamentarista”, specie quando si difende un’alternativa che può vantare un bilancio ben più misero sul piano delle classi dirigenti, del coinvolgimento delle masse e dei traguardi sociali raggiunti. Una scelta del genere, specie in un testo rivolto a un vasto pubblico, e dunque potenzialmente responsabile della formazione del senso comune dei cittadini, appare fortemente connotata dal punto di vista ideologico. Il paradigma che Cassese descrive e difende, per quanto certamente molto vicino a quanto effettivamente la democrazia è diventata negli ultimi decenni, non è l’unico, né il più desiderabile per chi da un sistema in cui lo Stato si sottomette volontariamente al mercato non ha avuto nulla da guadagnare.