Scritto da Gloria Origgi
11 minuti di lettura
Il ruolo della verità nella sfera pubblica appare sempre più complesso e sfaccettato, assumendo una connotazione quasi politica. In questo quadro, quale rapporto intercorre – o può intercorrere – fra scienza e democrazia? Come «salvare» l’oggettività della scienza, pur nella consapevolezza delle pressioni politiche e delle influenze sociali che la interessano, e come conciliarla con i principi e valori cardine della democrazia? A questi interrogativi si dedica l’ultimo libro della filosofa Gloria Origgi, Caccia alla verità. Persuasione e propaganda ai tempi del virus e della guerra, uscito nel 2022 per Egea Editore. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore, un estratto del testo.
«La scienza è lungi dall’essere uno strumento perfetto di conoscenza. È solo il migliore che abbiamo. In questo senso, come in molti altri, è come la democrazia».
– Carl Sagan, 1994
Dentro la torre d’avorio
Il luogo di produzione delle credenze che meglio si approssimano a qualcosa come la «verità» è indubbiamente la ricerca scientifica. Le credenze scientifiche sono quelle che hanno passato più esami, più procedure, più verifiche per ambire allo statuto di conoscenze, ossia, nella classica definizione di Platone, di «credenze vere e giustificate». Nella definizione di Platone, una credenza è una conoscenza se è vera, ossia se è in una relazione robusta con il mondo esterno, se è connessa causalmente con quel che succede nel mondo (la mia credenza che ho un computer davanti a me è vera perché è connessa, tramite i miei canali percettivi, in modo robusto a un fatto del mondo: che c’è un computer davanti a me) e giustificata, ossia se sono in grado di articolare pubblicamente le ragioni che rendono vera quella mia credenza (nel caso della credenza di avere un computer davanti a me, posso articolare pubblicamente la ragione che sono in possesso di sistemi di percezione funzionanti e che questi giustificano la mia credenza). Nel caso della ricerca scientifica, il legame robusto con la realtà è assicurato da osservazioni, strumenti di misurazione precisi, tecniche di registrazione dei dati, e la giustificazione è assicurata da prove matematiche, argomentazioni, e procedure di controllo sulla sperimentazione, procedure di validazione all’interno della comunità scientifica, come per esempio il famoso sistema di peer-review delle pubblicazioni scientifiche che garantisce la revisione da parte della comunità dei «pari» (degli altri scienziati) dei dati presentati in un articolo. Tutto questo armamentario teorico-sperimentale-procedurale garantisce l’oggettività e l’universalità dei risultati della ricerca, prodotta attraverso un sistema di scetticismo organizzato, ossia sotto il controllo dei pari che verificano la qualità dei risultati prima di presentarli al di fuori della comunità attraverso il canale di comunicazione speciale delle riviste accademiche, i cosiddetti Journals, che si distinguono dagli altri media per essere pubblicazioni non retribuite, verificate dai pari, e distribuite attraverso un accesso privilegiato soltanto ai membri della comunità. È un sistema ben rodato, che nasce con la fondazione delle sociétés savantes in Italia, Francia e Inghilterra nel XVII secolo, come l’Accademia del Cimento a Firenze, l’Académie des Sciences et des Lettres a Caen in Francia e la Royal Society in Inghilterra. Con la pubblicazione del primo Journal accademico, le Philosophical Transactions of the Royal Society, nel 1665, nasce il «formato» della scienza moderna: revisione da parte dei pari, pubblicazione a circolazione limitata e nessuna generazione di diritti di autore, perché le scoperte sulla natura non sono come le invenzioni letterarie: la natura appartiene a tutti. Gestito da un club di filosofi naturali happy few, tra i quali Isaac Newton e Robert Boyle, le Philosophical Transactions diventano il modello della pubblicazione scientifica e indipendente nei secoli a venire: a differenza, per esempio, dell’Accademia del Cimento, finanziata dai Medici, la Royal Society non ha padroni, è un’associazione autonoma di scienziati gentiluomini che lavora per il bene della scienza senza nessuna retribuzione.
