Scritto da Teresa Guarino
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Parliamo moltissimo di lavoro: nei luoghi pubblici e privati, in televisione e al bar, con i nostri colleghi e i nostri psicoterapeuti. Nel suo ultimo libro Lo statuto delle lavoratrici. Come ti senti, a cosa hai diritto, dove possiamo cambiare (Bompiani 2024), Irene Soave, giornalista del Corriere della Sera, riflette sulle vulnerabilità cui il lavoro ci espone oggi. Figura paradigmatica di questa condizione è quella della lavoratrice, in un femminile sovraesteso che rappresenta chi non è pienamente soddisfatto delle condizioni materiali del proprio lavoro, chi è esposto a molestie sul luogo di lavoro, chi non riesce a prendersi cura delle persone a cui vuole bene e di se stessa perché lavora troppo. Abbiamo intervistato l’autrice per parlare del nostro rapporto con il lavoro, e di che cosa sta cambiando.
Lo statuto delle lavoratrici parla di un sentimento collettivo riguardo al lavoro. Che cos’è questo sentimento? Quali sono i suoi sintomi? Da dove nasce?
Irene Soave: Come tutto ciò che riguarda la società e non solo gli individui, le ragioni di questo sentimento sono complesse e miste. Il lavoro, come molti fenomeni socioeconomici, non si può descrivere solo con componenti numeriche o razionali, perché è fatto anche di elementi affettivi, valoriali, simbolici. Ed è per questo che il cosiddetto mercato del lavoro non è un mercato razionale: a regolare la domanda e l’offerta sono fattori di vario tipo, difficilmente quantificabili. Il libro è composto di nove capitoli, ciascuno dei quali riprende, per associazioni di idee, un articolo dello Statuto dei lavoratori. A partire da questa associazione di idee, si sviluppa un libro che è un saggio, ma è soprattutto una scrittura narrativa. In ciascuno dei nove capitoli cerco di analizzare un aspetto di questo sentimento collettivo rispetto al lavoro. Si parte dal livello delle retribuzioni, che non è del tutto adeguato. Si passa per la bruttezza e la scarsità di soddisfazioni di molti lavori. Si prosegue con la difficoltà di conciliare molti lavori con la vita personale: in genere si parla di famiglia, ma anche chi non ha una famiglia ha una vita che spesso è difficile conciliare con il lavoro. Infine, si parla di ambienti professionali che, con un termine un po’ abusato, si possono definire “tossici”. Tutti questi fattori concorrono a delineare un sentimento che, con una parola, posso chiamare disaffezione. Non lo invento certo io: la pandemia ci ha costretti tutti a ripensare i modi in cui lavoriamo. Da lì in poi – collettivamente, ma anche in molte conversazioni private a cui mi è capitato di assistere – si è parlato di lavoro e delle sue storture molto più di prima, e in termini molto più critici.
Nel suo libro parla di questa disaffezione, degli atteggiamenti che emergono rispetto al lavoro, e li riconduce a delle condizioni materiali.
Irene Soave: Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crisi di manodopera in diversi settori, soprattutto nei settori dei servizi alla persona, ma anche nella scuola e nella sanità. Pensiamo anche alle cosiddette “grandi dimissioni”, un fenomeno che è stato chiamato così oltreoceano ma che ha avuto ripercussioni anche qui: tra il 2020 e il 2022, i dati del Ministero del Lavoro sulle dimissioni volontarie mostrano che c’è stato un gran numero di abbandoni dei posti di lavoro. La difficoltà di molti settori nel trovare manodopera adeguata e il contemporaneo abbandono di posti di lavoro, anche fissi, sono stati spesso descritti in modo un po’ frivolo. Si è detto che la società del benessere ci rende pigri; che l’arrivo di lavori digitali (l’influencer, lo youtuber) rende il lavoro tradizionale meno competitivo; che i giovani non hanno più voglia di lavorare, che sono troppo selettivi; che non c’è più spirito di sacrificio. È questa la retorica che viene mobilitata quando si parla di fenomeni occupazionali ma, secondo me, è errata. Parlare di lavoro come se fosse un qualsiasi fenomeno di costume, una moda, significa fare un torto alla natura essenzialmente politica delle questioni di cui il mondo del lavoro patisce.
