Scritto da Tiziano Bonazzi
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L’articolo che segue è una versione ampiamente rielaborata dall’intervento tenuto dal prof. Bonazzi nell’ambito della presentazione, organizzata da Pandora a Bologna il 14 giugno presso la libreria Ubik, dal titolo “Sanders e Corbyn: storie parallele?”. L’autore è professore emerito di Storia e Istituzioni delle Americhe presso l’Università di Bologna.
Il lungo iter dell’elezione presidenziale statunitense è stato quest’anno caratterizzato – squassato in realtà – dalla presenza e dal successo di due candidati anomali, Donald Trump e Bernie Sanders, definiti sia anti-establishment, sia insurgents, sia populisti, quando non con aggettivi assai meno pregiati. Trump si avvia, contro la volontà di buon parte dei dirigenti del suo partito, a conquistare la candidatura Repubblicana, Sanders è stato sconfitto di misura per quella Democratica; ma entrambi stanno incidendo profondamente sulla politica americana. La loro traiettoria nel corso delle primarie ha avuto esiti diversi, ma aspetti paralleli. Trump ha distrutto i politici di un partito di cui non faceva parte, fossero essi conservatori moderati, duri e puri o legati alla destra evangelica, e ha conquistato dall’esterno, in quanto non è un politico di professione, la base Repubblicana sospinta dalle sue componenti più radicali. Sanders ha vissuto di politica tutta la vita, dalla giovinezza nei movimenti New Left alle elezioni a sindaco di Burlington, Vermont, poi a Deputato, infine a Senatore del medesimo stato; ma lo ha fatto da Indipendente, una figura politica che ha sempre avuto un suo piccolo spazio nella politica americana, e si è iscritto al Partito Democratico solo quando ha iniziato la campagna per le primarie di quel partito. Pure lui ha tentato una scalata dall’esterno contro leader Democratici riconosciuti, anche se lo ha fatto da uomo politico per cui le due vicende, sua e di Trump, hanno aspetti in comune da collegare a una profonda insofferenza nei confronti dell’establishment politico.
La politica americana viene spesso letta attraverso idee tradizionali quali una forte continuità garantita dal sistema politico, dalle leggi elettorali e dalla Costituzione oppure una convergenza al centro sia degli elettori che degli eletti che consente a questi ultimi, complice la decentralizzazione dei partiti, di votare attraversando spesso le linee di partito. Due specificità che tendono a darci una tassonomia della politica americana nel segno dell’equilibrio, della medietà, della condivisione dei valori. Il che, pur vero in non piccola parte, è insufficiente, perché se lo prendiamo come punto di riferimento perdiamo di vista una caratteristica ancor più importante, l’estremo dinamismo della politica americana e la sua durezza legata a scontri ideali profondi. La rappresentazione di una scena americana stabile e poco controversa è, in realtà, un portato dell’ideologia della Guerra fredda che leggeva gli Stati Uniti in questo modo per esaltarne la moderazione e il consenso attorno a pacifici ideali di libertà contro il comunismo. Non c’è bisogno di ricordare che la più tragica guerra civile dell’Ottocento è stata quella americana, con 650.000 morti, e che fra Ottocento e Novecento oltreatlantico la lotta di classe è stata durissima e sanguinosa; basta tener presente che lo scontro fra conservatori e progressisti è andato avanti senza tregua per tutto il Novecento con un alternarsi di vittorie degli uni e degli altri. Non è facile capire come comporre in un quadro unico la storia di successo degli Stati Uniti, la loro scalata al potere mondiale, con l’appena accennata dinamica di lotte e di contrasti duri e profondi. Un solo caveat, dal momento che il tema in questa sede non può non restare sullo sfondo, ed è quello di non opporre altre ideologie all’ideologia americana della continuità pacificata della storia statunitense. Accanto a ciò la notazione che gli Stati Uniti sono stati e sono un paese non solo geograficamente enorme, ma di un’estrema complessità e parcellizzazione socioeconomica e culturale che per restare unito si è dato istituzioni che hanno diviso il potere politico in una sorta di sempre mutevole labirinto. Se è vero che visti dall’esterno, sulla base della loro politica estera ad esempio, essi appaiono come un Dio o un demonio dalla volontà una, perché è così che la Costituzione e la tradizione hanno organizzato le istituzioni e il processo decisionale in questo campo, all’interno sono un continuo ribollire di gruppi, movimenti, iniziative costantemente in movimento e in lotta fra loro.
