Scritto da Andrea Ramazzotti
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“Il capitale nel XXI secolo” dell’economista francese Thomas Piketty é stato notoriamente il best seller economico dell’anno negli Stati Uniti, ottenendo lodi e sostegno da buona parte dell’élite accademica statunitense, soprattutto liberal e democratica (Stiglitz, Krugman). Approdato in Italia nell’edizione Bompiani neanche due mesi fa, il libro ha suscitato discreto interesse mediatico (rispetto a quanto si sia abituati in Italia in queste occasioni), provocando alcune apparizioni televisive dell’autore, una presentazione del libro presso la Camera dei Deputati, nonché un’intervista-incontro tra il professor Piketty e il professor Tito Boeri organizzato presso l’università Bocconi di Milano.
Non si vuole qui fare una ricognizione delle tesi del professor Piketty, né una valutazione della loro validità, giacché si possono trovare in rete numerosi riassunti, più o meno precisi, del loro contenuto, e molti interventi, dai fronti più disparati, nel merito delle questioni sollevate dall’autore. In questa sede si desidera piuttosto appuntare l’attenzione su un elemento dell’opera del professore che é stato passato per lo più sotto silenzio, forse perché ai non addetti ai lavori apparirà più deteriore rispetto all’oggetto del testo, ma che pure riteniamo centrale e per capire il significato, ci si passi il termine, culturale dell’opera del professore, e per gli stimoli epistemologici che rivolge alla disciplina economica: il problema dei rapporti tra la scienza economica, la storia e le altre discipline sociali.
Scrive Thomas Piketty: “Non riesco a concepire l’Economia se non come una sottodisciplina delle scienze sociali, da accostare alla storia, alla sociologia, all’antropologia, alle scienze politiche e a tante altre. Non mi piace molto l’espressione ‘scienza economica’. Mi sembra terribilmente arrogante. Mi dà l’impressione che postuli l’economia come una scienza superiore, specifica, distinta dalle altre scienze sociali. Preferisco di gran lunga l’espressione ‘economia politica’, che forse é un po’ vecchiotta ma ha il merito di mettere in luce quella che, secondo me, è l’unica peculiarità delle scienze sociali: la prospettiva politica, normativa e sociale. […] Per troppo tempo gli economisti hanno cercato di definire la propria identità a partire dai loro presunti metodi scientifici. […] questi metodi portano spesso a trascurare le lezioni del passato e a dimenticare che l’esperienza storica resta la nostra principale fonte di conoscenza.”
Ci scuserà il professor Piketty se abbiamo usato talvolta il termina “scienza economica”: l’italiano (così come il francese, del resto) sconta un’irriducibile ambiguità semantica tra l’economia come disciplina (ciò che un tempo veniva chiamato “l’economico” o, se si preferisce, l’ “economia politica”) e il suo oggetto, ossia l’economia come rapporti di produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi. Non è qui il caso di approfondire il dibattito linguistico, per il quale rimandiamo il lettore a “L’invenzione dell’Economia” di Serge Latouche per un primo approccio.
Torno invece ai dibattuti rapporti tra storia e economia, e più in generale tra questa e le scienze sociali; chiunque si approcci all’economia al giorno d’oggi sa bene che una cosa è la storia economica, altra cosa è l’economia politica, scissa ormai nelle sue componenti di macro e microeconomia.
In prima approssimazione si può dire che, oggi, l’economia politica studi l’oggetto economico in via astratta, recintando il campo di ricerca attorno ad alcuni elementi cruciali del fenomeno sociale (generalmente, la produzione e il consumo declinati in tutte le loro forme) e, partendo da premesse generali di ampia validità, analizzi i rapporti specifici che intercorrono tra le componenti del fenomeno; in questo modo tenta di costruire dei modelli coerenti con le premesse e che sappiano far risaltare le correlazioni forti tra i suoi elementi. La storia economica, invece, si occupa di documentare l’esperienza empirica del fenomeno economico, sia quella passata che, e questo è cruciale, quella presente (si veda la definizione di storia economica data da P. A. Samuelson): nel breve periodo descrive e analizza fatti, congiunture e fluttuazioni dell’economia, mentre “nel lungo periodo esamina l’evoluzione dei sistemi economici, le problematiche dello sviluppo, i trends o movimenti secolari e quant’altro inerente alle trasformazioni della struttura dell’economia” (G. Di Taranto).
I due approcci non sono affatto autoescludenti, né l’uno può a buon diritto ritenersi migliore dell’altro, ma si incorre in un grave errore nel pensare di studiare l’economia senza prendere in considerazione entrambi i punti di vista. Purtroppo, questo è esattamente ciò che è stato fatto per decenni e che, almeno per il momento, continua a farsi. La ragione della diatriba, che in certi momenti ha fatto alzare le barricate tra storici economici e economisti, è assai risalente.
Quando lo studio dell’economia assurse a scienza autonoma dalla filosofia morale, essa era fortemente compatta, e non ramificata come al giorno d’oggi: gli economisti della scuola classica (Smith, Ricardo e gli altri) avevano in nuce sia i prodromi dell’economia moderna (il ragionamento deduttivo, l’uso di assunzioni generali come postulati del discorso economico) sia elementi della moderna storia economica (l’interesse per i fatti empirici, la conoscenza del ruolo delle istituzioni e della cultura nell’evoluzione dell’economia); soprattutto, della scuola classica apprezziamo la consapevolezza del limite teorico degli schemi astratti nonostante le premesse universali che improntavano il suo modo di ragionare (l’economia é pur sempre un prodotto dell’illuminismo).