Parlando delle condizioni materiali legate al lavoro parli molto anche di indipendenza, declinandola soprattutto al femminile. Qual è il valore dell’indipendenza per le donne? E qual è il suo legame con il lavoro?
Irene Soave: Nelle nostre culture, il legame tra l’indipendenza e il lavoro è evidente: persino il diritto all’abitazione viene collegato al reddito da lavoro. In Italia, abbiamo visto che le ipotesi di un reddito universale di base, scollegato dal lavoro, non hanno avuto fortuna. L’esperimento del reddito di cittadinanza, che più che un reddito universale di base era veramente una misura di sostegno alla povertà, è stato abolito dal governo successivo a quello che lo ha promulgato. Quindi, se non lavori, sei escluso dal reddito: che non è una piccola cosa. Nelle cronache nere leggiamo il dato sconfortante di un femminicidio circa ogni due giorni. In molti di questi casi, oltre al rapporto affettivo che legava la vittima e l’uomo che l’ha uccisa, emerge anche un legame di dipendenza economica. Abbiamo dunque imparato a collegare la presenza o l’assenza di reddito non solo all’indipendenza, ma perfino all’incolumità personale. E questo vale certamente più per le donne che per gli uomini.
E come si declina questo rapporto tra il lavoro e l’indipendenza in un contesto in cui il costo della vita continua ad aumentare, mentre molti salari rimangono fermi?
Irene Soave: Rileviamo che questo legame tra l’indipendenza economica e personale e la presenza di un lavoro sembra essersi parecchio sfaldato negli ultimi anni in Italia, dove un quarto dei posti di lavoro sono posti di lavoro poveri. Un lavoro povero è, in sintesi, quello che non riesce a garantire non l’agio, non i progetti per il futuro, ma la sussistenza. Secondo gli ultimi dati ISTAT, tra le famiglie con un solo reddito, una su dieci è in condizioni di povertà grave. In generale, anche quando non si tratta di lavoro povero, le retribuzioni italiane sono le più basse d’Europa. Questa difficoltà nel raggiungere l’indipendenza economica con il solo reddito da lavoro è estremamente evidente nelle donne e ancor più nei giovani, ma è un dato latente in tutta la popolazione attiva. Ne è un esempio il rapporto tra il reddito e il costo di una casa per sé – ricorrendo a concetti femministi, la vecchia “stanza tutta per sé” di Virginia Woolf: uno spazio per sfuggire a una coppia violenta, o anche solo a una coppia noiosa, brutta o finita, a una famiglia opprimente, ai quattro coinquilini nonostante siano passati quindici anni dalla laurea. Bene, i costi dell’abitare sono sempre meno proporzionati al reddito da lavoro. Nel libro, metto in rapporto il reddito medio e il prezzo degli affitti per ciascuna città metropolitana italiana. Secondo l’Economist, per non essere a rischio di povertà la spesa per la casa deve essere il 30-40% del reddito disponibile. Se spendi più del 40% del tuo reddito disponibile, non puoi permetterti la casa in cui vivi. Prendiamo ad esempio Milano, dove lo stipendio medio disponibile netto è il più alto d’Italia ed è di circa 2.000 € al mese. La spesa per la casa dovrebbe essere quindi di circa 600 € al mese. Lasciamo perdere le rate dei mutui, che sono molto variabili. Prendiamo gli affitti, e cerchiamo una qualsiasi casa in affitto con 600 € a Milano. Sulle 5.000 case in affitto in questo momento su casa.it, ne trovo solo 28 che posso permettermi con questa somma. Le grandi città, dove si concentra il 30% dei posti di lavoro del Paese, sembrano respingere la loro forza lavoro perché, se la spesa necessaria per la casa si aggira intorno al migliaio di euro, gli stipendi medi dovrebbero essere di quasi 3.000 € netti al mese. E questo stipendio è molto al di sopra di quello che percepiscono intere categorie produttive fondamentali per la vita della città: penso agli insegnanti, al personale sanitario, a molti medici a inizio carriera, al personale dei mezzi pubblici. Penso, cioè, a tutti i lavori di base senza i quali la società non sopravvive. Questi lavori, nonostante richiedano alle volte lunghi periodi di studio e di anticamera, stentano sempre più a garantire l’autonomia. I salari vanno quindi evidentemente ridiscussi.