L’attuale fase politica ha radici che risalgono a oltre mezzo secolo fa, agli anni ’60 e alle rivolte che li segnarono e che fecero saltare l’accordo fra le correnti maggioritarie di Democratici e Repubblicani all’insegna di un welfare state moderato e della cooperazione fra big government, big business e big unions che risaliva al New Deal. Da allora è iniziata una riscossa conservatrice all’insegna del neoliberismo, della finanziarizzazione dell’economia e di un ritorno a valori tradizionali che ha dato un ruolo da protagonista anche alle chiese cristiane evangeliche e fondamentaliste più conservatrici. La risposta liberal si è manifestata con successo nel campo dei diritti sessuali e di quelli delle donne, delle minoranze etniche e degli immigrati, nonché sui temi ambientali. Cosa che ha portato a una spaccatura sociale profonda fra le classi medie urbane più scolarizzate, che di tali diritti sono diventate le portabandiera, e i gruppi sociali di reddito inferiore, meno scolarizzati e/o che vivono nell’immensa provincia agricola americana. In campo economico, invece, la classe dirigente del Partito Democratico, sia con il President Clinton che con Obama, ha scelto la via di un appoggio alla globalizzazione e alle imprese e tecnologie più avanzate che ampliano le possibilità di carriera delle classi professionali e tecniche medio-alte che sono in maggioranza Democratiche. Queste stesse classi non sono, però, favorevoli a misure di redistribuzione del reddito o di controllo dell’economia, per cui non vi è stata una seria politica volta a ridurre le diseguaglianze economiche e si è preferito portare avanti misure di welfare di grande impatto – ed estremamente divisive – come l’Obamacare.
Come conseguenza quella che è una caratteristica ben nota del sistema politico americano, il governo diviso – vale a dire la presenza di un Congresso uno dei cui rami o entrambi sono controllati da un partito diverso da quello del Presidente -, che funziona quando vi è un terreno comune fra le parti che può portare ad accordi e compromessi, ha cambiato natura. I Repubblicani hanno, infatti, conquistato prima la Camera dei Rappresentanti, poi il Senato; ma lo hanno fatto sotto la spinta del movimento del Tea Party e del suo estremismo popolare aizzato, e foraggiato, da grandi magnati conservatori come i ben noti fratelli Koch. Pur diversificato e senza una guida centrale, come è usuale nei movimenti politici americani, il Tea Party rappresenta quei ceti sociali a cui si è accennato sopra, che si sentono emarginati in una società sempre più lontana dai loro valori e in una patria amatissima che non dà più loro il senso di supremazia ideale che li aveva nutriti durante la Guerra fredda e che negli anni ’90 li aveva fatti sognare di una “Nuova Roma” americana dominatrice mondiale indiscussa. Su questa base il governo diviso ha smesso di funzionare dando luogo a uno scontro senza esclusione di colpi che spesso ha portato al gridlock, allo stallo, come ora a proposito della sostituzione del giudice della Corte Suprema Antonin Scalia deceduto nel febbraio di quest’anno.
I non pochi casi di corruzione di politici di entrambi i partiti sia a livello federale che statale hanno inoltre tolto credibilità all’intera classe politica e hanno portato al tentativo, da parte ad esempio del Tea Party nel Partito Repubblicano, di sostituirla con persone nuove. Manovra spesso riuscita; ma che ha portato a risultati disastrosi perché i nuovi eletti erano stati scelti non in base alle loro capacità, ma al radicalismo ideologico.
Il Partito Democratico dopo il 2008 ha subito dure sconfitte elettorali sia a livello federale che statale; ma fino alle ultime primarie è stato meno toccato dall’insurrezione anti-establishment anche per essere riuscito a portare Obama alla Casa Bianca. E’ tuttavia vero che l’insofferenza sociale ha toccato gli elettori ad esso più vicini, come i giovani professionisti e gli universitari che diedero vita al movimento Occupy Wall Street del 2011 a New York. Con l’occupazione per un paio di mesi di un parco pubblico vicino a Wall Street il movimento inscenò una protesta contro la disuguaglianza economica e il mondo finanziario e rese popolare lo slogan “Siamo il 99%” con cui intendeva rendere palpabile l’antidemocratica concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta cerchia di grandi finanzieri e industriali.
