“Simboli della fine” di Federico Vercellone
- 08 Ottobre 2018

“Simboli della fine” di Federico Vercellone

Recensione a: Federico Vercellone, Simboli della fine, il Mulino (Icone), Bologna 2018, pp. 152, 12 euro (scheda libro)

Scritto da Gregorio Tenti

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Il problema dell’immagine è una questione di radici storiche, e riguarda la forma possibile del mondo che abitiamo. Quando un oggetto si dà in immagine, si fa riconoscere da noi e al contempo fa sì che ci riconosciamo in esso, che leghiamo cioè la nostra presenza alla sua, stabilendo così una circolazione del senso. L’immagine si colloca né troppo vicino, dove possiamo toccarla, né troppo lontano, dove non può in alcun modo toccarci: instaura una corrispondenza immediata con la realtà che si gioca sull’emergere di costanti sensibili, come se il mondo si rivolgesse da sempre a noi. L’immagine è ciò che nel reale ci riguarda. L’ultimo libro di Federico Vercellone, uscito a settembre per la preziosa collana Icone del Mulino (curata da Massimo Cacciari), suggerisce innanzitutto che questa familiarità con il mondo è il cuore pulsante della nostra cultura moderna e insieme l’ambito in cui si consuma la sua crisi.

Simboli della fine può essere letto come un punto d’arrivo del pensiero del suo autore, che ha analizzato le ontologie mitopoietiche romantiche (si veda per esempio Nature del tempo. Novalis e la forma poetica del romanticismo tedesco, Guerini e Associati, Milano 1998) e indagato le radici della crisi d’identità che attraversa l’età moderna (Introduzione al nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2009). Si può comprendere allora come la genealogia del tempo presente debba risalire necessariamente al Romanticismo. I romantici per primi hanno individuato nel patrimonio simbolico la chance vitale di una civiltà, rimarcando l’interesse per il rinnovamento della forma come incombenza storica. Un compito che oggi si ripropone con enfasi e a tratti con violenza, nella veste di un vero e proprio «scontro di identità in immagini»[1], quando il potere di stabilire un ambiente condiviso viene a mancare. Il concetto di immagine si pone dunque al punto di giuntura tra l’estetica e la sfera etico-politica, tanto che – come Vercellone non esita a sottolineare – ne va letteralmente di “noi”.

«Radicarsi» e «riconoscersi» sono termini ambigui, intrinsecamente assiologici, ma neutri dal punto di vista della normatività: tanto che «serbare e conservare […] sono diventate parole d’ordine di sinistra» (p. 38). La soggettività identificata diventa una condizione necessaria della ricerca di emancipazione; ma è al contempo venduta sul mercato di massa e impugnata dai terrorismi internazionali e dai fascismi. Vercellone sostiene che sono proprio il disperato bisogno di autoriconoscimento e l’emorragia simbolica che ne consegue a generare risposte distruttive e nichilistiche, fondatrici di nulla. Le immagini stesse prosperano in quest’ambiguità, alimentando esclusioni, incantando le figure dei leader, piegandosi all’intrattenimento, ma esercitando sempre il loro terribile potere di appello. I simboli che oggi mancano sono quelli rivolti al futuro. Di fronte ad una radicale abolizione del possibile, Vercellone sembra propendere per un difficile lavoro di selezione di quelle immagini davvero fondative, fondatrici del veramente nuovo, dotate cioè di un potere di rinnovamento quasi palingenetico.

Vercellone e l’ecologia dell’immagine

Il fulcro di Simboli della fine è una ricerca intorno al rinnovarsi di uno slancio utopico sostenibile e alla prospettiva di un futuro abitabile: un tempo oltre il moderno, che sia però infine compiutamente moderno. Se moderni, secondo la celebre formula di Bruno Latour[2], non lo siamo mai stati, è perché la spinta utopica della modernità muove da un cortocircuito: la pretesa condizione di indipendenza “senza immagini”, di totale autonomia dall’origine. È il gesto massimamente infecondo di colui che vuole uscire dalla palude tirandosi per i capelli, che si rivela difatti incapace di sostanziare un’identità allargata e lascia spazio a un profluvio isterico di identità personali e immagini deboli, sottoposte di volta in volta alle ragioni dell’istituzione politica, del tribalismo culturale o del sistema produttivo calato sulle vite. La modernità illuminista ha instaurato un tempo privo di spazio o di luogo, un progresso inappropriabile.

La temporalità moderna prevede un tempo infinito, che procede senza mai fermarsi, comprendersi e rinnovarsi. Questa hybris imprime al moderno tutta la sua fragilità. È anche il senso dell’opera che Vercellone attribuisce a I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer (2004-15, Milano, Hangar-Bicocca), installazione consacrata a filo conduttore del libro. L’esegesi dei Sette Palazzi è proprio un esempio di quel lavoro di assunzione e assimilazione delle immagini più vitali che l’autore sembra auspicare a livello teorico. L’opera di Kiefer mette in mostra lo slancio che contiene in sé il crollo, «l’illusione atavica del Moderno» che «rinvia a un futuro letteralmente catastrofico» (p. 16); eppure è essa stessa un’immagine vivida e feconda in seno al moderno, che rimanda quindi alla sua salvezza. Essa costituisce uno spazio fondato, una stazione nella corsa vertiginosa della temporalità che si pretende lineare e in infinito progresso: è esempio della «piega» o della «nicchia» che il tempo deve produrre se non vuole precipitare nella propria catastrofe violenta.