Passiamo ora dal lato materiale al lato dell’etica del lavoro. Il suo libro si inserisce in un dibattito, sviluppatosi negli ultimi anni, fortemente critico nei confronti di una certa etica del lavoro legata al modo di produzione neoliberista.
Irene Soave: Gran parte della produzione saggistica di questi anni circa il lavoro e circa la crisi di senso che il lavoro ha attraversato contesta l’etica del lavoro di stampo calvinista. Si tratta, per la maggior parte, di saggi anglofoni, che fanno riferimento a una cultura del lavoro ben precisa, dominante negli Stati Uniti. Nonostante noi, e soprattutto le nostre grandi aziende, qualcosa di questa cultura abbiamo importato, io ho cercato di scrivere un libro che parlasse in italiano. I fenomeni materiali che descrivo sono legati all’economia italiana, molto diversa quindi da quella al centro di una radicale critica al capitalismo in corso in questi anni, la cui etica è di stampo calvinista. Il nostro carico di lavoro è diverso da quello di un lavoratore negli Stati Uniti, così come sono diverse le nostre retribuzioni. Diversa è anche l’idea di società che sottende, ad esempio, ai doveri e alle responsabilità dei datori di lavoro: negli Stati Uniti, se non ho un lavoro, non ho un’assicurazione sanitaria. In Italia le due cose non sono collegate: se sono disoccupato, all’ospedale ci posso andare. Ho quindi cercato di descrivere una realtà diversa da quella di tipo calvinista che è sotto (corretta) critica nel dibattito contemporaneo sul lavoro. Ho cercato di parlare di noi. Aggiungo un’altra cosa: l’etica del lavoro non è il fondamento di tutti i mali, non è una pietra dello scandalo su cui edifichiamo una vita di sopraffazione. Amare il proprio lavoro è una cosa buona, che ti fa del bene. E non è necessario essere il vincitore di Sanremo o il presidente di una banca centrale per amare quello che fai. È però necessario che quello che fai sia fatto in condizioni non svilenti, e questo è un tema non etico, ma politico. Anche per questo ho scelto di declinare il titolo del libro al femminile: perché le donne sono state storicamente escluse dal lavoro, ma hanno fatto di tutto per entrarci. Perché essere esclusi dal lavoro, a prescindere dall’etica, è essere esclusi dalla società – e le donne lo sono state molto a lungo. Per concludere: io trovo corretta la critica al modello di produttività che dà la forma al modo in cui noi lavoriamo. Non trovo corretta la critica all’esistenza di un’etica del lavoro, perché per un essere umano – almeno per l’essere umano che siamo noi in questo millennio – un lavoro è peggio non averlo che averlo. Molto peggio.
E questo può essere vero per tutte le classi sociali e per tutte le generazioni, viste le condizioni oggettive del mondo del lavoro in Italia oggi?
