Social network e costruzione del consenso
- 23 Agosto 2018

Social network e costruzione del consenso

Scritto da Nicolò Carboni

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Pensare al consenso politico nell’era dell’algoritmo significa abbandonare buona parte delle convinzioni vigenti e in particolare superare un certo mainstream culturale che – più o meno a partire dagli anni Ottanta – ha imposto la centralità di un mezzo, quello televisivo, capace di tagliare – con strumenti legislativi, comunicativi e narrativi – le ali estreme per spingere l’elettore verso un utopico nuovo centro moderato. Fu il decennio di Tony Blair, di Bill Clinton e, soprattutto, di Silvio Berlusconi, capace come nessun altro di piegare la comunicazione televisiva al fine politico.

Oggi quel mondo non esiste più, o meglio, si sta marginalizzando, consumato da fenomeni complessi e ancora privi di una lettura univoca. Internet, i social network, gli smartphone non hanno cambiato i rapporti umani che rimangono difficili da sondare e ancora più da capire, hanno livellato i rapporti di forza tra classi dirigenti (élite, forse) e cittadino comune. Dalla televisione lineare, con un palinsesto rigido, programmi definiti e orari intoccabili si è passati a Netflix: milioni di contenuti, sempre disponibili, tutto il giorno, anche in viaggio.

Non stupisce che, seppur con ritardo, anche la politica abbia seguito la stessa evoluzione. Il corpo del politico ha abbandonato le pose rigide, i gessati, gli austeri palazzi: oggi l’agenda viene dettata dalle dirette su Facebook dei leader politici, ex ministri e virologi di fama internazionale discutono su Twitter, mentre le riunioni sono vissute in diretta su Youtube.

Forse ha ragione chi sostiene che un video in streaming non ha la pervasività del Tg1 delle 20.00 – oltre otto milioni di spettatori secondo gli ultimi dati Auditel – ma ha una caratteristica diversa, molto più preziosa: quella di aggregare delle nicchie. Apparire in televisione può essere paragonato al distribuire milioni di volantini nelle caselle postali: qualcuno forse li leggerà ma la massima parte finiranno al macero. Su internet è l’esatto opposto: le comunità si creano da sole e sono ipersensibili a determinati messaggi.

Questo fa sì che oggi non si tratti tanto di indirizzare le masse ma di “tornare a Lenin”, ai rivoluzionari che guidano il popolo. Online il consenso non si crea con gli slogan o i messaggi a effetto: bisogna esplorare, trovare e curarsi delle nicchie, comprese quelle piccolissime, che possano fare da fertilizzante per una futura egemonia culturale.

 

I social network e l’alt-right americana

Trump negli Stai Uniti non ha vinto grazie ai meme, alle fake news o alla propaganda russa, che pure è esistita. È stata l’alt-right a vincere usando Donald Trump. La destra reazionaria, razzista e xenofoba americana ha passato anni a indirizzare comunità online che, al momento giusto, si sono trasformate nelle avanguardie del trumpismo.

Steve Bannon, il grande ideologo del presidente, insieme a personaggi meno noti come Milo Yiannopoulos e Palmer Luckey hanno egemonizzato un pezzo enorme del dibattito online americano, del tutto al di fuori dei canali culturali tradizionali.

Bannon e gli altri si sono rivolti a quattro categorie ben specifiche: i videogiocatori, i neonazisti, i suprematisti bianchi e quelli che, con una semplificazione giornalistica, sono chiamati incel – neologismo che deriva dall’unione dei termini inglesi involuntary e celibate ovvero i maschi, spesso bianchi, soli e misogini. Se per neonazisti e white supremacist l’attrazione per il messaggio trumpiano appare ovvia, è il caso dei videogiocatori a risultare molto interessante.

Per almeno tre decenni lo stereotipo dell’appassionato di videogame è stato associato alla figura del “perdente”, gli occhiali spessi, il fisico smilzo, uno stile non proprio alla moda. Non è difficile richiamare alla mente decine di personaggi televisivi e cinematografici affini a queste caratteristiche. Quei ragazzi che il cinema e la televisione degli anni Ottanta e Novanta descrivevano in quel modo ingeneroso nel frattempo sono diventati adulti, portandosi nella maturità tutte le frustrazioni della giovinezza. Esposti fin da piccolissimi a un’estetica che valorizza l’agire individuale, l’eroismo solitario e un certo gusto per il politicamente scorretto, questi (ex) ragazzi si sono trasformati quasi naturalmente nell’avanguardia rivoluzionaria del trumpismo, e a Bannon è bastato costruire una cornice “ideale” tanto vaga quanto reazionaria.

