“Senza intellettuali” di Giorgio Caravale
- 13 Novembre 2023

“Senza intellettuali” di Giorgio Caravale

Recensione a: Giorgio Caravale, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, Roma-Bari 2023, pp. 168, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Paolo Furia

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Si sente lamentare da tempo, nel dibattito pubblico, la carenza di rapporti strutturati e efficaci tra mondo della politica e mondo della cultura: il divorzio tra intellettuali e politica è per molti ormai un luogo comune e molte, negli ultimi anni, sono state le iniziative – editoriali, didattiche, associative – che sono state assunte per ricucire questo nesso, nella convinzione che una “cultura più politica” sarebbe più efficace e concreta, e una “politica più intellettuale” sarebbe migliore sotto il profilo valoriale e morale, prima ancora che sotto quello pratico. Per la verità, non sono mancate e non mancano voci di segno opposto, che apertamente preferiscono una politica separata non tanto dalla cultura in sé, ma dal mondo degli intellettuali, percepito come una delle tante caste privilegiate e non operative che ostacolano l’esercizio del potere politico. In Senza intellettuali Giorgio Caravale si occupa di entrambi i punti di vista, mostrando come si siano consolidati nel corso degli ultimi trent’anni e si siano incarnati negli atteggiamenti delle forze politiche, nonché nelle posture degli intellettuali nello spazio pubblico e mediatico. Nonostante si tratti di atteggiamenti apparentemente opposti, entrambi certificano lo stesso dato: perlomeno in Italia, il rapporto tra mondo della politica e mondo della cultura si è fatto complicato.

Caravale insegna Storia moderna presso l’Università Roma Tre. Nel cimentarsi con l’annoso tema del rapporto tra politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, come recita il sottotitolo, adotta l’approccio dello storico in un duplice senso. In primo luogo, l’autore ricostruisce con rigore diversi momenti di questo rapporto, colti nelle loro reciproche implicazioni e relazioni causali, con riferimenti precisi a fonti quali interventi televisivi, documenti, dichiarazioni, scritti e interviste. L’intervallo temporale individuato è il trentennio iniziato con Tangentopoli e conclusosi con la pandemia, la quale comunque resta fuori dall’indagine. Perciò mancano riferimenti agli ultimi governi di Draghi e Meloni e alla figura dell’intellettuale-epidemiologo, che ha occupato le sedi televisive e virtuali dal 2020 al 2022. Non si tratta di una scelta arbitraria dell’autore. Lo storico individua, infatti, nella cesura tra Prima e Seconda repubblica un momento chiave della trasformazione dei rapporti tra politica e cultura. Tangentopoli e la crisi dei partiti della Prima repubblica sono lo spartiacque tra un prima, segnato dall’esistenza della figura dell’intellettuale organico di impostazione gramsciana e da partiti in grado di «elaborare collettivamente la concreta esperienza storico-politica del momento» (p. 9), e un dopo, segnato dall’affermazione dei partiti individuali incentrati sul carisma – e sul censo – del leader, fondati su elaborazioni ideologiche precarie e un rapporto ora strumentale ora apertamente conflittuale col mondo della cultura. Per forza di cose, lo storico fa molte incursioni nel passato precedente agli ultimi trent’anni, allo scopo di descrivere il funzionamento del modello dell’intellettuale organico, ma anche per mostrarne le prime falle: l’esperienza degli “intellettuali indipendenti di sinistra” e il loro rapporto complicato col Partito Comunista degli anni Settanta e Ottanta, il rapporto a tratti strumentale e opportunistico del Partito Socialista di Craxi col mondo della cultura, la delega della riflessione intellettuale alla Chiesa da parte della Democrazia Cristiana successiva a De Gasperi. Queste crepe non hanno tuttavia ancora la profondità delle fratture successive: la politica della Prima repubblica teneva in grande considerazione la dimensione della “cultura politica”, da elaborarsi attraverso strumenti culturali maturati ora in seno all’elaborazione collettiva dei partiti stessi, ora in un dialogo fitto con la cultura ufficiale e accademica e con gli intellettuali indipendenti. La nascita dei partiti personali, contestuale alla crisi della figura stessa dell’intellettuale – legata a ragioni esterne al sistema politico e su cui occorrerà tornare – allarga le crepe tra politici e intellettuali trasformandole in vere fratture. Il grosso del libro consiste in un’esplorazione di queste fratture, indagando il modo in cui esse si danno concretamente nella storia dei diversi partiti e delle diverse leadership, da destra a sinistra al centro.