Irene Soave: Non ho la pretesa di parlare a tutte le generazioni: parlo anche e soprattutto in prima persona. E non ho tutte le soluzioni. Però posso dire che cosa, secondo me, non è la soluzione: non è la soluzione il disinvestimento assoluto di sé dalla propria sfera lavorativa. Il quiet quitting, di cui si è molto parlato, è un concetto scivoloso per diverse ragioni. Per come i giornali (i nostri e quelli americani) lo hanno definito, il quiet quitting è un modo di lavorare sottraendo se stessi dalla dimensione del lavoro, cioè facendo il minimo indispensabile. Vuoi che io sia brava? Non l’avrai, perché mi paghi troppo poco. Vuoi che mi fermi un’ora in più? Non lo farò, perché il mio lavoro è brutto. Si tratta quindi di una ripicca personale contro il proprio datore di lavoro, per dirgli: “Tu mi fai lavorare in queste condizioni? Benissimo. Io mi sottraggo”. Questo atteggiamento in Italia lo hanno due lavoratori su tre e il dato viene dallo State of the Global Workplace. Si tratta di uno studio che l’istituto di ricerche Gallup effettua annualmente sui lavoratori di tutti i Paesi del mondo, in un campione statisticamente bilanciato che ne prende in considerazione 1.000 per ogni Paese e 2.000 per i Paesi più grandi, come Cina o Stati Uniti. Lo studio indaga i sentimenti dei dipendenti nei confronti dei loro posti di lavoro, i quali possono essere di tre tipi: contento, molto contento, distaccato. Il lavoratore distaccato è quello che fa quiet quitting. Non è che non vada al lavoro: ci va, ma non brilla, non si sforza più del minimo indispensabile. In Italia due lavoratori su tre fanno così e il dato è abbastanza omogeneo nei Paesi occidentali. Ebbene: non ho mai visto nessuno a cui questo atteggiamento abbia regalato qualcosa. Non ho mai visto nessuno – me stessa per prima – per cui fare il meno peggio migliori il proprio rapporto con il lavoro. Anzi, generalmente lo peggiora, perché colleghi e datori di lavoro rispondono dandoti sempre meno soddisfazioni. Inoltre, per molte persone che hanno cercato attivamente i lavori che hanno, la rinuncia ad abitarli con le proprie doti, con i propri talenti è un piccolo lutto. Quelli che ho descritto fino a qui sono i miei sentimenti in merito, che costituiscono la tesi da cui sono partita per il libro – ed è per questo che non si tratta di un saggio giornalistico in senso stretto. Poi ho lavorato in questo modo: partendo, appunto, dai miei sentimenti, ho fatto trentadue interviste ad addetti ai lavori di ogni tipo. Tra queste, le tre interviste a degli psicoterapeuti sono state le più decisive nel definire la posizione del libro. Nel quinto capitolo parlo dell’impatto del lavoro sulla salute: volevo ovviamente parlare dell’apparente epidemia di burnout che sembra investire i Paesi occidentali e che pare essere legata al nostro modo di produrre. Mi sono dunque presentata dagli psicoterapeuti ben armata di domande su quanto il lavoro faccia male. Mi hanno confermato, effettivamente, che tra i loro pazienti ci sono casi persone che soffrono di burnout e di ambienti di lavoro oppressivi. Ma il punto, per loro, non era tanto quello, quanto piuttosto quello opposto: a soffrire di più sono le persone che un lavoro non lo hanno. Uno degli psicoterapeuti che ho intervistato presta servizio come volontario al carcere di Bollate, dove vi è una realtà molto virtuosa per l’avviamento al lavoro dei detenuti. I detenuti coinvolti nel progetto non fanno dei lavori “della realizzazione”: lavorano nei call center, fanno i camerieri, i sarti. Alle volte si tratta anche di persone che sono state condannate per reati finanziari o amministrativi, e che magari prima facevano, chessò, i contabili. Persone, quindi, che hanno conosciuto la dimensione del lavoro “della realizzazione” ma che si trovano ora a fare un lavoro più umile. La testimonianza comune di chi lavora con loro è che queste persone tendono a ritrovare un’identificazione sana di sé proprio quando iniziano a lavorare: è lì che smettono di delinquere, di identificarsi con la devianza. Questo ci dice che il lavoro può essere più una medicina che una malattia. È uscito da poco Il Fronte psichico di Jessica Mariana Masucci (nottetempo 2023), un’inchiesta molto bella che indaga il tema della salute mentale degli italiani: dall’uso degli psicofarmaci alle patologie psichiche, dai disordini alimentari alla schizofrenia. Nel libro la parola “lavoro” ricorre più di duecento volte e quasi sempre tra le soluzioni. Proprio in base a questa funzione positiva del lavoro, questa funzione d’identità, di cura, che io riscontro anche su me stessa, ho cambiato l’impostazione libro. Ero partita con un orientamento molto più anti-lavorista, ma mano a mano che scrivevo mi rendevo conto, da un lato, che mi sentivo insincera e, dall’altro, che c’erano moltissimi dati che mi contraddicevano. Un esempio: l’uso di psicofarmaci (soprattutto ansiolitici e antidepressivi, i farmaci più usati nella nostra popolazione) è significativamente più diffuso nella fascia di popolazione che non lavora. Ci sono dunque tutti gli elementi per dire che noi, proprio come le donne nella storia, abbiamo bisogno di lavorare, non di non lavorare. Abbiamo bisogno però che il lavoro sia abitabile, e quindi di lavorare pagati il giusto, non per venti ore al giorno, magari con incarichi non tutti e non sempre mortificanti e con carichi di lavoro umani. Ma abbiamo bisogno di lavorare.