Nonostante il sistema politico abbia continuato a funzionare normalmente gli Stati Uniti degli anni 2000 sono stati percorsi da continui movimenti di protesta che ne hanno attraversato la società in ogni direzione e che proprio durante le ultime primarie sono venuti definitivamente alla luce.
Il fenomeno Sanders, come quello Trump, non è spiegabile con le categorie sociopolitiche del Novecento perché la società americana, che, come detto sopra, è sempre stata caratterizzata da una grande velocità di mutamento, non è più riconducibile a esse – neppure a quelle più specificamente americane del secolo scorso, che rendevano difficile l’applicazione al suo contesto di analisi di classe di tipo italiano.
Molti politologi e osservatori politici americani si servono di due spiegazioni per dar conto della rivolta anti-establishment a cui stiamo assistendo. La prima passa per l’individuazione di due tipi di gerarchie sociali negli Stati Uniti, una gerarchia del denaro e una dello status. Quella del denaro non viene respinta in sé perché è ammessa da una tradizione fondativa della cultura americana, quella dell’autonomia individuale che si ottiene col lavoro e con i risultati che dal lavoro si traggono. Un’autonomia personale ed etica che premia economicamente chi meglio sa esprimersi nel lavoro e che già Max Weber aveva individuato. Ciò che oggi è sotto attacco non sono la ricchezza o il capitalismo; ma gli inaccettabili sviluppi di entrambi che si sono verificati a partire dagli anni ’90. La seconda è una gerarchia di status, impostasi di recente con la società postindustriale e la globalizzazione, che ha portato ai vertici della società una class of professionals, coloro, cioè, che hanno titoli di studio postuniversitari e che occupano posti di alta responsabilità manageriale o professionale. Si tratta di persone che pongono la conoscenza come requisito primo di status sociale, che sono molto liberal in materia di diritti e di riconoscimento dell’alterità, ma conservatori sul posto di lavoro, che sono avversi ai sindacati perché tendono a restringere la competizione e hanno poca considerazione per i lavoratori di medio o basso livello. Occorre dire che la politica economica di Obama li ha premiati combattendo blandamente la deregolamentazione di Wall Street, sostenendo gli accordi di libero scambio internazionale e rendendo più flessibile il lavoro. Contro questo tipo di gerarchia di status si sono rivolti i movimenti di protesta degli anni di Obama e lo hanno fatto sia da destra col Tea Party, sia da sinistra con Occupy Wall Street.
La seconda spiegazione riguarda la crisi della classe media che negli anni 2000 si è molto indebolita. Occorre, però, specificare cosa si intende per middle class nel vocabolario politico americano. Siamo, infatti, davanti a una costruzione storica e ideologica con la quale si esprime un ideale sociopolitico, quello della possibilità per tutti o, meglio, per chi riesce a rendersi autonomo col lavoro, di realizzare un proprio progetto di vita che, a partire dal post Seconda guerra mondiale è stato quello di partecipare a pieno alla società dei consumi e di poter dare un avvenire ancora migliore del proprio ai figli. Idealmente alla classe media appartiene il 90% degli americani. Resta fuori la upper class dei molto ricchi e la underclass di chi è al limite della sopravvivenza, spesso, si ritiene, per propria colpa, i “poveri non meritevoli” secondo una definizione ottocentesca. In realtà questo ideale di classe media è sempre stato un ideale o un’ideologia soprattutto dei bianchi, anche se lo stesso termine “bianchi” è venuto mutando nel tempo per ricomprendere quegli immigrati dall’Europa meridionale e slava che un tempo molto bianchi non erano ritenuti.
A partire dagli anni ’70 una parte di questa “classe media”, quella noi chiameremmo classe media inferiore, si è sentita minacciata nei suoi valori religiosi e morali e ha abbracciato il neoconservatorismo. Oggi, dopo la crisi del 2008, si sente minacciata anche economicamente per il gran numero di posti di lavoro spariti a causa degli accordi di libero scambio come il NAFTA e dell’outsourcing e per la concorrenza delle minoranze etniche e degli immigrati illegali in un mercato del lavoro accessibile a questa fascia sociale solo nelle mansioni meno qualificate e sottopagate. Da qui il sommarsi di una rivolta contro la modernità dei costumi e contro la fine della supremazia americana con una situazione di crescente insicurezza economica che ha dato luogo alla rivolta contro l’establishment della politica, contro i politici che non hanno mai lavorato, che sono corrotti e ai quali non importa nulla dei cittadini americani.