Il libro rivela l’impostazione dello storico di professione del suo autore anche in un altro senso. La storia come disciplina scientifica, infatti, tra le pratiche intellettuali che compongono la costellazione della cultura, occupa un ruolo di primissimo piano. Il volumetto è agevole, composto da soli tre capitoli. Il primo, dal titolo Una politica senza intellettuali, mette a fuoco la relazione tra politica e mondo della cultura in generale, in una rassegna tanto precisa quanto appassionante di percorsi, intrecci e negazioni. In questo primo capitolo emerge con particolare efficacia quella che potremmo chiamare una genealogia dell’anti-intellettualismo della Seconda repubblica, che parte dalla nota polemica efficientista di Silvio Berlusconi e sfocia nelle invettive di Beppe Grillo, nell’estetizzazione della cultura di Matteo Renzi e nella negazione del significato della cultura da parte di Matteo Salvini. Il secondo capitolo, dal titolo Una politica senza storia, rappresenta forse il contributo più originale del libro. Parte da un assunto di valore: sarebbe salutare realizzare «il modello di una politica che informa sé stessa, impara dal passato, e valorizza il senso della storia (e con essa il lavoro degli storici), senza piaggeria o, all’opposto, atteggiamenti predatori», e, nello stesso tempo, «il modello di una storiografia in grado di affrontare temi di lungo respiro, capace di lasciarsi contagiare dallo spirito dei tempi senza farsi assorbire dall’attualità politica; una storiografia che non scrive per la politica, ma si rivolge anche alla politica» (p. 62). Un assunto di valore che potrebbe valere per tutto il mondo intellettuale: per la filosofia, che pure è abbastanza presente nella riflessione di Caravale almeno per le figure citate nel corso del libro, come per le scienze, sia sociali sia naturali, e la tecnologia. Sul rapporto delle scienze con la politica, però, in questo libro si legge pochissimo. In generale, nell’Italia di tradizione crociana e gramsciana, la storia, più della geografia, delle scienze ambientali e di quelle informatiche, viene associata alla pratica politica, intesa in effetti come pratica umana storica per eccellenza, non solo perché si fa nella storia e dipende da tutti i nessi che solo la prospettiva storica può cogliere, ma anche perché, hegelianamente, “fa” la storia, indipendentemente dalla conoscenza storiografica da cui è ispirata. Nel terzo capitolo Dentro e fuori dalla torre d’avorio, Caravale introduce con accento ragionevolmente critico il tema del rapporto tra economisti e politica, con ciò suggerendo, a parere di chi scrive, una critica più estesa nei confronti di una scienza economica che si propone alla politica e nei media come scienza esatta, alle cui indicazioni la politica, nel compiere le proprie scelte, dovrebbe semplicemente adeguarsi. Si tratta dunque della critica che uno storico di professione, umanista per definizione, muove nei confronti delle epistemologie riduzionistiche e oggettivistiche nelle scienze sociali, le quali alimentano una tecnocrazia che, rifiutando di mettere in discussione i propri assunti di partenza e imponendosi come depositaria di un sapere assoluto, tende a spodestare una classe politica sempre più impreparata, narcisista, estetizzata, per forza di cose superficiale.

