Recensione a: Mario A. Maggioni, La sharing economy. Chi guadagna e chi perde, il Mulino, Bologna 2017, pp. 136, 11 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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«Affittare un appartamento con Airbnb, spostarsi con Blablacar, Uber o, più ecologicamente con il bike sharing, cenare prenotando con Gnammo, dopo aver lasciato il cane a un dog-sitter trovato con Petme: benvenuti nel mondo della sharing economy e delle sue miriadi di applicazioni».
Con questa lucida panoramica della realtà attuale Mario A. Maggioni, professore di Economia dell’Innovazione all’Università Cattolica di Milano, introduce al lettore il tema del suo ultimo libro edito da il Mulino per la collana Farsi un’idea: La sharing economy. Chi guadagna e chi perde.
Lo scopo di questo agile volume, poco più di cento pagine, è quello di inquadrare il fenomeno in modo chiaro e schematico. L’approccio dell’Autore non è ideologico ma analitico: ci presenta con metodo accademico le dimensioni e le caratteristiche principali della sharing economy, i benefici che da essa derivano per i consumatori ma anche i potenziali pericoli per quanto riguarda la tutela dei lavoratori e il rispetto di standard, garanzie e imposte. Sarà il lettore, una volta terminato il libro, a trarre le conseguenze che ritiene più opportune.
Il punto di partenza dell’Autore è tanto scontato quanto complicato: definire l’oggetto del libro. Non è facile trovare una definizione di sharing economy, fenomeno complesso, nuovo ed emergente. Maggioni, tra le numerose definizioni scaturite da una letteratura sul tema in costante crescita, opta per quella proposta da Alex Stephany, Ceo di Justpark, nel suo libro The Business of Sharing. Making it in the New Sharing Economy: «La sharing economy è il valore derivante dal rendere risorse sottoutilizzate accessibili online ad una comunità, riducendo la necessità di possedere tali risorse da parte degli individui». Definito l’oggetto, è possibile ora addentrarsi nella complessità della sharing economy.
Il modello economico della sharing economy si fonda sulla condivisione e/o l’utilizzo in comune di beni o risorse. Una pubblicazione di Credit Suisse del 2015, scrive Maggioni, sottolinea come analoghe pratiche di condivisione siano state adottate nei secoli passati in situazioni di scarsità provocate da catastrofi, guerre o grandi cambiamenti demografici. Ad esempio, nell’Ottocento, dinanzi alla miseria cui era andata incontro parte della popolazione a causa della Rivoluzione industriale le amministrazioni comunali in Germania idearono i cosiddetti orti comuni. Oppure, altro esempio, durante la Seconda guerra mondiale il governo statunitense lanciò un programma per il risparmio del petrolio, sintetizzabile nel celebre motto: «Contribuisci a vincere la guerra, strizzane uno in più dentro [l’auto]». Questi riferimenti storici aiutano a comprendere la nascita e lo sviluppo della sharing economy: il fenomeno infatti «si sviluppa in modo esponenziale e diventa universalmente riconoscibile a partire dal 2008, cioè all’indomani della grande crisi finanziaria (e poi economica) innescata dallo scoppio della bolla dei mutui sub-prime, con la conseguente crisi dell’occupazione e impennata del lavoro part-time» (pp.51-52). Alla condizione di necessità e scarsità generata dalla Grande Crisi, si uniscono, scrive l’Autore, due significative innovazioni tecnologiche: la presentazione, nel 2007, del primo iPhone e lo sviluppo esponenziale, proprio dal 2008, del neonato (2004) Facebook. Internet, lo smartphone e le relazioni virtuali saranno il terreno fertile dal quale germoglierà la florida industria della sharing economy.
