Scritto da Laura Pennacchi
11 minuti di lettura
Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Non solo condivido pressoché tutto del bel saggio di Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano (Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, uscito sul numero 6 del 2019 de «il Mulino»), ma ritengo provvidenziale che il suo stimolo giunga in questa fase difficile, in cui c’è un vitale bisogno di sciogliere nodi aggrovigliati da tempo nella storia delle sinistre italiane. Pertanto le mie notazioni saranno nel senso a) di esplicitare maggiormente le non banali implicazioni di alcune delle ricostruzioni compiute da Felice e Provenzano; b) di sviluppare in avanti alcuni degli spunti da loro offerti per ideare le politiche del futuro.
La prima esplicitazione che mi sta a cuore riguarda la rottura nella soluzione di continuità e la cesura tra liberalismo e neoliberismo. Felice e Provenzano considerano il neoliberismo una “distorsione, se non una vera e propria involuzione del liberalismo”, madre della “drastica riduzione dell’intervento pubblico”, del “primato dei mercati deregolamentati”, di “un’integrazione europea ‘minimalista’”. Al cuore del neoliberismo stanno lo schiacciamento economicista della complessità umana (totalmente atomizzata, desocializzata, visualizzata esclusivamente in termini di autointeresse), un individualismo narcisista e compulsivamente consumista che, pur ricorrendo a rilevanti componenti “simboliche” e culturali, ha poco a che fare con i grandi processi storici di “individuazione” tipici della modernità, la messa al bando del senso di responsabilità collettiva da cui scaturiscono l’esaltazione della riduzione delle tasse, specie per i ricchi, e la marginalizzazione del “pubblico” e delle istituzioni collettive che esercitano responsabilità verso tutti[1]. Il liberalismo, invece – che nelle sue componenti classiche è innanzitutto teoria e prassi dell’esplorazione del limite e della ricerca dell’equilibrio, mentre il neoliberismo è vocazione alla voracità e alla illimitatezza – nelle sue componenti sociali e liberaldemocratiche condivide con il socialismo e con la social-democrazia, in particolare quella scandinava, il rifiuto del primato delle relazioni di mercato, la ricerca di “orizzonti di senso” e l’attribuzione di grande significato alla partecipazione democratica, la visualizzazione delle istituzioni pubbliche come entità doverosamente esercitanti responsabilità e solidarietà perché dotate di un’eticità a ciò obbligante[2].
In questa sede non mi interessa tanto verificare la correttezza filologica di tali affermazioni o la completezza delle citazioni a cui si riferiscono: le assenze per me più rilevanti riguardano Karl Polanyi e gli azionisti italiani, ma trovo molto significativi il richiamo a Weber e l’apprezzamento espresso per Turati e altri grandi socialisti, così come mi rallegra che tra le citazioni vi siano autori normalmente non presenti nel bagaglio di esponenti della sinistra, come Giuseppe Mazzini, il cui repubblicanesimo anticipa a mio parere il “patriottismo costituzionale” di Habermas. Qui mi preme spingere a misurare la portata di tali assunti, cosa che possiamo fare solo se ne cogliamo la distanza da un diverso “senso comune” ancora presente, e talora dominante, in varie forze della sinistra italiana, specie quelle di origine comunista: la convinzione della continuità tra liberalismo e neoliberismo (e pertanto la sottovalutazione della carica emancipatrice rivoluzionaria del liberalismo sociale e democratico), l’esaltazione schmittiana della “forza” e della “potenza” come base dell’attività politica e la correlata teorizzazione della ”autonomia del politico”, la separazione tra etica e politica e la coltivazione di forme di machiavellismo come indifferenza ai “fini”, la considerazione delle istanze morali ed etiche intrinseche a varie forme di liberalismo e di socialismo come “filisteismo borghese”. Insisto su ciò perché tutto ciò ha molto a che fare con l’attuale infiacchimento e svuotamento della spinta progettuale – la quale per essere tale non può non essere animata dal binomio fini/valori – che affligge le sinistre e le relega in una condizione di irrilevanza o in una semplice dimensione, pur molto importante, di capacità di buona amministrazione.