Quindi, da un lato, il lavoro ci fa bene, a patto che sia svolto in condizioni dignitose. Dall’altro lato, troviamo quelle che definisce carriere, ovvero percorsi professionali particolarmente competitivi e preceduti da una lunga gavetta, fatta di grandi sacrifici personali, che spesso erodono il tempo della cura, delle relazioni, della vita fuori dal lavoro. Negli ultimi anni, si è spesso criticata una certa “ingordigia” di questo genere di lavori. Perché, quindi, fare una scelta lavorativa del genere oggi, invece di cercare la propria realizzazione al di fuori della sfera lavorativa?
Irene Soave: Il senso non lo so. Sono senza dubbio decisioni che, ancora una volta, vengono prese sulla base di fattori non solo individuali, ma che attengono anche a disuguaglianze strutturali. A prescindere dal senso individuale di queste scelte, però, la società dovrebbe garantire le pari opportunità e assicurare a tutti la stessa possibilità di scegliere. È su questo che si deve lavorare. Io non so se per te o per me ha più senso prendere un part-time e stare di più con i bambini al pomeriggio, o prendere invece un master e cercare di scalare le gerarchie interne del nostro luogo di lavoro. Quello che però è giusto chiedere alla società è che io e te possiamo scegliere entrambe. Se mio papà faceva il muratore e tuo papà il notaio, dobbiamo avere la stessa possibilità di decidere se investire in un lavoro o meno. Se io vivo vicino a mia mamma, che va a prendere i miei figli al nido tutti i giorni, e tu invece vivi a 1.000 km da casa, dobbiamo avere le stesse possibilità di dedicarci ai nostri bambini, alla nostra casa, alla nostra vita. Questo invece non accade. L’elemento su cui si può esercitare critica è quindi il retroterra su cui si basano le decisioni legate al lavoro, che spesso sono più che altro delle scelte forzate. Ti faccio un esempio, sempre legato alle donne come figura paradigmatica nel mondo del lavoro: in Italia è donna quasi il 60% dei laureati; tra i dottorandi, le donne sono circa il 50%; tra i ricercatori il 40%; tra i professori associati il 30%; tra gli ordinari il 25%. Arrivando all’apice della gerarchia universitaria, solo dieci università italiane hanno rettrici donne. Un andamento di carriera così squilibrato indica la presenza di elementi che esercitano delle forzature sui percorsi professionali, che esulano dalle propensioni individuali. Ci sono molti libri che suggeriscono: “trova la tua realizzazione in altro, al di fuori dal lavoro”. Io non me la sento di dirlo. Anche perché sono una giornalista, che con grande fatica, ma anche con grande allegria, questo lavoro l’ha corteggiato e l’ha avuto a prezzo di sacrifici. Quello che imputo alla società, però, è di averlo reso un po’ più difficile per me, che vivo lontana dai miei genitori, che non sono un’ereditiera, che ho qualche problema di salute, piuttosto che per una mia pari grado che lavora nella città in cui è nata e ha un buon patrimonio familiare.
Nelle recenti politiche pubbliche c’è molta attenzione ai temi della cura e della maternità. Qual è il modello che viene proposto? E che effetto ha sulle donne e sul loro rapporto con il lavoro?
