“Saggio sulle classi sociali” di Paolo Sylos Labini
- 27 Luglio 2016

“Saggio sulle classi sociali” di Paolo Sylos Labini

Recensione a: Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, con due scritti di Innocenzo Cipolletta e Ilvo Diamanti, nuova edizione, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 214, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Enrico Comini

7 minuti di lettura

Reading Time: 7 minutes

Paolo Sylos Labini è un noto economista italiano del secolo scorso; riformista, vicino alla sinistra, e in particolare al PSI, nel 1974 scrisse il “Saggio sulle classi sociali”, una dettagliata analisi delle classi sociali dell’Italia. Il saggio è stato recentemente ripubblicato in una nuova edizione, corredata da due scritti di Innocenzio Cipolletta e Ilvo Diamanti, dall’editore Laterza. Rileggere questo testo classico oggi, a distanza di 40 anni dalla sua stesura, può rappresentare un importante spunto di riflessione sui mutamenti della nostra società e dello sguardo che abbiamo su di essa.
Oggetto dell’opera di Sylos Labini è soprattutto lo studio di quella classe media, che si pone a livello intermedio tra borghesia e proletariato. L’autore si distacca dalla visione “classica” delle classi sociali di stampo marxiano, che divide la società in due classi antitetiche e contrapposte: la borghesia e il proletariato. In realtà Sylos Labini articola i ceti suddividendoli e differenziandoli sia al loro interno che tra di loro, poiché il benessere determinato dal boom economico aveva modellato le classi sociali espandendo notevolmente il ceto medio, cioè la piccola borghesia. Esattamente il fenomeno opposto alla proletarizzazione dei ceti medi predetta da Marx.

Da questi elementi si comprende il profondo interesse di Sylos Labini sul futuro ruolo politico della crescente piccola borghesia: essa costituiva un fattore di rischio democratico per il carattere retrivo che l’aveva sempre contraddistinta, a partire dal ruolo determinante da essa giocato nella fase di ascesa del fascismo. L’autore critica fortemente il corporativismo dei micro-interessi piccolo borghesi. Ma negli anni settanta qualcosa stava cambiando. Sylos Labini è stato il primo a mettere in luce, alla metà degli anni Settanta, il profondo mutamento in atto nella società italiana. Stava emergendo una nuova piccola borghesia intellettuale, artistica, economica, più “evoluta”, che rappresenta una discontinuità rispetto all’arretratezza culturale tipica della piccola borghesia italiana. Dagli anni Settanta e nei decenni successivi si parlò infatti di cetomedizzazione (De Rita) della società italiana, con la conseguente e parallela compressione della classe operaia: sono stati la deindustrializzazione, la trasformazione produttiva e la terziarizzazione gli elementi che hanno fatto crescere le classi intermedie.

Obiettivo di Sylos Labini è quello di comprendere come i nuovi ceti emergenti si sarebbero comportati politicamente, non tanto nel voto, ma nella costruzione di una società moderna. La società italiana degli anni Settanta vedeva sempre più la sovrapposizione di interessi multipli: l’operaio è un lavoratore dipendente, ma, magari, anche un proprietario di casa e un risparmiatore. Gli interessi della stessa persona in qualità di risparmiatore spesso non coincidono con quelli della stessa nelle vesti di lavoratore: ad esempio il risparmiatore vedrebbe di buon occhio una politica economica che per alcuni aspetti andrebbe a penalizzare il lavoratore e viceversa.

La piccola borghesia è una classe poco omogenea, con interessi diversificati al suo interno, interessi diversi e potenzialmente conflittuali. Non si deve pensare che le classi medie siano un monolite. Un esempio di tale disomogeneità è la piccola borghesia intellettuale (insegnanti) che nel Secondo Dopoguerra ha vissuto un costante declassamento sociale, una proletarizzazione per certi aspetti, una perdita di status che I. Cipolletta, nella prefazione dell’ultima edizione del libro, esemplifica nella figura de “Il maestro di Vigevano”, libro di Lucio Mastronardi. E’ qui rappresentata la figura dell’insegnante nella sua progressiva perdita di status sociale, quando il ceto piccolo borghese intellettuale si vede scavalcato dai “parvenu”, i nuovi ricchi, commercianti e imprenditori, spesso aventi bassi titoli di studio. Il timore della perdita di status è una costante delle classi intermedie. Con la paura dell’impoverimento è spiegata in parte la tendenza dei piccolo borghesi ad appoggiare posizioni politiche conservatrici se non reazionarie, come posizioni politiche di sinistra extra-parlamentare (gruppi studenteschi universitari di estrema sinistra), a partire dal ’68. Non a caso sono le classi medie le politicamente più instabili.