La seconda esplicitazione è strettamente legata alla precedente: vedere la profondità della “cesura” tra liberalismo e neoliberismo consente di cogliere un’analoga profonda “cesura” tra il periodo seguito alla fine della seconda guerra mondiale – i “trenta gloriosi”, eredità del New Deal e della rivoluzione keynesiana – e quella che Felice e Provenzano chiamano “l’offensiva neoliberale della fine degli anni ‘70”, permettendo al tempo stesso di visualizzare sia l’uno che l’altra come processi tipicamente “politici” (cioè non naturalisticamente necessitati). Anche questo è tutt’altro che scontato, perfino a sinistra. Non dimentichiamo che nel vecchio Pci non erano pochi quelli che guardavano con sufficienza ai “trenta gloriosi” e ne consideravano alcune delle più rilevanti conquiste – come i welfare states – tentativi di “integrazione nel sistema della classe operaia”. E anche la magistrale ricostruzione compiuta di recente da Piketty di quasi tre secoli di diseguaglianze[3] presenta qualche correlazione tra tratti “deterministici” e la sbrigatività con cui sono considerate le realizzazioni “politiche” dei “trent’anni gloriosi”, rapidamente archiviate come una “parentesi” di eccezionale crescita in un trend di lungo periodo stagnante, e di conseguenza la insufficiente chiamata in causa del neoliberismo (il movimento “politico” di destra che ha rovesciato i “trent’anni gloriosi”), in particolare delle sue specifiche responsabilità nella generazione e nell’esplosione delle diseguaglianze. Proprio questo è, invece, il punto: il problema del neoliberismo va preso di petto in quanto tale. Lo fa Tony Atkinson – autore molto caro a me e a Felice e Provenzano – nel bellissimo libro che ci ha lasciato prima di morire[4]. Le diseguaglianze non sono il destino naturale presupposto dal neoliberismo. Esse sono incapsulate in economie e società “costruite socialmente” e sono il frutto di scelte politiche. Per affrontarle dobbiamo “apprendere dal passato” e costruire alternative altrettanto politiche, ponendoci due domande: 1) perché la diseguaglianza è caduta nel secondo dopoguerra in Europa? 2) perché il trend egualitario è stato rovesciato in uno disegualitario a partire dal 1980? Le risposte di Atkinson sono nette. I fattori maggiormente esplicativi del periodo di riduzione delle diseguaglianze sono tutti politici: “il welfare state e l’espansione dei trasferimenti pubblici, la crescita della quota dei salari sul valore aggiunto dovuta alla forza dei sindacati, la ridotta concentrazione della ricchezza personale. E altrettanto politiche sono “le ragioni che hanno condotto a un termine il processo di equalizzazione, rovesciando nel loro contrario i fattori equalizzanti”: tagli del welfare state, declino della quota dei salari sul valore aggiunto (con una responsabilità specifica dell’incremento della disoccupazione, che dalla fine degli anni ‘70 fu vertiginoso), crescente ampliamento dei differenziali salariali, minore forza sindacale, minore capacità redistributiva del welfare e del sistema di tassazione.