Certo, questo modello «aristocratico» della scienza ha tutto per suscitare antipatie: un gruppo di gentiluomini che si parlano tra di loro, che ha i mezzi economici per fare ricerca e che non ha un particolare interesse nel riconoscimento pubblico, dato che la massa incolta non è il suo interlocutore privilegiato. Ed è vero che la scienza moderna nasce come un’attività di privilegiati, come ha messo splendidamente in luce lo storico della scienza Steven Shapin nel suo libro A Social History of Truth[1]. Alla nascita della scienza moderna, le pratiche di produzione della verità sono regolate da pratiche di credibilità aristocratiche, stabilite tra uomini liberi, senza la pressione del guadagno economico. Robert Boyle arriva addirittura a proporre l’idea che gli articoli pubblicati sulle Philosophical Transactions siano anonimi, perché firmare con il proprio nome mostrerebbe un interesse in una qualche forma di riconoscimento pubblico per la scoperta scientifica in questione, mentre questi pionieri della scienza moderna si rappresentano come filosofi disinteressati ai beni materiali del guadagno e a quelli simbolici della gloria: aristocratici, interessanti solo a scoprire le leggi della Natura per il bene collettivo dell’umanità e per l’avanzamento della conoscenza, essi costruiscono un modello di scienza moderna distaccata dal mondo degli affari e degli affanni umani. Una torre d’avorio il cui unico obiettivo è rivelare le trame della realtà.
***
Con il XX secolo, e l’impatto sempre più grande delle scoperte scientifiche su guerre, salute, sviluppo economico e tecnologico, si apre un nuovo dibattito sul ruolo della scienza nella società. La scienza è uno strumento politico, di sviluppo degli Stati e di rinforzo del potere attraverso armi sempre più sofisticate, e di diffusione del benessere grazie agli avanzamenti della biologia e della medicina. Eppure, l’immagine della torre d’avorio, della scienza come attività «speciale» rispetto alle altre attività umane, permane almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. È sicuramente il sociologo americano Robert Merton che meglio sistematizza la nuova visione della scienza e delle sue norme speciali rispetto a quelle del resto della società. Merton sottolinea lo status speciale dello scienziato in relazione alle altre professioni, con particolare attenzione all’ethos della scienza moderna, quel complesso di «emozioni, regole, prescrizioni, abitudini, valori e credenze condivise» che rendono lo scienziato moderno una figura sociale speciale.
***
Scienza e politica nel XX secolo sono dunque sempre più vicine e la neutralità della scienza, il suo operare in una torre d’avorio lontana dalle pressioni della vita comune, dei valori e degli ideali politici è sempre più messa in discussione. Ma cosa significa comprendere le interazioni tra scienza, politica e società? Come facciamo a mantenere un criterio di oggettività della scienza, ora che sappiamo a quante influenze sociali, politiche e cognitive è sottoposta? Questo è uno dei quesiti che più mi interessa in questo libro: come «salvare» l’oggettività considerando comunque le pressioni politiche, le influenze sociali e il ruolo delle opinioni nella formazione dei fatti scientifici?
***
Uguaglianza e neutralità
Nel cercare di comprendere il rapporto tra scienza e democrazia, mi soffermerò su alcune caratteristiche salienti della democrazia liberale, ossia del sistema di governo oggi più diffuso nel mondo, per cercare di capire quanto siano compatibili con un’ingerenza della scienza sempre più consistente nella presa di decisione politica.
Uno dei pilastri della democrazia liberale è il principio di uguaglianza: stessi diritti e doveri per tutti i cittadini e una testa, un voto. Non ci sono opinioni che «pesano» di più delle altre, e ciò va insieme a un’esigenza di libertà: ognuno ha il diritto di esprimere quello che pensa. L’egualitarismo democratico è una forma di «egualitarismo cognitivo»: nessuna voce ha più peso di un’altra. La democrazia, infatti, accetta vari tipi di diseguaglianze economiche e sociali, ma non quella cognitiva: in Italia, se siete maggiorenni, a condizione di non essere interdetti per qualche ragione medica o legale, avete il diritto di dire la vostra a ogni elezione. L’egualitarismo cognitivo è stato raggiunto a caro prezzo, attraverso lunghe battaglie politiche e sociali: le donne, le categorie di ceto sociale inferiore, e interi gruppi appartenenti a certe etnie o religioni, sono stati esclusi dal diritto di voto in varie epoche e hanno ottenuto questo diritto in certi Paesi a volte molto recentemente.