I deplorables, il ceto medio impoverito del Midwest e i trump-democrats sono arrivati dopo: se vogliamo cercare il cuore del consenso elettorale trumpiano dobbiamo esplorare Reddit, 4chan e tanti altri luoghi virtuali che, però, sono capaci di costruire un “intellettuale collettivo” reale. Dopotutto, cos’è Donald Trump se non un uomo che ha trasformato se stesso in un “meme vivente”, un personaggio surreale che appare incapace di distinguere tra showbusiness e una riunione del G8?

 

Il “consenso della rete” in Italia

In Italia la situazione è, se possibile, ancora più contorta: mancando un partito di destra reazionaria come il Front National francese il primo interprete del “consenso della rete” è stato il Movimento 5 Stelle che, almeno nella parte iniziale della sua esistenza ha incanalato queste stesse pulsioni in rivendicazioni socialmente accettabili.

In seguito, a svolgere un ruolo importante è stata la Lega di Matteo Salvini. La nuova Lega post-bossiana non è un partito sciovinista e neppure la declinazione italiana dell’autoritarismo est-europeo. Salvini ha sfruttato l’intuizione, a suo modo geniale, di Gianroberto Casaleggio de-istituzionalizzando un partito che, per vent’anni, aveva espresso una parte importante del governo italiano. Così, mentre il Movimento 5 Stelle appare sempre più stretto nella nuova postura istituzionale indotta dal suo capo politico, la Lega è diventata l’interlocutore prediletto di un mondo marginale ma numericamente significativo. Salvini non abbraccia le cause degli ultimi o meglio, non lo fa in riferimento ai rapporti di forza produttivi, ma concentra il suo interesse sui gruppi più organizzati e, al tempo stesso, più lontani dal mainstream. È il caso degli antivaccinisti, ma pure dei complottisti, fino ad arrivare ai flirt della Lega con i Forconi e altre realtà ai limiti dell’eversivo.

Come Trump con i videogiocatori, anche in questo caso la costruzione del consenso passa da un’avanguardia che viene formata attingendo ad un mondo che, per la prima volta, arriva sulla scena pubblica. Come disse significativamente il CEO di Google: Internet non ci ha resi pazzi, semplicemente ha dato anche al nostro cugino pazzo la possibilità di esprimersi.

Ma l’algoritmo è invincibile? No, non lo è. Gli organizzatori moderni, coloro che volessero svolgere oggi il ruolo che era un tempo degli agitprop del partito, devono essere dei costruttori di comunità, da non aggregare però attorno a generici “valori” condivisi o a simboli predefiniti. Occorrerebbe invece scovare battaglie politiche forse minoritarie nel Paese ma con una forte adesione sentimentale. Ad esempio, pensando all’internet italiano, vista la quasi totale rivalutazione della Prima Repubblica: perché non intestarsi una battaglia per l’autonomia della politica e il ritorno al finanziamento pubblico? O ancora: esistono, sempre nei meandri dell’internet del nostro Paese, gruppi di discussione che teorizzano da anni il superamento della proprietà privata degli algoritmi e sostengono la necessità di nazionalizzare i giganti del web. Oppure infine, sono diffuse riletture postmoderne di Marx che cercano di superare la centralità del lavoro nei sistemi produttivi contemporanei.

Queste sono solo alcuni dei compiti che potrebbe intestarsi una forza di sinistra contemporanea, snella e capace di fare il suo mestiere, ovvero organizzare le forze vive della società per costruire un mondo migliore. Ma questo presuppone la consapevolezza che battaglia ideale oggi si gioca su questo piano.

Scritto da
Nicolò Carboni

Ha lavorato al Parlamento europeo dal 2009 al 2019, occupandosi principalmente di bilancio e finanze pubbliche. Nel corso della legislatura 2009/2014 ha lavorato per l’ufficio di presidenza della delegazione del Partito democratico al Parlamento europeo seguendo il coordinamento dei lavori d’Aula e la comunicazione politica. Attualmente è caposegreteria del Ministro per il Sud e la Coesione territoriale. Gli articoli per Pandora Rivista sono scritti a titolo personale e non impegnano l’istituzione di appartenenza.

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