Soffermarsi su tutto ciò aiuta anche a non eludere due problemi fin qui non adeguatamente trattati. Il primo riguarda i limiti delle culture politiche delle sinistre italiane e in particolare delle forze che hanno dato vita al Partito Democratico. Limiti vari sono oggi presenti in tutte le formazioni che in Europa e in Italia si collocano a sinistra, comprese quelle di origine cattolico-democratica: si pensi al tradizionalismo e al conservatorismo che tarpava le ali alle correnti di sinistra della Democrazia Cristiana, e oggi grava come un macigno sullo straordinario magistero di papa Francesco. Ma ciò a cui in questa sede sono interessata è una riflessione sul modo in cui alcune ambivalenze strutturali del Pci (al quale mi iscrissi nel 1975) hanno segnato la sua forte attitudine riformatrice e la successiva evoluzione del riformismo italiano. Nel Pci l’amalgama meno produttivo è stato quello tra una fascinazione totalizzante della “autonomia del politico” e una visione dei processi economici basata sull’esaltazione della concorrenza e l’indifferenza o l’ostilità agli apparati e alle imprese pubbliche, frutto della persistenza di una matrice veteromarxista e terzinternazionalista, a vocazione antimonopolistica e critica del “capitalismo monopolistico di Stato”[5]. Da un lato, storicamente la cultura del vecchio Pci è stata molto influenzata non dal liberalismo sociale di cui parlano Felice e Provenzano ma dal liberalismo di Labriola, Croce, Einaudi, un liberalismo che si saldava con residui terzinternazionalisti “classisti” e “crollisti” poco atti a far cogliere il dinamismo e le trasformazioni, anche sul piano simbolico e valoriale, basti pensare al ’68 e al femminismo. Tanto è vero che, a sinistra, le prime impostazioni innovative – con significativi germogli di quel keynesismo introdotto in Italia da Fanfani – si colgono nella Cgil, prima con il Piano del Lavoro del 1949 (che venne accolto con una paradossale convergenza tra l’ostilità di De Gasperi e della DC di centrodestra e la freddezza di Togliatti e del Pci, con la sua singolare inclinazione “liberal-einaudiana”) e poi con l’elaborazione sul neocapitalismo degli anni ’60 e quella successiva. E tanto è vero che la generalità degli eredi del Pci rimase estranea ai tentativi di programmazione – straordinari anche sotto il profilo dell’investimento culturale, se riguardati con la consapevolezza dei problemi e dei ritardi odierni – messi in atto con il primo centrosinistra e veicolati da Ugo La Malfa, Giolitti, Ruffolo, Lombardi. Da un altro lato, in termini di cultura politica generale, per gli eredi del Pci il persistente riferimento al “finalismo rivoluzionario” finiva con l’esentare da quella ricostruzione analitica accurata che la articolazione di un quadro autenticamente riformatore richiede, in particolare per quanto riguarda una “teoria dello Stato e delle istituzioni” di cui i comunisti – con le eccezioni di Ingrao e Tortorella – furono carenti (nell’inconscio operava il pregiudizio secondo cui “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”). Ciò non impediva il proseguimento della straordinaria opera riformista nelle regioni rosse, ma non era senza relazione con l’intreccio con quello che fu definito il consociativismo (un consociativismo che per lungo tempo ha reso possibile la coesistenza del “finalismo rivoluzionario” sul piano teorico e di pratiche compromissorie sul piano fattuale). Così anche l’agitazione della “questione morale” da parte di Enrico Berlinguer non fu ben fondata ed ebbe scarsa presa. E così l’ondata neoliberista che arrivò anche in Italia dalla metà degli anni ’80 – e che oggi si combina in modo spurio con i populismi – non trovò molti argini lungo il proprio cammino nemmeno nel Pci, i cui eredi affrontarono inermi le flessibilizzazioni del mercato del lavoro, la “riduzione del perimetro pubblico”, le liberalizzazioni e le privatizzazioni.
Il secondo problema da non eludere riguarda una valutazione delle esperienze di governo del centro-sinistra degli ultimi venti anni, quelli segnati dall’adesione, a volte convinta a volte inerziale, alle Terze Vie e al blairismo. Sulle esperienze governative di centro-sinistra sono ben lungi dall’esprimere un giudizio negativo uniforme. Al contrario, ritengo che il modello dell’Ulivo contenga germi sempre vivi e che il primo governo Prodi del 1996-1998 sia stato uno dei migliori della Repubblica e, a dirla tutta, riconosco più di un merito anche al secondo governo Prodi del 2006-2008, quello di cui si sono sottolineati molto gli eccessi di “litigiosità” e poco i semi che gettava, inclusi gli anticorpi rispetto all’ondata populista e sovranista incipiente, oggi conclamata con la Lega di Salvini ma innescata e coltivata da Berlusconi. La fragilità maggiore dei governi di centro-sinistra si è manifestata, secondo me, con le privatizzazioni, delle quali, però, va ricordato che furono negoziate per compiere un drammatico risanamento agendo prevalentemente sulla spesa per interessi (ridotta dal 12% del Pil al 5% dal 1996 al 1998) e evitando il ricorso a feroci tagli alla spesa sociale. Almeno negli intenti di Prodi – che da presidente dell’IRI ne aveva tentato la salvezza – e di Ciampi che, nel suo tenace spirito “azionista”, all’indomani dell’accettazione dell’Italia nel novero dei paesi fondatori dell’Euro nell’agosto del 1997, lanciò la “Nuova programmazione”. Un’idea lasciata cadere, o addirittura dileggiata, da tanti, compresi esponenti della sinistra originata dal vecchio Pci (nel frattempo arrivata alla premiership e alle prese, fra l’altro, con la privatizzazione di Telecom) che traeva dalla propria antica avversione al “capitalismo monopolistico di Stato” – alimentata da anni di nefasta teorizzazione della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, esplicitamente indicate, e auspicate[6], come metodi di “amministrativizzazione” mediante “depoliticizzazione” – la mancata considerazione del ruolo strategicamente “innovatore” che può svolgere lo Stato.