***
Che peso dare alla conoscenza in democrazia? E la democrazia ha bisogno di conoscenza? Una questione enorme e antica, alla quale sono state date risposte molto differenti. C’è chi pensa che il discorso democratico non debba tendere al «vero», ma al miglior accordo possibile che tenga in conto le opinioni di tutti. C’è chi crede invece che la democrazia sia un sistema politico epistemicamente «superiore» agli altri, perché ci permette di tendere verso decisioni più giuste e più razionali, grazie alle sue procedure di confronto tra ragioni pubbliche. Comunque sia, le decisioni in democrazia sono legittime solo se sono state prese da rappresentanti del popolo votati in modo egualitario: tutti possono votare e vince chi riceve più voti. Le decisioni prese sulla base della scienza non sembrano rispettare questa condizione egualitaria. Chi sa di più «pesa» di più: esperti, tecnici e burocrati hanno più influenza di noi sulle decisioni politiche, benché il loro sapere non sia legittimato da alcuna procedura democratica.
Un altro pilastro della democrazia liberale è la condizione di neutralità dello Stato: nessuna opinione deve essere preferita, incoraggiata e promossa dallo Stato. Lo Stato è neutrale rispetto alle opinioni private dei cittadini. La neutralità è un principio fondamentale del pensiero liberale che nasce tra il XVII e il XVIII secolo in un’Europa insanguinata dalle guerre di religione. Tollerare le opinioni di tutti e non promuoverne una in particolare è la condizione sine qua non di una democrazia liberale. Ma siamo davvero neutrali davanti alle opinioni scientifiche? Ci sembra davvero che lo Stato debba ritirarsi dalla scelta se insegnare la teoria creazionista dell’universo, secondo la quale la Terra fu creata da Dio seimila anni fa con tutte le specie animali che conosciamo oggi, o la teoria dell’evoluzione darwiniana? È mai possibile che chi ci governa sia neutrale rispetto alla qualità delle opinioni? Ci sembra ragionevole pensare che uno Stato abbia delle preferenze sulle idee che circolano e preferisca le idee scientificamente provate a quelle che nascono da tradizioni bizzarre o che dipendono da principi di autorità incontrovertibili. Molte decisioni politiche importanti dipendono dalla qualità delle idee seguendo le quali vengono prese.
***
Per molti eminenti pensatori, privilegiare le idee scientifiche non è una scelta imparziale, come potrebbe sembrare: è una scelta di campo. Secondo Jürgen Habermas, già citato nel primo capitolo, le società liberali non hanno eliminato del tutto l’ideologia: la scienza, infatti, è un’ideologia sottostante il liberalismo perché ne condiziona le decisioni e limita la discussione a ciò che possiamo considerare fattuale. Habermas scorge una tendenza ideologica della scienza come istituzione, determinata da due evoluzioni fondamentali della società del XX secolo: la crescita dell’intervento statale per stabilizzare il sistema e la crescente interdipendenza tra ricerca e tecnica. Oggi, secondo Habermas, la politica non ha più il compito di realizzare fini pratici, ma di risolvere problemi tecnici. Dato che i problemi tecnici non richiedono discussione pubblica, come abbiamo visto negli esempi fatti sopra, la politica oggi tende a una «depoliticizzazione» del dibattito pubblico e a un’adesione ideologica alla scienza. La scienza è dunque un’opinione privilegiata dagli Stati, dato che è una condizione necessaria del loro esistere e governare. In questo senso, la neutralità è un ideale impossibile: le democrazie liberali devono avere un partito preso per la scienza, perché ne sono essenzialmente costituite.