Possiamo far rientrare nella crisi della middle class anche lo scontento generazionale in una nazione che, sia per il tasso di natalità che per l’immigrazione, è senza dubbio giovane. Uno scontento giovanile che fra le fascie sociali inferiori è soprattutto mancanza di futuro e di norme sociali di riferimento che porta alla marginalità, e fra quelle medio alte o più motivate è la sensazione che si sia fermato “l’ascensore sociale”, la possibilità di emergere attraverso il lavoro o attraverso lo studio. Un’altra componente di un quadro sociale molto frastagliato ed estremamente complesso al quale si dovrebbe aggiungere la diversità delle situazioni sociali culturali nelle tante e diverse parti del paese. Da tutto ciò il subbuglio, la protesta, la rivolta che hanno avuto le recenti primarie come punto di caduta.
Bernie Sanders, presentandosi alle primarie Democratiche, ha puntato a rappresentare le componenti di sinistra di questa complessa situazione, e c’è riuscito. Sanders viene detto e ama dirsi socialista; ma cosa questo significhi è difficile determinare. Personalmente preferisco definirlo un radicale nella tradizione del radicalismo statunitense e ritengo che il suo stesso dirsi socialista sia un modo forte per imporre, servendosi di un termine pressoché inaccettabile nel discorso politico americano, la sua qualità di radicale. I movimenti radicali negli Stati Uniti sono stati innumerevoli, organizzati in partito o meno, legati al Partito Democratico o meno e, per quanto molti di essi possano essersi sentiti parte di ideologie socialiste e comuniste, anarchiche o agrarie, la loro caratteristica principale è stata quella di combattere, sostenuti da una forte carica morale, la frattura fra gli ideali di libertà e democrazia della tradizione americana e la realtà dei fatti. Tali i movimenti New Left degli anni ’60, radicali in quanto intendevano rendere vera, sostanziale, la democrazia americana attraverso la cosiddetta “democrazia partecipativa” lottando contro la democrazia esistente che ritenevano soltanto elettorale e formale. Il radicalismo statunitense ha sempre guardato con favore alle iniziative dal basso, a forme di comunitarismo a livello locale, a un forte welfare e a norme tendenti a impedire l’affermarsi di grandi concentrazioni industriali e finanziarie; molto più raramente e a un livello ideologico piuttosto che concreto ha perseguito il superamento dell’individualismo e del capitalismo.
Probabilmente è più appropriato definire Sanders un populista, termine che oltreatlantico ha una connotazione assai meno negativa di quello socialista e che, da molti punti vista, è assimilabile a radicale. Il populismo, che ha il suo antenato più illustre nel People’s Party degli agricoltori dell’ovest a fine Ottocento, ha sempre avuto un carattere economicamente radicale e politicamente comunitario, anche se spesso tradizionale nei suoi valori religiosi e morali, e ha combattuto per il popolo degli onesti lavoratori contro i pochi che hanno in mano il potere politico ed economico e contro le loro “macchine di partito” – quello che oggi chiameremmo establishment politico. I populisti sono sempre stati degli insurgents, dei ribelli dal basso e la loro somiglianza con quanto sta ora avvenendo negli Stati Uniti – con Trump, non solo con Sanders – è significativa.