Dovendo avviarmi verso la fine di questo mio contributo dedicherò solo pochi cenni alla parte che andrebbe, invece, maggiormente sviluppata, quella relativa alla strada da intraprendere per il futuro. Ritengo assai fertile sia l’attenzione che Felice e Provenzano dedicano alle problematiche del “lavoro”, sia la loro volontà di motivarla addirittura filosoficamente. Il richiamo a Locke conta molto di più per il riferimento a una tematizzazione del “lavoro” comune ai grandi “classici” fondatori dell’economia – enfatizzata da Marx – che non come legittimazione della priorità della “proprietà” come fattore di libertà, contestata allora e tanto più oggi dai socialisti ma anche da vari liberali: in fondo il welfare state è una forma – polanyiana! – di depatrimonializzazione e di demercatizzazione della cittadinanza e Posner tratta la proprietà in quanto tale come un “monopolio”, mentre Katharina Pistor elabora una visione ancora più radicale perché considera i mercati intrinsecamente “costruiti” dalla norma e dalla legge in modo da creare altissime diseguaglianze[7]. È dunque estremamente significativo che nel bagaglio concettual-filosofico di Felice e Provenzano rientrino grandi personaggi come Jefferson, Genovesi, John Stuart Mill, Beveridge, Keynes. Dopo anni di “invisibilità” sulla scena politica del “lavoro” non possiamo lasciare che solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” e che grida “non reddito ma lavoro per tutti” – mostrino una persistente forte sensibilità al binomio lavoro/persona, tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’“essere” del lavoratore. Senza la crucialità del “lavoro” anche la pur encomiabile riscoperta della questione dell’eguaglianza/diseguaglianza – a lungo caduta nel dimenticatoio – rischia di trasformarsi in una nuova retorica inconcludente, incapace di vera presa sui processi reali, spesso precipitante nella sola rivendicazione di trasferimenti monetari, quale il reddito di cittadinanza, in realtà deresponsabilizzante l’operatore pubblico. La dinamica delle diseguaglianza, infatti, subisce sia gli effetti della crisi sia le implicazioni della evoluzione tecnologica in corso, manifestando sempre più la sua natura di fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva, ma primariamente la sfera produttiva, l’allocazione, le strutture in cui si articolano i vari modelli di sviluppo[8]. Il problema vero consiste nell’identificare una chiave di lettura che non riproduca la dicotomia struttura/sovrastruttura e, anzi, congiunga componenti “economiche” (in grado di riflettere il disagio materiale), componenti “culturali” (di reattività verso i cambiamenti nei costumi e negli stili di vita), componenti “valoriali” e “morali”[9], queste ultime giudicate da Michael Sandel le più importanti, perché mettono in gioco la social esteem, spesso ferita e tradita, non a caso a base del socialismo “etico” di Honneth.
L’esempio più eclatante delle conseguenze che può avere la progressiva riduzione dell’attenzione all’intreccio “strutture-valori” è dato dall’abbandono dell’obiettivo della “piena e buona occupazione” avvenuto da decenni, proprio da quando il trentennio neoliberista ha soppiantato il compromesso keynesiano del secondo dopoguerra. In Italia, dopo la drammatica crisi del 2007/2008, la sola Cgil ha lanciato, fin dal 2013, un Piano per il lavoro e per gli investimenti pubblici[10], il quale peraltro ha costituito da allora ad oggi l’unica vera proposta di politica economica alternativa a quella delle destre (non potendosi considerare tale la reiterazione della riduzione del “cuneo fiscale”!). La mia convinzione è che la sinistra debba riscoprire la “piena e buona occupazione”, non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – potremmo dire la sua “rivoluzionarietà” – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society, rassegnarsi alla quale, però, equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe.