Caratteristiche di un fenomeno in costante crescita
Maggioni dedica un capitolo ai soggetti leader della sharing economy, per quanto concerne i servizi di ospitalità, mobilità e trasporto, prestazione di lavoro, ristorazione e finanziari. Riportiamo, sinteticamente, alcuni esempi riguardanti quattro diverse esperienze di sharing economy:
Airbnb nasce nel 2007, quando Brian Chesky, l’attuale Ceo della società, era un giovane designer che aveva difficoltà a pagare l’affitto dell’appartamento che condivideva a San Francisco con il suo amico Joe Gebbia. In città si sarebbe svolta l’annuale riunione dell’Associazione dei designer industriali e tutti gli hotel erano al completo. Allora Brian e Joe decisero di acquistare tre materassi gonfiabili e diffondere l’iniziativa con il nome Air bed and breakfast. Da quell’iniziativa nacque Airbnb, leader mondiale nel settore dell’ospitalità (a pagamento) tra i privati, diffuso in oltre 190 paesi e con più di 150 milioni di ospiti dalla sua fondazione. Il sistema di business, scrive Maggioni, si basa sulle commissioni – 3% dal proprietario e tra il 6-12% dall’ospite- e attualmente Airbnb è valutata circa 30 miliardi di dollari.
Taskrabbit «si definisce come un marketplace on line (basato sulla telefonia mobile) che accoppia l’offerta di lavoro freelance con la domanda locale, permettendo ai consumatori di trovare un aiuto immediato per le incombenze domestiche» (p.32). Maggioni spiega in modo chiaro la ratio di questa piattaforma: accoppiare le richieste da parte di posters (coloro che hanno reddito elevato ma non tempo a disposizione per piccoli lavori domestici) con le capacità di taskers (hanno tempo e competenze e sono alla ricerca di reddito aggiuntivo). L’impresa trattiene il 15% su ogni pagamento che transita sulla piattaforma.
Gnammo è una piattaforma italiana di social eating nata nel 2012. Il sito offre la possibilità al cook (chi organizza il pasto) di incontrare lo gnammer (chi partecipa all’evento) e viceversa. Il pagamento avviene tramite Paypal e Gnammo trattiene il 10% della transazione.
Kickstarter, fondata nel 2009 da Perry Chen, è una delle maggiori piattaforme online per il finanziamento collettivo di progetti creativi. Gli artisti possono presentare nella piattaforma online un progetto indicando un ammontare di finanziamento per la sua realizzazione e una data entro cui raggiungere tale obiettivo. Kickstarter preleva una commissione del 5% sul totale del finanziamento raccolto. In caso di fallimento (non viene raggiunto l’ammontare indicato) gli utenti tornano in possesso del loro denaro. In caso di successo avranno invece dei premi (biglietto gratis etc.).
Il fenomeno della sharing economy è in costante sviluppo e sembra essere destinato ad incidere sempre di più nell’economia e nel mondo del lavoro. Come riporta Maggioni, una ricerca Pwc del 2016 ha segnalato che il valore delle transazioni legate alla sharing economy è cresciuto del 56% tra il 2013 e il 2014 e del 77% nel biennio successivo. Il fenomeno, essendo legato alle tecnologie informatiche, risulta popolare principalmente tra i giovani (18-35), che costituiscono il 48% degli utilizzatori.[1] In America tra gli utenti di Internet più del 50% ha acquistato almeno una volta un bene usato su una piattaforma elettronica di sharing economy. Considerato che il trend, come abbiamo visto, pare sia crescente, è doveroso domandarsi quali siano i limiti e le prospettive di questo modello, chi guadagna e chi perde.
Maggioni: limiti e prospettive del modello sharing economy
Gli effetti della sharing economy sull’intero sistema economico sono numerosi e complessi. «Ex ante si potrebbe assumere che l’abbinamento elettronico tra utilizzatori e fornitori di beni e servizi possa provocare una serie di incrementi nell’efficienza – riducendo i costi di ricerca e di transazione, migliorando l’efficienza allocativa, diminuendo le asimmetrie informative, avvicinando il prezzo al costo marginale – oltre che causare una diminuzione della rilevanza delle barriere geografiche, con il conseguente incremento del numero di abbinamenti potenziali tra domanda e offerta e della specializzazione internazionale» (p.74). Vi sono invece alcuni effetti indiretti verificabili soltanto ex post con delle analisi empiriche. Ad esempio, per quanto riguarda gli effetti sull’ambiente, l’utilizzo del car sharing riduce in teoria le emissioni, ma allo stesso tempo «l’aumentata accessibilità a servizi di trasporto a buon mercato potrebbe aumentare la domanda di mobilità; inoltre, se il reddito ottenuto dalle piattaforme è utilizzato per incrementare il consumo, allora l’effetto finale sull’ambiente potrebbe rivelarsi di segno negativo» (p.75).