Sylos Labini ritiene che le istanze dei ceti medi intellettuali, di porzioni di classi medie impiegatizie, specie i tecnici, possono essere simili e sovrapponibili a quelle della classe operaia. Negli anni del boom c’è stata una notevole crescita dei lavori impiegatizi e contestualmente si sono ridotte le distanze tra impiegati e operai in termini di reddito. In particolare si nota come i lavoratori del pubblico impiego hanno perso reddito in comparazione con altri lavoratori.

Ma per il capitolo del pubblico impiego l’autore si sofferma parlando del Mezzogiorno e dell’ipertrofia del lavoro pubblico, quasi sempre frutto di logiche clientelari. Nel pubblico impiego sono infatti significative le sacche di clientelismo, tipico della piccola borghesia più retriva, indaffarata solamente per il proprio “particulare” e senza alcun interesse per la cosa pubblica, che fanno sì che sia il mondo del lavoro privato il luogo dove prevalgono le sensibilità più “progressiste”, meno accomodanti con le forze di governo.

Sylos Labini denuncia la compartecipazione a tale logica clientelare anche degli allora partiti di sinistra. L’elogio alla classe operaia rappresenta spesso un’enunciazione retorica dietro la quale si cela una realtà diversa: è la piccola borghesia la classe da cui provengono gran parte dei ceti dirigenti, essa ne detiene l’ “egemonia”. I dirigenti dei partiti, specie a livello centrale, sono pertanto dei piccolo borghesi, sebbene spesso “illuminati”, che hanno il privilegio sociale di possedere un alto grado di istruzione e un maggiore tempo libero dei lavoratori. Era quasi inevitabile che ciò avvenisse poiché all’epoca il 70% degli italiani ancora aveva al massimo la licenza elementare (Sylos Labini parla dell’Italia come di un “paese di semianalfabeti”). Pertanto le classi dirigenti politiche della sinistra dovevano prendere coscienza di tale realtà perché non fossero condizionate da interessi particolari o comunque diversi rispetto a quelli della classe lavoratrice. Sul tema delle alleanze tra ceti medi e classe operaia, Sylos Labini lamenta un’ eccessiva flessibilità dei gruppi dirigenti della sinistra nell’accogliere istanze di pezzi di piccola borghesia corporativa e conservatrice (come i commercianti al minuto e pezzi di pubblico impiego). La corruzione, le spinte corporative e la caccia di privilegi si sono diffusi nella pubblica amministrazione e nella società italiana con un aumento dell’uso parassitario delle risorse a danno delle capacità di sviluppo economico. Già negli anni 70 la corruzione appare come insostenibile e l’autore si appella alla sinistra perché si riorganizzi e rifugga dal sostegno alle pratiche corporative, pena la sclerotizzazione irreversibile dei partiti. Pur essendo indispensabile un’alleanza tra classe lavoratrice e parte di ceti medi, i partiti della sinistra dovevano saper discernere bene tra chi avrebbe potuto accedere a tale porzione di ceto medio con cui poi collaborare. Questa scelta non è secondaria, perché una cattiva alleanza con porzioni parassitarie di ceti medi avrebbe snaturato l’essenza stessa della strategia politica di una forza di sinistra.

Il processo di cetomedizzazione, cioè la fase di crescita dei ceti medi, è continuata nei decenni successivi all’opera di Sylos Labini fino all’inizio della crisi economica attuale. La centralità dei ceti produttivi, il mondo delle PMI e del lavoro autonomo, cresciuto esponenzialmente dagli anni settanta, ha trovato la propria rappresentanza politica nel forza-leghismo, il centrodestra “anti-stato e anti-tasse” che, grazie alla leadership di un self made man come Berlusconi, ha provato a farsi carico per vent’anni delle istanze dei nuovi ceti emergenti. Il mondo del lavoro autonomo è diventato così la principale classe a cui si sono rivolti i politici di destra e talvolta di centro sinistra, mentre i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, perdevano progressivamente potere contrattuale. Anche grazie a riforme del mercato del lavoro “blairiane”, gli imprenditori hanno avuto una serie di vantaggi innegabili: maggiore precarietà dei lavoratori, boom dei profitti (secondo uno studio Mediobanca dal 1995 al 2007 i profitti netti per dipendente sono cresciuti mediamente del 74,5% a scapito di una stasi o compressione del potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti con solo un +5% delle retribuzioni per i dipendenti delle grandi imprese), sostanziale assenza di lotta all’evasione fiscale…ecc…