Le forze che compongono la sinistra – cattolicodemocratiche, laiche, liberali, socialiste, di origine comunista – avrebbero oggi uno splendido terreno comune da arare: visualizzare una sorta di “contromovimento” polanyiano, di autodifesa della società dalla distruttività dell’economia capitalistica, e di rilancio della speranza, gravitante sul lavoro, sull’ambiente e sull’innovazione, analogo a quello a cui diede vita il New Deal, la cui anima trasformativa fu enorme proprio sul piano della congiunzione strutture/valori/progetti. L’assumere drammatici problemi morali, quali la sofferenza umana, in quanto tout court problemi politici era proprio della tradizione politica anglosassone liberaldemocratica e laborista, la quale interpretava gli eventi sociali nei termini di suffering situations, cioè terreni di contesa innanzitutto morale tra vittime, oppressori, riformatori. Ciò che rende unico il New Deal è che tale assunzione venne riprodotta al fine di ridisegnare radicalmente la “forma di vita” dominante, sottraendo gli individui alla passività e all’apatia con la mobilitazione per il lavoro mediante i Job Corps, permeati dello slancio verso i valori e verso la moralità politica.
[1] Si veda L. Pennacchi, Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015.
[2] Val la pena ricordare che la teoria di J. Rawls è volta alla costruzione di una giustizia come attributo collettivo di “istituzioni giuste” e che quella “intercomunicativa” di Habermas – a cui si ispira un’importante scuola italiana di “Teoria critica” animata da Cortella, Calloni, Ferrara, Petrucciani, Priviterra, Pulcini – è per definizione intersoggettivamente fondata.
[3] T. Piketty, Le capital au XXI siècle, Seuil, Paris 2013.
[4] A. B. Atkinson, Inequality. What can be done?, Harvard University Press, Cambridge Mass.-London 2015.
[5] Questa visione era propria anche di Claudio Napoleoni (influente su Enrico Berlinguer), che pure nel primo dopoguerra, nel prodigarsi per la ricostruzione, aveva collaborato con personaggi “interventisti” come Pasquale Saraceno e promosso la scuola pubblicistica di specializzazione in economia della Svimez. Tracce di una impostazione in forte favore della concorrenza e del “consumatore collettivo” e della domanda, e a sfavore di una “programmazione dell’offerta”, si ritrovano in Afferrare Proteo, un numero del 1979 de “La Rivista Trimestrale”, promossa da Napoleoni stesso e dai cosiddetti “cattocomunisti” di Franco Rodano.
[6] Si veda S. Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, Roma-Bari 2002.
[7]Si vedano E. A. Posner, E. Glen Weyl, Radical Markets. Uprooting Capitalism and Democracy For A Just society, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2018 e K. Pistor, The Code of Capital. How the Law Creates Wealth and Inequality, Princeton University Press, Princeton 2019. Si confronti anche U. Pagano, Intervento pubblico e privatizzazione della conoscenza, dossier su “Nuove forme di intervento pubblico” introdotto da L. Pennacchi in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 3/2016.
[8] Sono queste, peraltro, le ragioni che mi inducono a ritenere inefficaci per contrastare i meccanismi innovativi profondi alla base dell’acuirsi odierno delle diseguaglianze, così come delle tensioni occupazionali e dell’elevata disoccupazione, semplici misure di trasferimento monetario, quale è il reddito di cittadinanza.
[9] Si veda L. Pennacchi, De valoribus disputandum est. Sui valori dopo il neoliberismo, Mimesis, Milano-Udine 2018.
[10] Si vedano L. Pennacchi (a cura di) Tra crisi e grande trasformazione, Libro Bianco di accompagnamento al Piano del Lavoro del 2013, Ediesse, Roma 2013 e L. Pennacchi, R. Sanna (a cura di), Lavoro e innovazione per riformare il capitalismo, Ediesse, Roma 2018.