La biografia di Sanders indica che siamo davanti a un buon americano che appartiene alla corrente radicale del New Deal, quella che si rifà al famoso discorso di F.D.Roosevelt del 1944 sulle “quattro libertà” da garantire a tutti gli americani. Egli si è mosso in questo contesto fin dai giorni in cui era un leader dello Students non Violent Coordinating Committee, una delle principali organizzazioni studentesche New Left. Dopo questa esperienza, trasferitosi in Vermont, fu candidato di piccoli partiti locali (anche la costituzione di partiti statali e locali che puntano all’organizzazione della protesta e a sostenere single issues fa parte della tradizione radicale americana) e divenne sindaco di Burlington come Indipendente. Successivamente, muovendosi con destrezza fra le varie fazioni del Partito Democratico del Vermont senza mai entrarvi, riuscì a farsi eleggere come Indipendente prima alla Camera dei Rappresentanti, poi al Senato. A Washington è stato uno stretto alleato dei Democratici con i quali ha quasi sempre votato; ma si è distinto per il costante attacco alle disuguaglianze economiche e per un atteggiamento non interventista in politica estera che lo ha portato a schierarsi contro entrambi le guerra in Iraq. Il suo voto più significativo, a mio avviso, è stato, tuttavia, quello contro il Patriot Act, voluto nel 2001 dal Presidente George Bush jr. per combattere il terrorismo e da lui ritenuto una legge pericolosa per le libertà degli americani in quanto concedeva, fra l’altro, l’accesso da parte degli organi di sicurezza alle informazioni personali dei cittadini. La sua linea politica è stata, quindi, costantemente quella che già aveva negli anni ’60, quando si era opposto alla guerra in Vietnam, aveva sostenuto i diritti civili e politici di tutti gli americani e si era battuto contro il complesso militare-industriale. Ciò che è cambiato è forse il suo avere accentuato durante le primarie il suo movimentismo e il suo populismo.
Vi è quindi un filo rosso che percorre la biografia di Sanders e che spiega il suo cambio di rotta e la decisione nel 2015 di entrare nel Partito Democratico per correre alle primarie. Una mossa che potrebbe sembrare incongrua dopo una vita politica fuori dal partito; ma Sanders è un politico puro, un professionista della politica, non un agitatore e la sua decisione è stata interamente politica. Egli ha, infatti, colto il crescere dello scontento e il fermento di cui si è detto in precedenza, in particolare il fatto che il movimento Occupy Wall Street non si è spento con la sua fine quando cessò l’occupazione di Zuccotti Park nel novembre 2011; ma che, anche questo in linea con la tradizione radicale americana, ha continuato a vivere in iniziative politiche locali single issue legate alla protesta contro la diseguaglianza economica, i bassi salari e l’indebita influenza delle corporations e dei lobbisti. Sanders è entrato nelle primarie appoggiandosi a queste iniziative, creando un’organizzazione dal basso e servendosi di una retorica anti-establishment che ha dato voce a quanto pensavano molti elettori Democratici.
Il suo successo è senza dubbio legato alle difficoltà del Partito Democratico con i suoi stessi elettori e alla “fortuna” di essersi trovato davanti un’avversaria come Hillary Clinton, che del partito rappresenta l’establishment più puro e le correnti moderate. Anche la sua sconfitta, tuttavia, è legata a quella “fortuna” e al suo risvolto, l’altra faccia della medaglia, costituito dal fatto che il moderatismo è la forza del Partito Democratico. Se ancora una volta cerchiamo di usare il linguaggio politico americano la forza di Sanders non nasce dal beer track, la “pista della birra” della classe operaia e delle fasce sociali medio-basse che da vari decenni scelgono in maggioranza il Partito Repubblicano e oggi Trump o, se sindacalizzate, l’ala tradizionale – neocorporativa se si vuole – del Partito Democratico. Non nasce del tutto neppure dal wine track, la più raffinata “pista del vino” dei manager, dei giovani professionisti, dei creativi, molti dei quali sono disinteressati alla politica o si sentono rappresentati dal centrismo Democratico. Non raccoglie molto neppure fra i gruppi etnici neri e latinos, anch’essi, in particolare i primi, vicini al welfarismo Democratico tradizionale. Il fulcro del suo sostegno proviene dallo scontento dei bianchi più scolarizzati fino ai 45 anni con una buona carriera resa insicura dalla crisi economica, dei creativi dell’industria e delle professioni, del vastissimo mondo accademico e della ricerca in tutti i suoi aspetti professionali. Insomma dai settori sociali più attenti agli ostacoli che la modernità spinta che essi rappresentano incontra a causa non solo del conservatorismo sociale e del dover spesso sottostare alla volontà dei potentati economici, ma anche del favore che l’establishment Democratico spesso mostra nei confronti di questi ultimi.