La strategia argomentativa si muove su due fronti: da una parte l’autore asserisce la propria tesi riguardo alle immagini, dall’altra la mette in pratica prendendo un’immagine esemplare, e instaura così un circolo virtuoso tra riflessione ed esperienza. La selezione e assimilazione dell’immagine (sul modello effettivo del cibo, citato spesso nel corso del libro) è dunque asseverata come etica. Si affaccia la questione capitale della soggettività collettiva che può effettivamente formarsi intorno all’opera d’arte, ovvero del destinatario di quella promessa di felicità che da sempre l’arte riserva all’uomo. Se l’arte, come afferma Klee, è sempre per un popolo a venire, un’etica che la pone al proprio centro dovrebbe risultare sfuggente, impalpabile, nonché mutilata di una politica. Vercellone sembra affidare innanzitutto l’antica missione dell’arte all’«immagine» come sua diluizione nel mondo della vita, come epicentro simbolico già più pubblico che privato, liberato dal vincolo del museo e delle sue altre istituzioni. In secondo luogo – e questo è forse il punto più importante -, è proprio il fatto che l’immagine vitale si declini immancabilmente al futuro a rappresentare la sua potenza. L’immagine non si scontra con una mancanza ma esercita un potere fondativo, integrato con il tessuto delle esistenze.

La sua impalpabilità politica proviene dal fatto che non è possibile ridurla a strumento della lotta. L’immagine dotata di potere fondativo non può essere impugnata dal progetto politico come suo strumento, poiché ne fornisce l’ambiente: essa è proprio ciò che permette il movimento progressivo della soggettività che ospita. Per questo il progetto che ha preteso di procedere senza immagini è un progetto fallito, quello sì rarefatto e inconsistente; e ciò che serve è piuttosto un’«ecologia dell’immagine», un sapere che riguardi la nostra stessa capacità di orientarci simbolicamente nel mondo. «Bisogna in altri termini intendere quali immagini siano inquinanti e quali invece promuovano il tessuto sociale» (p. 84).

Un libro sul tempo

Il concetto dell’immagine donatrice di senso è delineato attraverso numerosi riferimenti, dalla tradizione morfologica all’antropologia, dalla filosofia della tecnica alla teologia politica. Qui ci limiteremo a sottolinearne due aspetti fondamentali. In primo luogo, Vercellone tenta di spostare il paradigma della tecnica come dominio del mondo da parte del soggetto verso la concezione di un’attività primaria dedicata alla relazione tra uomo e ambiente, di una produzione di ordine dotata di effetti appaesanti. In questa prospettiva, la formazione di immagini è gesto tecnico per eccellenza in quanto costruzione dello spazio simbolico. In secondo luogo, l’immagine costituisce un’intensificazione della realtà e non una realtà mancante. Essa non consiste cioè, come da tradizione platonica, in un’apparenza rispetto a ciò che rappresenta, ad un oggetto impoverito di realtà: si colloca piuttosto accanto agli oggetti, inserendoli in una rete di senso.

Poter tracciare un’identità sana, non escludente, ma non per questo meno radicata, è «la grande battaglia culturale del nostro presente» (p. 126). Affrontando tanti concetti tabù nella cultura critica, Vercellone sembra sostenere che il progetto di una fondazione libera da violenza ideale e materiale deve passare da una rinnovata facoltà di agire quelle parti molli della nostra coscienza collettiva che ci permettono di abitare uno spazio condiviso e un’epoca. Produrre immagini è la stessa cosa che produrre un luogo: non c’è bisogno di citare l’esempio della città, che è sempre prima un’immagine[3], per comprendere che – in senso anche più profondo – ogni spazio pubblico funziona come tale solo se ospita dei simboli condivisi (ancora prima che delle idee). Ogni istituzione che abbia il valore forte di una fondazione, che sia cioè agita collettivamente e non meccanicamente imposta, non può che fare appello a immagini profonde. Si tratteggia l’idea di un luogo di condivisione che cresce spontaneamente e necessita di essere coltivato, idea che guarda oltre la storia politica della modernità.

Forse Simboli della fine è soprattutto un libro sul tempo. La visione della modernità lanciata in una folle corsa senza resistenze conduce l’autore ad una peculiare interpretazione del concetto, caro alla filosofia politica contemporanea, di katéchon – letteralmente, il «potere che frena»[4] la manifestazione dell’Anticristo e la fine dei tempi. Qui ciò che trattiene le cose e le loro relazioni dalla catastrofe ultima non sembra pensato nei termini di un principio storico, bensì sul modello di un principio ontologico e morfologico, relativo alla forma e al senso delle cose. Katéchon è dunque la possibilità di inserire ciò che esiste in una trama di relazioni significative. Mentre le ultime avanguardie della teoria critica interpretano il sentimento di fine dei tempi come segno dell’apocalisse della forma capitalistica, prendendo ancora a bersaglio una sorta di potere imperiale, un’altra prospettiva ci invita qui a considerare la necessità di “piegare” il tempo per restituire alle esistenze una vita non alienata e una forma collettiva. Solamente in questo modo la fine, anziché annunciarsi in segni, potrà seminare simboli.


[1] Cfr. il precedente contributo di Vercellone, Il futuro dell’immagine, il Mulino, Bologna 2017, in particolare pp. 103-109.

[2] Ci riferiamo a B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 2016.

[3] Cfr. H. Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, Moizzi, Milano 1976, p. 26.

[4] Cfr. M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.


Crediti immagine: Heinz Bunse, I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer, attraverso flickr.com

Scritto da
Gregorio Tenti

Nato ad Arezzo nel 1993, è dottorando presso il Consorzio di Filosofia del Nord-Ovest (FINO). Il suo progetto di ricerca verte sull’estetica di Friedrich Daniel Schleiermacher. Ha completato un percorso quinquennale come allievo della classe di Governo e Scienze Umane alla Scuola di Studi Superiori “Ferdinando Rossi” di Torino e si è laureato a pieni voti presso l’Università di Torino con una tesi sull’estetica di Gilbert Simondon.

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