Una posizione ancora più radicale sulla mancanza di neutralità della politica nei confronti della scienza era stata resa famosa dall’irriverente e iconoclasta filosofo della scienza Paul Feyerabend negli anni Settanta. Austriaco, cresciuto a Vienna e poi influenzato dalle idee di Karl Popper e Imre Lakatos, Feyerabend, pensatore ribelle, propone un «anarchismo epistemologico» per liberarsi dalla sottomissione alla scienza delle società contemporanee. Come dice in uno dei suoi dialoghi sull’argomento, due sono i problemi principali della scienza contemporanea, il primo la sua capitolazione davanti alle questioni esistenziali importanti, il secondo la sua aria di certezza e di autorità, laddove le sue conclusioni sono sempre e comunque rivedibili: «Contrariamente alla sua antecedente immediata, la scienza del tardo XX secolo ha rinunciato a tutte le sue pretese filosofiche ed è diventata un’attività economicamente importante, che plasma la mentalità di coloro che la praticano. Un buon stipendio, una buona posizione rispetto al capo e ai colleghi nella propria “unità” solo le principali ambizioni di queste formiche umane, le quali eccellono nella soluzione di piccoli problemi ma non riescono a dare un senso a tutto ciò che va oltre il loro ambito di competenza. Le considerazioni umanitarie sono pressoché ignorate e lo stesso vale per ogni forma di progressismo che vada oltre i miglioramenti locali. I risultati più gloriosi ottenuti dalla scienza del passato sono usati non come strumenti di illuminazione ma come mezzi di intimidazione, come è emerso in alcune discussioni recenti concernenti la teoria dell’evoluzione. Se qualcuno riesce a far compiere alla scienza un grande passo avanti, gli specialisti saranno pronti a trasformare la scoperta in una clava con la quale costringere tutti gli altri a sottomettersi. Il secondo sviluppo concerne la presunta autorità dei prodotti di questa impresa sempre mutevole. Un tempo si pensava che le leggi scientifiche fossero ben stabilite e irrevocabili. Lo scienziato scopre fatti e leggi e aumenta costantemente la quantità delle conoscenze sicure e indubitabili. Oggi abbiamo riconosciuto, principalmente in conseguenza dell’opera di Mill, Mach, Boltzmann, Duhem e altri, che la scienza non può dare alcuna garanzia del genere. Le leggi scientifiche possono essere rivedute, spesso risulta che esse sono non solo localmente scorrette ma interamente sbagliate, facendo asserzioni su entità che non sono mai esistite. Ci sono rivoluzioni che non lasciano intatta una pietra, che non lasciano incontestato alcun principio»[2].
La preferenza per la scienza è dunque una scelta della politica contemporanea di privilegiare una fazione rispetto a un’altra: per Feyerabend, escludere saperi come l’astrologia, le medicine alternative, le teorie new age sulla coscienza universale, non ha nessuna base scientifica: è una costrizione del «metodo razionale» che la scienza impone e che impedisce di aprire strade magari feconde alla comprensione dei fenomeni che ci stanno davvero a cuore. Lo Stato democratico-liberale impone una nuova ideologia, la scienza con il suo metodo, per assoggettare i cittadini a un pensiero unico, non lasciare spazio al dibattito e imporre una sola concezione della «vita buona»: quella che segue i precetti della scienza. I principi di uguaglianza e neutralità sono dunque messi in questione dall’irrompere della scienza sulla scena politica contemporanea. Come giustificare, come legittimare allora questa preferenza per la scienza in un regime democratico? Come evitare che le democrazie si trasformino in tecnocrazie, in governi dei sapienti, in cui il dibattito politico diventa inutile e inefficiente rispetto ai metodi di decisione esperti?