Con la cosiddetta seconda rivoluzione industriale, lo sviluppo di altri paesi, in specie la Germania, diffuse la pratica della scienza economica e ne inasprì i toni: proprio la scuola tedesca fu la prima a sottolineare la storicità del fenomeno economico, e l’impossibilità di portare a sintesi esperienze storiche e culturali diverse, rifiutando le leggi universali del divenire economico; dietro a queste posizioni c’erano sì rivalità accademiche e culturali tra l’Inghilterra e la Germania, ma ciò non toglie nulla agli apporti scientifici di economisti come Roscher, Hildebrand, Knies e il loro precursore Frederic List, né bisogna dimenticare che questa scuola sorse dallo stesso humus che diede origine all’opera di Marx e al materialismo dialettico.
Il dibattito si inasprì alcuni anni più tardi, quando la cosiddetta seconda generazione della scuola storica tedesca (o nuova scuola storica: Schmoller, Bucher) si scontrò con la nuova e portentosa economia marginalista e i suoi campioni: Stanley Jevons cui dobbiamo l’uso della formalizzazione matematica nell’economia, Leon Walras e la scuola di Losanna, Carl Menger e la scuola austriaca. Il dibattito fra i primi e i secondi fu in realtà piuttosto complesso e con geometrie assai mobili, ma si può certamente dire che ormai ai primi del ‘900 la storia dell’economia e l’economia politica erano diventate due discipline distinte, e la seconda aveva preso il sopravvento (soprattutto per l’approccio microeconomico). Saranno poi Alfred Marshall e i due suoi più noti allievi Arthur Cecil Pigou e John Maynard Keynes a dare forma all’economia per come la conosciamo oggi, i primi due ponendo le basi dell’economia neoclassica o neomarginalista, il secondo “inventando” insieme alla nuova scuola di Cambridge (Kahn, Kaldor, Sraffa) la macroeconomia moderna.
Nel frattempo la storia economica aveva tenuto un profilo più basso, ma si era comunque evoluta, anche grazie allo sviluppo degli strumenti statistici: a parte gli apporti dell’errabondo Joseph Schumpeter, che diede contributi fondamentali all’uno e all’altro campo, la nuova scuola storica tedesca aveva prodotto da una parte i Kathedersozialisten, o socialisti della cattedra, dall’altra l’importante dottrina istituzionalista americana, che attraverso personaggi come Douglass North e Paul Samuelson è giunta fino a noi e che continua a dare contributi fondamentali anche se poco ricordati sia alla storia economica che all’economia politica. Altri filoni importanti si intrecciarono con la scuola storica neomarxista e quella storicista, nonché con la storia propriamente detta, in particolare grazie alla scuola francese delle Annales e al lavoro di Fernand Braudel.
Tuttavia, un certo filone della storia economica prese una via alternativa e, tentando di redimersi dall’accusa di a-scientificità che le veniva mossa dagli economisti mainstream, si appropriò degli strumenti econometrici per creare un’interpretazione economica della storia che non prendesse in considerazione alcun elemento giudicato non rilevante dal punto di vista economico: era nata la cliometria, o new economic history. Il contributo di questa scuola ha numerosi punti di validità, primo tra tutti il riferimento alla necessità di studiare la storia anche con strumenti quantitativi avanzati, ma ha prodotto in qualche caso risultati discutibili, diventando talvolta più un esercizio di storia controfattuale piuttosto che di analisi dell’esperienza empirica: in questo senso le sono state mosse numerose accuse, tra cui quella di aver confuso l’oggetto della storia economica, spostando l’attenzione dalle domande sul “perché” all’esercizio del “se non questo, allora cosa” (Boldizzoni, The Poverty of Clio), diventando una semplice ancella dell’economia mainstream, atta a sostenerne le tesi senza dedicarsi ad uno studio attento e imparziale del suo campo.
E siamo giunti al nostro punto di partenza: oggi l’economia, quella vera, sta attraversando una crisi violenta e persistente, e la scienza economica si trova in difficoltà nel trovare le risposte alle nuove domande che la realtá ci impone. Come studiosi del fenomeno sociale non possiamo voltare gli occhi di fronte ad un mondo diverso dai modelli che lo dovrebbero descrivere, dando la colpa alla realtà di essere diversa dalla teoria. Dovremmo invece approfittare di questo momento come di un’occasione per rivedere le nostre posizioni, di ripensare alle diverse tradizioni che hanno attraversato la storia del pensiero economico e di allacciare nuovi e più maturi rapporti tra la storia dell’economia, l’economia teorica e le discipline sociali, perché solo un confronto consapevole e maturo può portarci oltre l’empasse. L’economia teorica ha fatto dei modelli semplici la chiave per spiegare la realtà, ma a volte, sebbene i modelli semplici siano in genere i più potenti, la sintesi non basta. Il fenomeno umano è complesso e articolato, e per capirlo più profondamente dovremmo riscoprire le sorgenti della nostra disciplina, per renderla più variegata, più multiforme e consapevole. In questo sta l’appello di Piketty, così come di tanti altri economisti di oggi: riallacciamo i fili, partendo anzitutto dalla storia economica, rappacificandola prima con se stessa e poi con la teoria, e quindi stringendo i rapporti con le discipline sorelle che nel frattempo abbiamo allontanato, e si sono allontanate. Questo non significa rinunciare ai successi finora ottenuti: significa partire da quei successi per esplorare nuove strade. Perché una teoria è valida finché non viene falsificata. E stiamo correndo il rischio che la realtà dei fatti la falsifichi per nostro conto.
Riferimenti bibliografici e approfondimenti:
T. Piketty, Il Capitale nel XXI Secolo, Bompiani
F. Boldizzoni, The Poverty of Clio: Resurrecting Economich History, Princeton University Press
S. Latouche, L’invenzione dell’Economia, Bollati Boringhieri
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