La forza propulsiva di Sanders, tuttavia, viene da quanto si è preservato nella società americana delle idee della tradizione etica e politica risalente agli anni ’60 – e non è poco -, nonché dai giovani, i cosiddetti millennials. Questi ultimi hanno accolto con entusiasmo il messaggio di Sanders perché lo hanno sentito moralmente diretto e puro in una realtà in cui colgono soprattutto la presenza della corruzione del potere che minaccia le loro idee e ambizioni. Si tratta di una rivolta generazionale più forte e di segno opposto rispetto a quella che si manifestò negli anni ’80 e che era andata in direzione opposta, verso la Destra religiosa e il neoconservatorismo. E’ importante specificare, tuttavia, che, come già per il New Left, ci troviamo soprattutto davanti a giovani ambiziosi delle classi medio-superiori – e alle loro famiglie -, che vorrebbero entrare in quella gerarchia di status di cui si è detto sopra. La loro ambizione è studiare, soprattutto a livello post-laurea, nelle migliori Università (circa 200 sui oltre 4000 college e università americane) che sono anche molto costose. Negli Stati Uniti esiste un vasto sistema di prestiti universitari gestito da apposite società assicuratrici e finanziarie nato per aiutare i giovani negli studi e che per parecchio tempo è parso una soluzione per molti giovani provenienti da famiglie a reddito medio e medio-basso; ma che col tempo si è trasformato in un sistema se non usuraio almeno costosissimo, sia per la crescita esponenziale delle tasse universitarie che per la volontà di far profitti di chi concede i prestiti. E’ ormai normale che i laureati rimangano per molti anni col cappio al collo dei debiti da ripagare e ciò, agli occhi di molti, ha bloccato il principale “ascensore sociale” di una società postindustriale e competitiva come quella americana. Puntando su questo scontento Sanders si è dotato di un seguito entusiasta pronto a lavorare politicamente per lui nei caucus e nelle campagne elettorali.
Alla luce di quanto detto vanno viste le proposte politiche di Sanders che non puntano a rovesciare il sistema americano, ma ad adeguarlo all’ideale di base della società americana, una libertà individuale effettiva non impedita da strozzature che impediscono alla maggioranza di realizzarla. Non si tratta principalmente di quella che nel nostro vocabolario politico chiamiamo eguaglianza sociale, anche se contiene forti dosi di giustizia sociale a partire da misure per impedire le ormai incredibili diseguaglianze di reddito non solo fra l’1% e il 99%, ma fra una frazione di quell’1% e il resto dei cittadini e per rimettere in moto “l’ascensore sociale” che consenta alla middle class di recuperare posizioni. Sanders, infatti, ha a più riprese sostenuto di volere un “level playing field”, un piano di gioco uguale per tutti, una richiesta da vero americano, non da socialista europeo. Non si tratta, infatti, per lui di giungere all’uguaglianza nei risultati, cioè all’uguaglianza di tutti alla fine della corsa, ma all’uguaglianza nelle condizioni di partenza, in modo che nella corsa della vita nessuno sia svantaggiato all’inizio. Poi ognuno otterrà i risultati che riuscirà a raggiungere in base agli obiettivi e alle capacità personali. Un ideale, quello del level playing field, che troviamo fra sociologi, politologi e intellettuali di idee politiche anche assai diverse durante la Guerra fredda e, prima ancora, nel New Deal e nell’età progressista di inizio Novecento.
Sebbene abbia raccolto oltre 12.000.000 di voti Sanders alle primarie è stato sconfitto da Hillary Clinton perché il Partito Democratico non ha ceduto come nel caso di Trump e dei Repubblicani. La presenza di un Presidente Democratico è stata, a questo proposito, senza dubbio importante; ma a ciò occorre aggiungere altri elementi e due in particolare.
