Recensione a: Peter H. Wilson, The Holy Roman Empire. A Thousand Years of Europe’s History, Penguin, Londra 2016, pp. 1008, 14.99 £ (scheda libro)
Scritto da Emanuele Monaco
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Tempo fa, Jonathan Steinberg ebbe a dire che “il passato ha smesso di esistere nella mente dei giovani (…) essi non traggono piacere dalla lettura di un grande lavoro di ricerca storica, perché richiede qualità che troppo spesso non hanno, preparazione, disciplina e esperienza”. La lettura di questo formidabile volume di Peter H. Wilson, tradotto da il Saggiatore, è un ottimo modo per provare a dimostrare il contrario.
Un primo approccio, anche il più superficiale, non può che far apprezzare quello che è il culmine di una vita di ricerca e studio, un grande esempio di ciò che differenzia la storia dalla semplice cronachistica, una grande occasione per riflettere sull’identità europea e persino sul suo futuro. L’abilità di Wilson di districarsi tra secoli di imperatori, re, papi, arcivescovi, principi vescovi, principi abati, principi secolari, nobili, cavalieri e libere città ha dell’impressionante, come vedere un giocatore esperto padroneggiare un puzzle da quindicimila pezzi (il primo paragone che viene in mente guardando una mappa del Sacro Romano Impero).
Il professore di Oxford usa una prosa rilassata e di facile accesso, facendo uscire l’Impero di Carlo Magno da quella giungla di vecchi e antiquati volumi polverosi pieni dei nomi, date e concetti incomprensibili, per renderlo accessibile anche ad un pubblico moderno e “profano”. Le sue oltre mille pagine sono come l’arringa di un abile oratore in difesa della più trascurata delle realtà storiche europee, un’efficace prova retorica atta a riabilitare l’immagine di un enorme leviatano che per secoli ha goduto di una cattiva reputazione. Se infatti Voltaire sdegnosamente lo descriveva come “né sacro, né romano, né un impero”, James Madison ne sbeffeggiava la struttura di difficile comprensione, e Von Ranke, uno dei padri della moderna ricerca storica, ne enfatizzava l’eterno declino e fallimento. Wilson cerca di smentire queste “accuse” attraverso una forma inusuale per un’opera del genere. Lo stile infatti è analitico, non narrativo o cronachistico; il libro è diviso in dodici capitoli raggruppati in quattro gruppi di tre, “L’ideale”, “’L’appartenenza” o “L’identità”, “La sovranità”, “La società” (traduzione personale), concentrandosi quindi su idee e istituzioni piuttosto che su protagonisti e cronache (il che ricorda un po’ un classico della storia medievale, La società feudale di Marc Bloch). Naturalmente, parlando di un opera di tale estensione (mille pagine circa), soltanto i più volenterosi e motivati, aiutati in questo però dall’abilità dell’autore, riusciranno ad arrivare alla fine. Ma chi riesce in quest’impresa sarà sorpreso nel trovare idee interessanti e anche provocatorie, uno spunto per rivedere l’intera storia europea da un punto di vista “imperiale”.
Wilson, nell’introduzione, ci spiega che i capitoli sono “raggruppati con una progressione naturale, così che il lettore possa approcciarsi alle informazioni come in un volo d’uccello sull’Impero”, tuttavia, e qui una delle critiche possibili, sopravvaluta di molto le possibilità di un libro del genere, o dei libri in generale. Il lettore non acquisisce immagini comprensive, ma diverse informazioni passando di riga in riga, di paragrafo in paragrafo, non potendo scappare dalla linearità della carta stampata. Ogni sezione va da un tema all’altro ricominciando da capo nella narrazione storica (per esempio, fenomeni come la svolta “universale” della chiesa di Roma e lo sviluppo della governance carolingia, anche se avvenuti circa nello stesso periodo, sono divisi da centinaia di pagine) costringendo anche il più volenteroso dei lettori a tenere comunque in mente la cronologia degli eventi lungo tutto il libro (è infatti convenientemente riassunta in appendice). Ma, pur non riuscendo pienamente nel suo intento narrativo, Wilson mantiene un certo filo rosso che tiene insieme tutti i capitoli, cioè ridurre il danno creato da secoli di studi che hanno intravisto nel Sacro Romano Impero da una parte una struttura inutile e disfunzionale (addirittura colpevole della “mancata” unificazione tedesca o italiana), dall’altra una radice in qualche modo identitaria della nazione tedesca e delle sue rivendicazioni territoriali tra XIX e XX secolo. Smentire questi due filoni di pensiero era un’impresa non affatto facile.