Irene Soave: Ci sono due lati della medaglia: il primo è la nota carenza di infrastrutture pubbliche per la cura. In Europa, i nidi coprono il 45% dei bambini, mentre in Italia solo il 28%. Le strutture per gli anziani sono sovraffollate e carenti. Dei lavoratori domestici, come colf e badanti, uno su due è in nero, perché assumerli è complicato: non ci sono sgravi fiscali e manca un’alfabetizzazione generale sulla materia. Quindi, anche qualora volessi mettere a regola la tua colf, non sai come fare, le devi detrarre dei soldi, e alla fine lasci perdere. Insomma, non c’è nessun aiuto per le tantissime famiglie italiane che si avvalgono di personale domestico. Le infrastrutture sociali deputate alla cura sono quindi certamente rivedibili e la politica, in questo senso, è estremamente carente. Basti vedere il bonus per le madri lavoratrici implementato dal governo Meloni: vi accedono solo le lavoratrici dipendenti e solo al di sotto di una certa fascia di reddito, di modo che spetta a meno del 5% delle donne. Inoltre, accedendovi si perdono altri benefici, estremamente necessari per queste fasce di popolazione. In sostanza, è una misura dalla scarsa utilità. Ma c’è poi un altro imputato, che non si chiama mai in causa, e sono i datori di lavoro. I datori di lavoro agiscono nel campo che la legge e gli scarsi controlli consentono loro: regolarne le pretese è quindi una questione del tutto politica. Tra le tante storie che raccolgo nel libro, ce n’è una che viene da un altro libro: un’impiegata ha una bambina il cui nido apre allo stesso orario in cui lei è tenuta a entrare in ufficio. Lei va dal capo ufficio e chiede, per favore, di poter entrare al lavoro 10 o 15 minuti dopo, per il tempo in cui la bambina frequenterà il nido. Il datore di lavoro non glielo permette: creerebbe un precedente, dice. Nessun collega protesta. L’impiegata, alla fine, si licenzia. Non prima però di avere provato per due settimane a passare la sua bambina dalla finestra alla prima educatrice che arrivava ad aprire il nido la mattina. La mamma mollava la bambina come un pacchetto e poi correva al lavoro. Quindi, che cosa chiediamo alla politica? Mi pare chiaro: chiediamo nidi, chiediamo defiscalizzazione su colf, badanti e baby-sitter, chiediamo RSA che non siano dei mattatoi. Ma dall’altro lato, che cosa chiediamo ai nostri datori di lavoro? Come è possibile che tutte noi – noi donne, i nostri mariti, le nostre famiglie, gli amministratori, la politica – dobbiamo pensare ai bambini, agli anziani, alle case, e gli unici che rimangono esenti da questa responsabilità sono i datori di lavoro, nonostante siano proprio loro a gestire le nostre giornate? A loro non si chiede proprio niente? Una riforma degli orari di lavoro per conciliarli con i tempi di vita, e non sempre viceversa, non è fondamentale?
Alcune recenti tendenze che hanno coinvolto il mondo del lavoro, come le grandi dimissioni e il quiet quitting, sono state lette come sintomo di una protesta nei confronti delle modalità e delle strutture lavorative. Questi strumenti sono efficaci nel promuovere un cambiamento del mondo del lavoro? Che cos’altro si può fare?
Irene Soave: Sono azioni almeno parzialmente efficaci, ma non sufficienti. Il fatto che si parli continuamente di questi temi, nelle conversazioni comuni e sui giornali, il fatto stesso che una casa editrice abbia permesso a me di scrivere un libro sul lavoro, non essendo io né un’economista né una giuslavorista, sono sintomo di un’attenzione a questi temi. La rinnovata attenzione a questi temi discende senza dubbio da fenomeni individuali che diventano, in una certa maniera, anche collettivi. Ci sono inoltre studi che mostrano l’effetto di contagio delle dimissioni: nei posti di lavoro dove le persone iniziano ad andarsene, spesso si verifica un effetto a catena. Questo effetto di contagio si verifica anche in altri casi: se io e te iniziamo a dire al nostro capo “guarda, io finisco all’orario stabilito dal contratto, e poi per il resto me li segni straordinari”, magari si sentirà legittimata a farlo anche la collega. Dopodiché, questo non è sufficiente: è necessario usare tutti i mezzi leciti che abbiamo per esercitare la dialettica e il conflitto sociale, in modo collettivo e sindacale.