Come si vede, si tratta della polemica di un intellettuale umanista nei riguardi di alcune tendenze che attraversano in primo luogo il mondo intellettuale: non si può interpretare dunque questo libro nel senso di una apologetica dell’intellettuale, libero e incompreso per natura, di fronte a una politica degradata. L’assunto di valore così ben descritto nel secondo capitolo impegna infatti tanto la storia – e, si dovrebbe suggerire, l’intera cultura, scienziati naturali, ingegneri e informatici compresi – quanto la politica a incontrarsi, nel rispetto della reciproca autonomia, recuperando entrambe il senso della profondità, se vogliamo della grandezza che le dovrebbe contraddistinguere. Ciò significa, dal punto di vista di Caravale, muovere una critica non solo nei confronti della politica contemporanea, ma anche nei riguardi di parte della politica della Prima repubblica, quando, scostandosi dalla buona teoria dell’intellettuale organico e dell’elaborazione collettiva del senso della storia, passava alla pratica di una lottizzazione delle cattedre in università, come avvenuto con le cattedre di Storia contemporanea sin dal primo concorso bandito nel 1960 dalla facoltà di fiorentina di Scienze politiche “Cesare Alfieri” (la vicenda è ricostruita a p. 69). Ma soprattutto, quanto all’oggi, ciò significa rivolgere una critica ai «difetti congeniti nella corporazione universitaria quali l’autoreferenzialità, il respiro corto e l’iper-specialismo delle ricerche, la ritrosia a confrontarsi con i grandi temi del dibattito politico nazionale e internazionale». L’autore non sembra condividere fino in fondo l’opinione del docente universitario nonché ex parlamentare di Articolo 1 Carlo Galli, ampiamente riportata nel libro, secondo cui l’orizzonte del dibattito politico è asfittico e opportunistico a differenza dell’orizzonte del dibattito accademico e intellettuale, libero, sincero, volto, come direbbe un filosofo antico, alla ricerca della verità. Come Caravale osserva, la precarizzazione dei percorsi di ricerca non restituisce ai ricercatori più giovani questa libertà, mentre l’atteggiamento di molti “strutturati” sembra risolversi nella comfort zone dell’operatore disciplinare, tutto interno al proprio campo scientifico. I meccanismi di valutazione quasi esclusivamente quantitativi e standardizzati favoriscono inoltre la cattività degli intellettuali, neutralizzandone la possibilità di intervento politico e rendendoli radicalmente dipendenti dalla tecnocrazia, la quale in gran parte, come notato sempre nel libro, ha spodestato anche la politica. Altri intellettuali intanto sono emersi sulla scena mediatica: scrittori e giornalisti, opinionisti e più recentemente influencer. Nei confronti di queste forme extra-accademiche di attività intellettuale, Caravale non assume un atteggiamento preconcetto o negativo a prescindere; vi è però il lucido riconoscimento dei vincoli posti alle avventure intellettuali dalla struttura dei media stessi, una struttura che premia la quantità di interazioni, lo share e i like e che favorisce quindi la creazione di contenuti e stili orientati più al consumo che all’azione politica. Anche in questo caso, non è dal mondo politico e dei partiti che proviene la falla, bensì dall’evoluzione socioeconomica nel suo complesso.

Senza intellettuali affronta dunque nella maniera più seria e critica un tema spinoso, non esente dal rischio di precipitare in banalizzazioni, passatismi o partiti presi. Il tema ha a che vedere, oltre che col piano storico su cui innanzitutto si concentra l’autore, con la questione di che cosa sia un intellettuale e di come la sua missione possa tornare a incontrare la missione della politica. Giorgio Caravale offre un contributo senz’altro originale a tale questione, trattando analiticamente la vicenda italiana degli ultimi trent’anni con gli strumenti d’indagine e interpretazione della scienza storica.

Scritto da
Paolo Furia

Ricercatore all’Università di Torino. Ha conseguito il Dottorato in Filosofia teoretica nel 2017 presso il FINO – Consorzio Filosofia del Nord Ovest (Torino-Pavia-Vercelli-Genova). È membro della Società Italiana di Estetica, della Eastern Europe Society of Phenomenology (CEESP), del Centro Studi Luigi Pareyson e della Society for Ricoeurian Studies. È autore di “Spaesamento. Esperienza estetico-geografica” (Meltemi 2023), “Estetica e geografia” (Mimesis 2020) e “Rifiuto, Altrove, Utopia. Una fenomenologia estetica del riconoscimento nell’opera di Paul Ricoeur” (Mimesis 2019).

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