Il Sacro Romano Impero
Agli occhi di studiosi moderni infatti, per i quali “Stato” implica una centralizzata, istituzionalizzata catena di comando che esercita il proprio potere su di un delimitato territorio nazionale, tutto ciò che venga prima del suo avvento poteva al massimo rappresentare un’informe e anacronistica impalcatura, un tentativo fallito sul percorso fatale che porta all’unitario Stato-nazione. Sfuggendo a giudizi di valore e ad una pervasiva quanto popolare idea della storia come un lineare cammino verso la modernità, Wilson descrive invece l’Impero come un’alternativa allo Stato europeo vestfaliano, non come una palla al piede delle rivendicazioni di unità nazionale. Caratterizzato né da una certa catena di comando, né da una struttura piramidale, l’Impero era un network di potentati, tenuti insieme dal consenso e da rapporti “clientelari”, non dalla coercizione, nella comune accettazione delle anomalie interne e delle diversità culturali. Tutto ciò mantenendo comunque capacità di riforma (come nell’istituzione del primo servizio postale commerciale europeo, o nell’uso generalizzato della stampa per i documenti imperiali già durante il regno di Carlo V). Questo network era costruito su di una struttura multicentrica. A differenza del potere esercitato, nei regni nazionali europei, da grandi centri come Londra e Parigi, l’Impero aveva molti poli di concentrazione di potere politico e culturale, si pensi a Vienna, Praga, Anversa, Amburgo, Aquisgrana, Milano. Wilson descrive il controllo del territorio come “locale e differenziato”, non “universale e lineare”. Il ruolo dell’imperatore, di qui la forma inconsueta dell’elezione, era di tenere insieme e proteggere le ampie reti e le complicate gerarchie. Dopotutto parliamo di un’istituzione che ha superato più o meno indenne secoli di cambiamenti, scismi, riforme religiose, e soprattutto la catastrofe della Guerra dei trent’anni. Un’istituzione che, se Napoleone non fosse intervenuto, forse sarebbe sopravvissuta per molta parte dell’Ottocento, almeno fino a che le forze “livellanti e omogeneizzanti” del nazionalismo e della rivoluzione industriale non la rendessero inadeguata (infatti troppe barriere doganali interne, diverse monete e una non integrata politica fiscale non consentivano all’Impero di giocare un ruolo di primo piano nello scenario economico europeo, come invece sarà per lo Stato unificato tedesco).
Di qui la decostruzione del secondo mito riguardo l’Impero, cioè una supposta continuità nazionale tedesca, una tradizione “imperiale” che lega Carlo Magno a Guglielmo I e addirittura ad Adolf Hitler. Il concetto di Reich “millenario”, come ideale e come parola, è sopravvissuto all’Impero stesso, contaminato dal Kaiserreich bismarkiano e soprattutto dal cosiddetto Drittes Reich nazista. Negli ultimi capitoli Wilson smentisce una tradizione di ricerca che lega realtà storiche e concettuali completamente sconnesse tra loro, addirittura contrapponendola ad un nuova teoria sulla “sopravvivenza” (“after-life” è il titolo dell’ultimo capitolo) dell’ideale imperiale che io ho trovato molto affascinante. Se da una parte la cultura delle libere città medievali vive ancora nei centri di Germania, Svizzera e Italia settentrionale, con le loro tradizioni, corporazioni e arti, con il loro culto dell’Heimat, parola tedesca difficilmente traducibile che include però in sé i concetti di città e patria, dall’altra, per l’autore, il sogno di Carlo Magno si realizza in un futuro modello non-nazionale dell’Europa unita.
L’Impero e l’Europa
Quest’ultimo capitolo, quello che risulta più “politicamente” interessante, parte da una base concettuale molto recente. In una Europa da ricostruire dopo i disastri causati da un nazionalismo cieco ed aggressivo nella prima metà del XX secolo, il fantasma dell’Impero carolingio infatti è stato rievocato, soprattutto in Germania, dai primi tentativi di integrazione europea come la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) del 1950, con una tradizione di un Europa di identità locali, regionali, pre-nazionali, prima ritenuta anacronistica e antistorica, che ritorna come antidoto alla distruzione del continente e della sua cultura. Da qui Wilson, se da una parte argomenta che proprio dalla critica alle strutture imperiali sia nata la moderna disciplina storica, con l’attenzione alle storie nazionali e al progresso dello Stato centralizzato (per lui l’Impero tuttavia non ha la “colpa” della mancata unificazione tedesca, un’unificazione che “nessuno riteneva necessario costruire” prima dell’Ottocento), dall’altra ritiene che una sua riabilitazione può aiutarci a comprendere meglio l’Europa moderna. Perché, anche se politicamente e geograficamente distante, l’Impero era un motivo di attaccamento per i suoi abitanti. Questi possedevano diverse identità all’interno della struttura orizzontale dell’Impero. Un cittadino di Milano poteva essere un cattolico, un borghese, un padre di famiglia, un membro di una corporazione e un italiano anche se allo stesso tempo suddito imperiale. Molte realtà locali vedevano nell’Impero una fonte di sicurezza e protezione della propria particolarità contro le rivendicazione centralizzatrici degli stati nazionali. Un Impero di cui Wilson tenta di decostruire la “germanicità”, prendendosi molto tempo e spazio da dedicare al rapporto che cechi, italiani, francesi, neerlandesi, svizzeri avevano con esso, una particolarità che si manifesta in tutti i capitoli del libro. Perché la componente “multinazionale” dell’Impero è centrale nella visione dell’autore riguardo la sua “seconda vita” moderna. Ma se quindi la tradizione imperiale rivive nella moderna Unione Europea, per l’autore quest’ultima condivide con l’altra i suoi limiti strutturali, soprattutto la permeabilità dei suoi confini e le diverse e confuse giurisdizioni, e i suoi problemi, la complessità “bizantina” delle sue istituzioni, la loro distanza dai cittadini e il continuo affidamento al compromesso.
Come Wilson argomenta, la “democrazia deriva la propria legittimità da un dibattito libero ed aperto, non dalla pratica del voto”, ed è questo il problema principale dell’Unione Europea, in cui le istituzioni comunitarie non riescono a creare un dibattito pubblico continentale. Naturalmente è uno storico troppo abile per dire che istituzioni di secoli fa, con le loro strutture premoderne e socialmente ineguali, possano essere usate come esempi per il presente, ma se la storia dell’Impero di Carlo Magno ha qualcosa da insegnarci, è che l’appartenenza deriva dalla consapevolezza e dalla partecipazione, non da trattati internazionali e che una politica unitaria può essere esercitata anche in una struttura orizzontale in cui diverse identità locali interagiscono tra loro. Se infatti sia federalisti europeisti che euroscettici vedono le istituzioni politiche come poli di accentramento del potere esercitato su aree ermeticamente chiuse, il Sacro Romano Impero, e Peter Wilson, ci ricordano che questo non è stato l’unico passato dell’Europa, ed è molto probabile che non ne sarà il futuro.