Feyerabend proponeva di integrare i metodi democratici nella scienza: prendere decisioni collettive su quali progetti di ricerca finanziare con il denaro pubblico, e costituire mini-assemblee di cittadini per valutare l’utilità e l’impatto dei risultati della ricerca. Ma non sembra un metodo molto efficiente: fareste un referendum per capire quale malattia avete? Non è meglio andare direttamente da un medico specialista? Eppure, il suggerimento non è del tutto fuori luogo. Se infatti c’è qualcosa in cui scienza e democrazia si assomigliano è proprio il loro rapporto provvisorio con la verità, suscettibile sempre di essere messo in questione attraverso il dibattito e la discussione. Le grandi questioni sul metodo scientifico che hanno dominato parte della filosofia del secolo scorso, sottolineano la capacità di auto-correzione della scienza, la forza che la distingue di più dalle verità rivelate, che restano parola morta, pesante e immutabile. Basti ricordare il filosofo Karl Popper, che vedeva nella falsificazione e non nella conferma il sale della scienza: una teoria scientifica è robusta se è falsificabile, ossia se offre il fianco ad argomentazioni che la contraddicono. Se una teoria è abbastanza aperta e flessibile per accettare controesempi, allora è scientifica, altrimenti, se è infalsificabile, ossia non esiste nessun ragionamento possibile che potrebbe dimostrarla falsa, allora è pseudo-scienza. Così come la scienza, la democrazia è sempre rivedibile e avanza e progredisce grazie al dibattito. E anche nella democrazia l’errore, il falso, non sono da eradicare: sono da accettare tra la varietà di opinioni perché il loro ruolo è quello di rinforzare le opinioni vere, costringerci a pensare le ragioni per cui pensiamo che qualcosa sia vero, e non accettarlo semplicemente passivamente. Il grande filosofo John Stuart Mill nel suo insuperato saggio Sulla libertà, che dovrebbe essere un testo fondamentale in tutte le scuole, dedica il secondo capitolo alla libertà di espressione, pilastro della democrazia liberale, sostenendo proprio che l’errore è vitale per la democrazia, tiene vive le ragioni del vero, non le fa addormentare e trasformare in auctoritas, che crediamo perché ci sembrano incontrovertibili: l’errore ci aiuta a rinnovare le nostre credenze, a dare ragioni fresche, nuove, per argomentare ciò che crediamo vero. Quando pensiamo attentamente alle ragioni che abbiamo per credere qualcosa, anche qualcosa di triviale come, per esempio, che la Terra è rotonda, ci rendiamo spesso conto che queste sono ragioni non articolate, accettate sulla base di pochi dati, sulla base di discorsi che consideriamo autorevoli: allora ben vengano i «terrapiattisti» che ci costringono a riconsiderare le nostre ragioni per credere che la Terra è rotonda e ad articolarle nel modo più convincente possibile!
L’idea di Feyerabend di rendere più democratica la scienza significa semplicemente riconnetterla con la sua matrice democratica, di apertura al dibattito, rivedibilità permanente, e orientamento al bene comune. Un’attività pubblica di intelligenza collettiva, come dovrebbe essere la migliore politica. Rendere la scienza più democratica significa accettarne i limiti e la rivedibilità, significa in qualche modo «umanizzarla» e non escluderla dal mondo della vita e dei valori che deve restare a fondamento della sua stessa esistenza.
Non potremo mai essere tutti uguali cognitivamente, né potrà mai uno Stato essere completamente neutrale davanti alla qualità del sapere: la quantità e la qualità epistemica entreranno sempre in questione quando si tratta di rapporti tra scienza e politica. Ma se abbiamo compreso qualcosa negli ultimi secoli – almeno dall’Illuminismo – di come funziona la scienza e di come funziona la democrazia, allora sappiamo che si tratta in entrambi i casi di sistemi di intelligenza collettiva, dove le differenze quantitative di conoscenza, ossia la diversità cognitiva, se fatte interagire attraverso procedure legittime e pubblicamente accettabili, non possono che migliorare il risultato epistemico globale. Per quanto riguarda la qualità epistemica, ossia la preferenza politica per certi tipi di sapere rispetto ad altri, non c’è bisogno di concludere con Feyerabend che la scienza è una fazione, preferita solo su basi ideologiche. La scienza è una geografia complessa di metodi e di serbatoi di conoscenze che invoca principi di indagine libera e la possibilità di articolare il dissenso. E, come in democrazia, ci saranno metodi, principi di indagine, procedure di articolazione del dissenso che sono più legittimi di altri, dunque epistemicamente superiori. La superiorità della qualità di certi risultati scientifici rispetto ad altri si impone nel dibattito e nelle argomentazioni. Nessuno direbbe che è ideologia pensare che la Terra è rotonda, perché gli argomenti per dimostrare questa semplice verità sono stati dibattuti per secoli e sono risultati superiori: chi li ascolta con attenzione e modestia è convinto della loro superiorità.
Eppure, l’ottimismo che conclude questo capitolo potrebbe essere considerato troppo idealista: in realtà, chi li ascolta i dibattiti scientifici? Il più delle volte ci troviamo a casa nostra, davanti al computer o alla televisione, a sentire quello che gli esperti ci raccontano, senza la possibilità di replicare. Allora, cerchiamo di capire, nel prossimo capitolo, come e perché ha senso ascoltare gli esperti.
[1] Steven Shapin, A Social History of Truth, University of Chicago Press, Chicago e Londra, 1994.
[2] Paul K. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Roma-Bari, Laterza 1989.