Tra i benefici ascrivibili al fenomeno sharing economy troviamo: l’incremento dell’efficienza, l’incontro tra la domanda e l’offerta, la riduzione dei costi e del numero degli intermediari, la possibilità di trarre utilità da un bene sottoutilizzato e l’aumento della produttività. Numerosi sono però anche i potenziali pericoli che questo modello sembra portare ineluttabilmente con sé. «La sharing economy, grazie alla rilevanza delle economie di scala e di scopo e delle esternalità di rete, rinforza la concentrazione e favorisce conseguentemente l’incremento del potere di mercato da parte di pochi soggetti che possono stabilire i prezzi a livelli superiori al costo marginale» (p.78). Inoltre, date le numerose informazioni che le piattaforme online possono acquisire sui propri consumatori, la sharing economy agevola pratiche di discriminazione di prezzo. Ancora, l’abbassamento del reddito medio da lavoro, dovuto all’enorme disparità di potere contrattuale tra l’impresa e i lavoratori (spesso contrattualizzati come contractors indipendenti o freelancers), potrebbe determinare una paradossale[2] diminuzione della domanda aggregata.
Dinanzi al fenomeno sharing economy – che come abbiamo visto si è sviluppato dopo la grande Crisi, è in continua crescita e mostra benefici ma anche numerosi pericoli – si può assumere, scrive Maggioni, due posizioni: quella libertaria, che vede nel sistema di rating una valida alternativa alla regolazione e quella normativa/precauzionale, che evidenzia situazioni di fallimento del mercato e altri problemi necessariamente da regolare. Per quanto riguarda gli standard di competenza e di sicurezza e igiene, la tesi libertaria vuole che sia il sistema di rating a fungere da disincentivo all’elusione di detti standard, mentre la tesi normativa spinge per una regolazione, in modo da debellare l’asimmetria informativa che intercorre tra cliente e fornitore circa la qualità del servizio. Un ulteriore, forse tra i più gravi, problema delle piattaforme di sharing economy è il fatto che queste considerano i fornitori di servizi non come propri lavoratori dipendenti, ma come contractors indipendenti, con la conseguente assenza di tutela per quanto riguarda gli infortuni la previdenza o la salute. Il fenomeno sharing economy, inoltre, tende spesso a tradursi in una fabbrica di monopoli, grazie ad un meccanismo di feedback positivo[3]; e la posizione del monopolista finisce per favorire pratiche di elusione fiscale e di mancata tutela della privacy dei consumatori.
Dinanzi a queste storture l’opportunità di una regolazione pare ineludibile. Il fenomeno della sharing economy dovrebbe essere al centro del dibattito pubblico, perché, nell’ipotesi più pessimistica proposta da Trebor Scholz[4], «tra venti o trent’anni, quando si assisterà alla fine delle professioni e sempre più lavori saranno “uberizzati”, potremmo svegliarci e chiederci perché non abbiamo protestato con più forza contro questi cambiamenti». Dobbiamo scegliere se accettare una weltanschauung in cui il cittadino si riduce a consumatore, assistendo alla reificazione e mercificazione dell’esistenza, oppure se agire per regolare queste storture. Regolare, non demolire: bisogna avere l’onestà intellettuale per ammettere i benefici, di cui abbiamo parlato, della sharing economy. In molti, a parere di chi scrive, non sarebbero infatti disposti a rinunciare ad essi.
Il libro di Maggioni, come afferma l’autore stesso, fornisce al lettore una cassetta degli attrezzi utile per comprendere il fenomeno sharing economy. Il lettore è libero così di maturare la propria opinione con consapevolezza, orientandosi tra i benefici e i pericoli di un fenomeno destinato ad incidere sempre di più non solo nel sistema economico in generale, ma anche nella vita di tutti i giorni.
[1] Seguono gli adulti (36-54 anni) che raggiungono il 33% e poi gli anziani (>55 anni) con il 19%. Statistiche statunitensi, fonte: Crowd Companies e Vision Critical, 2014.
[2] Paradossale perché la sharing economy dovrebbe fungere da stimolo alla domanda.
[3] La piattaforma con un numero maggiore di servizi tenderà a crescere più velocemente di qualsiasi altro rivale.
[4] Trebor Scholz, della New School for Social Research. La citazione è riportata a pagina 106 del libro.