Il primo riguarda la lotta di Sanders contro le diseguaglianze di reddito che stanno mettendo in crisi la classe media. Il suo programma di alzare il salario minimo, aumentare la tasse sui patrimoni alti e lottare contro il trasferimento all’estero di posti lavori e di intere industrie è perfettamente in linea con la sua visione politica; ma ha il difetto di essere color blind, di promuovere quella che si chiama vertical equality, cioè una maggiore eguaglianza fra fasce sociali. Negli Stati Uniti questa proposta cozza, però, contro le richieste di neri e latinos che, da sempre discriminati, sono contrari a politiche economiche che non tengano conto del “colore” e chiedono una horizontal equality, cioè l’uguaglianza fra i bianchi e gli altri gruppi etnici da promuovere con apposite politiche. Questo e il fatto che, gli afroamericani soprattutto, abbiano da sempre individuato nell’establishment Democratico il loro punto di forza li ha portati a preferire la Clinton a Sanders. Il secondo elemento di debolezza del programma di Sanders è il suo attacco generale e generico a Wall Street. Egli ha, infatti, dato l’impressione di avere una posizione più ideologica che concreta e non è mai riuscito a far credere di conoscere veramente l’incredibilmente complesso mondo della finanza globale e di poter formulare proposte concrete e attuabili. Il che gli ha alienato molti fra i progressisti delle professioni e del management che in quel mondo vivono e che ritengono la Clinton sia, con il suo moderatismo pragmatico, più adatta a orientarsi in esso.
Ciò non toglie nulla al successo di Sanders; ma è indicativo del fatto che, se l’establishment del Partito Repubblicano è in piena confusione, l’elettorato Democratico è ancora in maggioranza saldo attorno alla sua dirigenza. E’, tuttavia, vero che il partito è profondamente diviso secondo linee che rispecchiano le spaccature che si sono venute manifestando dagli anni ’60 e si sono accentuate negli anni 2000 a causa dei velocissimi mutamenti che il paese sta attraversando e dei conseguenti squilibri. Non è, quindi, un caso che Sanders continui ostinatamente a tener alta la sua bandiera sebbene il rituale della tradizione politica americana richieda al candidato sconfitto si allinearsi subito col vincitore in nome dell’unità del partito e della necessità di vincere le elezioni. Egli è troppo buon politico per non capire che se il candidato Sanders è sconfitto il “sanderismo” vive, per capire, cioè, che il partito è diviso in due e che la parte minoritaria ha ancora buone carte da giocare. Durante le primarie Sanders ha accentuato il suo movimentismo e populismo; ma ora capisce che è nel partito che può giocare le sue carte migliori. Siamo di fronte a un politico al 100% che persegue da professionista i suoi programmi. Un politico serio e di razza, intendo, che non fa giravolte e capriole; ma è pronto ad adattare alle situazioni la sua strategia. L’azione dal basso era utile per entusiasmare l’elettorato durante le primarie. Ora il partito torna a essere al centro della sua attenzione ed è in un partito che egli comprende essere indebolito e diviso che continua la sua battaglia, non per distruggerlo, bensì per iniziare a cambiarlo. Ne è indice il tentativo di influenzare la “piattaforma”, cioè il programma dei Democratici che dovrà essere approvato dalla Convenzione. Di solito la platform elettorale non ha molta importanza e contiene le cose più diverse per accontentare i gruppi più disparati. Sanders, invece, con la forza dei suoi milioni di voti, ritiene possa essere il grimaldello per far spostare a sinistra l’asse del Partito e influenzare i candidati – non solo la Clinton, ma anche quelli per le elezioni al Congresso e negli stati. Il suo tentativo, al momento, è pertanto quello di trasportare le sue idee all’interno del partito, di istituzionalizzarle, se si vuole.
Si tratta di una battaglia che non sappiamo ancora come andrà a finire. La Clinton non ha certo intenzione di andare alle elezioni con una platform troppo di sinistra che la renderebbe vulnerabile agli attacchi di Trump e le alienerebbe fasce del suo elettorato; ma non può neppure sbattere la porta in faccia a Sanders e ai suoi elettori. Risolto, vedremo come, il problema del programma occorrerà vedere l’esito delle elezioni e la capacità di Sanders di mantenere in vita il suo movimento dopo di esse. Sarà un’operazione difficile e innovativa, perché i partiti americani sono decentrati e rispecchiano gruppi sociali e realtà locali diversificati che hanno nelle elezioni il loro momento unificante, per cui si tratta in moltissimi casi di “macchine di partito” elettorali che rappresentano gruppi di pressione locali e ideali locali o adattati alle realtà locali. Al tempo stesso i movimenti radicali e populisti, anch’essi mai centralizzati, hanno una storia di continue disgregazioni e riaggregazioni, una continuità nella più pura discontinuità che non li rende adatti a istituzionalizzarsi. Sanders intende compiere il miracolo di unire due elementi così distanti perché è nella sua personale natura di essere al tempo stesso populista e movimentista e politico da Congresso e da istituzioni.