A fronte di questo stato di cose i governi di centro-sinistra hanno provato a fatica a intraprendere una qualche azione di contrasto all’evasione fiscale (con l’avversione violenta della maggior parte dei mass media) e si sono appoggiati all’UE nella speranza che la governance europea sarebbe stata in grado di imporre norme di civiltà altrimenti difficilmente approvabili. Nella sostanza, però, le politiche di privatizzazioni e del mercato del lavoro sono state in linea con il pensiero egemone espresso dai “ceti produttivi”.

Negli ultimi anni, però, la situazione sociale dell‘Italia è mutata: dal 2008 al 2015 la percezione degli Italiani di appartenere al ceto medio è scesa dal 48% al 42% e oggi la classe popolare/operaia si attesta al 52% (altre statistiche dicono 54%). La disoccupazione, la contrazione del potere d’acquisto dei salari medio-bassi, il boom del precariato hanno creato masse di lavoratori poveri e di sotto-occupati che rientrano a pieno titolo nella fascia più bassa della scala sociale: ciò appare come un impoverimento di massa del ceto medio.

Sylos Labini riteneva che la riflessione sulla struttura sociale e sulla distribuzione del reddito fosse imprescindibile per attuare una politica riformatrice: analizzare e comprendere per rimuovere gli ostacoli che hanno bloccato da tempo l’ascensore sociale. Recenti dati dell’Eurostat confermano le tendenze di travaso del reddito nazionale dal Lavoro al Capitale: nel 1992 il 59% del reddito nazionale andava al lavoro, oggi siamo attorno al 50%. Negli ultimi due decenni c’è stato uno spostamento medio annuo del 6,5% di Pil verso i redditi da capitale. Le retribuzioni reali medie italiane paragonate a quelle dei ventiquattro paesi Ocse sono passate in numero da 110 del 1990 a 93 del 2015.

Il tasso di disoccupazione giovanile (poco sotto il 40%), il numero degli emigrati all’estero (centomila espatri all’anno in media negli ultimi anni, con una crescita dei flussi di circa il 50% dal 2006) e dei Neet (31% nella fascia 18-29 anni) sono emblematici del problema della mancanza del lavoro, e di lavoro qualificato, per molti giovani. Giovani che si ritrovano, quando possono, a dipendere economicamente dai genitori per troppi anni. Anche i laureati,che in passato quasi sempre andavano ad occupare lavori tipicamente delle classi medie, stanno conoscendo una una sensibile riduzione del reddito (-25% dal 1993 al 2012) . A fronte di ciò la Crisi ha colpito meno i ceti elevati e molto più il ceto medio e i ceti bassi. L’allargamento della forbice sociale, una costante da decenni in tutti i paesi occidentali, ha fatto tornare in auge il tema della giustizia sociale dopo decenni di “oblio”. La questione della lotta alle diseguaglianze però, contrariamente al 1974, cioè all’anno di pubblicazione del saggio di Sylos Labini, non ha finora politicamente trovato voce in un partito o in un movimento sociale. La lotta alla “casta” è rivolta contro i politici e i partiti e non è di per sé finalizzata a creare una società più giusta. La rilevanza e il ruolo dei partiti nella società sono diversissimi rispetto a quelli di quarant’anni fa: la crisi dei partiti e della rappresentanza coinvolge, anche se in forma minore, i sindacati, anche se questi ultimi mantengono una buona capacità organizzativa e dimostrano di avere la capacità di mantenere dei punti fissi e una coerenza valoriale nel tempo. Tuttavia il tema di come declinare oggi le istanze di giustizia sociale rimane tuttora aperto.

Scritto da
Enrico Comini

Classe 1993. Studente di Scienze Politiche presso l'Università di Bologna. Si interessa di Storia Contemporanea e politica.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici