Recensione a: Marco Omizzolo, Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2019, pp. 177, 19 euro (scheda libro)
Scritto da Gabriele Palomba
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In un torrido giorno di agosto Marco, un ricercatore in sociologia, aiuta Samir, un giovane sikh che lavora nei campi dell’Agro Pontino, a rialzarsi dopo una caduta in bici. La mano di Marco ne incontra una ruvida e callosa e il suo sguardo ne incontra uno sfuggente e impaurito. Questo episodio apparentemente banale segna invece l’inizio di una storia straordinaria, lunga più di dieci anni, fatta di sofferenza, fatica, dolore, ma anche di storici successi.
Letta così, questa potrebbe sembrare la sinossi di un romanzo. Molti fatti contenuti in Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana (pubblicato da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nel 2019) sembrano appartenere più ai grandi romanzi storici dell’Ottocento o ai film sulla schiavitù nei campi di cotone americani che alla realtà. E invece gli episodi di sfruttamento e traffico di esseri umani, di sfacciata violazione dei diritti civili, sociali ed umani documentati e riportati da Marco Omizzolo, autore di questo eccezionale lavoro, appartengono drammaticamente alla realtà dell’Italia del ventunesimo secolo. Un lavoro che è di ricerca sociologica, di inchiesta antimafia e di battaglia sociale allo stesso tempo.
«Molti, pensando a una celebre scena del film I cento passi di Marco Tullio Giordana, sostengono che la bellezza sia in grado di sconfiggere le mafie. Io non lo credo. […] Non sempre la bellezza partorisce bellezza. È l’uomo consapevole e libero a sconfiggere l’inferno delle agromafie, e lo fa solo se si unisce e lotta con altri uomini e donne con una consapevolezza rinnovata. Non basta far dipingere le pareti dell’inferno da Picasso, per renderlo abitabile. È necessario conoscerlo e rovesciarlo».
È questo il presupposto da cui Omizzolo comincia il suo lavoro di ricerca, il cui oggetto è inizialmente il flusso migratorio di indiani sikh nel territorio dell’Agro Pontino, cui l’autore appartiene. Da questo spunto iniziale la ricerca si allarga progressivamente, arrivando a comprendere il fenomeno delle “agromafie”, quello del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori nelle campagne della provincia di Latina, fino ad arrivare alle pratiche abiette del “doping” che molti braccianti sikh sono costretti ad assumere per riuscire a sopportare i ritmi di lavoro massacranti e le condizioni di vita degradanti, spesso fornito loro dagli stessi sfruttatori, e dell’utilizzo di materiali chimici illegali e dannosi per la salute tanto dei lavoratori quanto dei consumatori. Questa ricerca come già detto si è intrecciata col lavoro di inchiesta, valido fino al punto che è anche grazie ad Omizzolo se molti di questi fenomeni sono diventati noti alle cronache e all’opinione pubblica nazionale, e con l’attivismo politico e sociale.
Ma è bene anzitutto soffermarsi sul metodo scelto da Omizzolo per il suo progetto. Un metodo che si avvale principalmente di esperienze di osservazione e di ricerca “sul campo”, di cui l’azione sociale è parte integrante e sbocco naturale. L’espressione “sul campo” è da intendersi anche in senso strettamente letterale. Infatti, per un periodo di tre mesi l’autore si è “infiltrato” fra i braccianti sikh al fine di osservare da il più vicino possibile le pratiche di sfruttamento, le violazioni dei diritti e della legge e le umiliazioni fisiche imposte dal sistema agromafioso. Un sistema che, peraltro, si avvale della collaborazione di una parte importante della società civile (in particolare di professionisti che coadiuvano l’imprenditoria criminale) e, ovviamente, della connivenza, della complicità e della copertura della politica e delle istituzioni. Omizzolo ha quindi vissuto un periodo di immersione totale nel suo oggetto di studio, arrivando a sottoporre il suo corpo alla dura prova del lavoro agricolo sotto caporale. Un sacrificio che gli ha però consentito di stringere un forte legame di fiducia reciproca con la comunità sikh del territorio e di conoscerla a fondo.
Proprio questo legame e questa conoscenza gli hanno consentito di muovere il passo più importante del suo progetto, quello dell’azione e della rottura di questi equilibri perversi. Infatti, mentre approfondiva la sua ricerca ascoltando le storie di sfruttamento denunciate dai membri della comunità sikh (e non solo), Omizzolo informava questi ultimi dei loro diritti e delle leggi a cui potevano appellarsi. Man mano che questo lavoro a doppio filo procedeva, i lavoratori prendevano coscienza della loro situazione e agivano di conseguenza. Prima è stata la volta delle singole persone, che hanno iniziato a sporgere denunce e a rivendicare ciò che era loro diritto spontaneamente (aspetto che l’autore tiene a sottolineare, visto che per scelta non ha mai fatto pressione sui lavoratori perché denunciassero, al contrario ha sempre fatto loro presente come fosse una libera scelta, non senza rischi). Fra questi c’è Mahli, alla cui storia è dedicata un’ampia parte del capitolo in cui Omizzolo racconta della sua esperienza in incognito. Tristemente, pur essendo stato fra i primi a sporgere denuncia, Mahli non è ancora riuscito a trovare giustizia.
Successivamente, a seguire l’esempio dei singoli è stata l’intera comunità. Grazie al lavoro della cooperativa In Migrazione, che ha dato vita a un progetto di mutualismo imperniato sul territorio pontino e sui lavoratori agricoli, offrendo loro corsi di formazione, servizi professionali e supporto, la comunità sikh ha iniziato ad auto-organizzarsi, passando progressivamente dall’azione individuale a quella collettiva. Il primo passaggio di questo processo è stata la messa in discussione dell’autoproclamato leader della comunità, corrotto, violento e colluso con gli sfruttatori, da parte della comunità stessa. Al suo posto, la comunità ha scelto Gurmukh Singh, un uomo di tutt’altra etica e determinazione, che oggi è Presidente della Comunità indiana del Lazio. Il processo è poi proseguito con una serie di presidii e di occupazioni, fino a culminare nello sciopero dell’aprile 2016 organizzato dalla FLAI-CGIL, senza precedenti per dimensioni ed impatto. Uno sciopero che ha finalmente “messo sulla cartina” dell’opinione pubblica nazionale la questione del caporalato e delle agromafie nella pianura pontina. Ma che ha avuto ovviamente anche conseguenze in termini di minacce e ritorsioni, che hanno comportato per molti, Omizzolo incluso, ulteriori sacrifici. A questo sciopero hanno fatto seguito una nuova manifestazione sindacale ad ottobre 2019 – da notare il fatto che in questa occasione si è trattata di una manifestazione unitaria di CGIL, CISL e UIL, a testimonianza della forza trascinante di questo processo – e numerose inchieste giornalistiche di stampo nazionale (L’Espresso, Avvenire, Il Manifesto) ed internazionale (BBC in primis).
Sta senza dubbio qui il merito principale di questo lavoro: aver contribuito all’empowerment e alla sindacalizzazione oltre che di una comunità straniera, di un’intera categoria di lavoratori, fra le più fragili e sfruttate, di cui – va ricordato assolutamente – fanno parte non solo indiani, ma anche persone di altra nazionalità, est-europei, africani e ovviamente anche tanti italiani. Ed è un lavoro di una importanza enorme e fondamentale. Per l’integrazione di questi cittadini stranieri e il riconoscimento dei diritti di questi lavoratori, ma soprattutto per il Paese intero, per la sua società e per la sua economia. Infatti, da questi «ultimi fra gli ultimi», può e deve partire una reazione all’impoverimento e alla dequalificazione del lavoro, ad un modello economico basato sulla compressione salariale. Non di minore importanza, inoltre, è il fatto che la lotta e il contrasto al caporalato e alle agromafie favorisce le imprese sane, la cui presenza numerosa Omizzolo non manca di ricordare, eliminando la concorrenza scorretta e malata.
Altro merito di Omizzolo è la lucidità con cui ha saputo da subito riconoscere la multidimensionalità, o intersezionalità, della questione bracciantile. Una questione che va ben oltre il solo tema del lavoro, abbracciando appunto i temi del contrasto alle mafie, delle migrazioni, dell’ambiente e della salute. Una questione che si intreccia anche con quella femminile: un intero capitolo è dedicato alle donne, doppiamente sfruttate dal sistema agromafioso, in quanto lavoratrici e in quanto spesso ridotte ad oggetto sessuale dagli stessi padroni. Una questione che, citando le parole di Omizzolo, è endemica al sistema in cui viviamo: «Le agromafie, come tutti i fenomeni sociali, sono resilienti, ed essendo interne al sistema capitalistico mondiale possono essere definitivamente sconfitte solo dalla trasformazione del capitalismo stesso, la cui direzione dipende dal concorso di vari fattori, compresa l’evoluzione tecnologica, del welfare, della distribuzione, del plusvalore, della conoscenza ambientale e lavorativa (compresa quella sindacale) e molto altro».
Come si diceva in apertura, ai sacrifici e alle sofferenze sono corrisposti diversi successi storici. Oltre al già citato sciopero dell’aprile 2016, va menzionata senza dubbio la promulgazione della legge 199/2016 o “legge sul caporalato”, nella cui stesura Marco Omizzolo è stato coinvolto diverse volte. Fra le diverse previsioni, la più importante è quella che riconosce la responsabilità del datore di lavoro, del padrone, in solido a quella dell’intermediario, o caporale, nello sfruttamento della manodopera agricola. Inoltre, nel gennaio 2019, Marco Omizzolo è stato nominato dal Presidente della Repubblica Cavaliere dell’Ordine al Merito, con la seguente motivazione: «Sociologo, legale rappresentante dell’associazione di promozione sociale Tempi moderni e consigliere della cooperativa sociale In Migrazione che svolge servizi di mediazione culturale e assistenza ai migranti. Ha più volte denunciato, anche con dettagliati dossier, il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento degli stranieri nei campi. Segue da anni il fenomeno dei braccianti nell’Agro Pontino: ha descritto la rete dei caporali, raccontato le condizioni di vita, i problemi di salute e lo stato delle abitazioni di questi lavoratori. Da quando ha cominciato ad impegnarsi sulla questione, riceve avvertimenti e minacce di morte». Si tratta di un riconoscimento importante, a giudizio di chi scrive, non solo perché rende il giusto merito alla persona in questione, ma perché è il segnale che le istituzioni sono ancora e nonostante tutto in grado – appunto – di riconoscere e sostenere le azioni, individuali e collettive allo stesso tempo, volte a rimuovere quegli ostacoli alla libertà e all’eguaglianza citati nell’Articolo 3 della nostra Costituzione. Un riconoscimento che va quindi non solo a Marco, ma idealmente anche a Bhupal, Gopal, Ajit, Madanjeet, Harbhajan, Gurmukh e alle tante e ai tanti che nel corso della storia del nostro Paese hanno lottato per rimuovere questi ostacoli.
Concludiamo dicendo che il metodo di lavoro utilizzato in Sotto padrone dovrebbe essere preso a riferimento da chiunque voglia cambiare la società attuale nella direzione della giustizia sociale, dell’eguaglianza e della libertà. Un cambiamento che, per citare un’ultima volta l’autore, non può che essere politico: «Credo nella politica quale luogo pubblico di partecipazione, confronto, lotta e impegno per risolvere i problemi della gente. E se proprio devo partire dalla gente, dal popolo, io scelgo gli ultimi tra gli ultimi. Non è carità, pietismo o buonismo. È una scelta politica. Scelgo gli sfruttati, perché sanno, a volte, fare quelle rivoluzioni uniche ed eroiche che insegnano agli altri, dai penultimi fino ai primi della classe, che il cambiamento possibile parte dalla nostra capacità di metterci in gioco, di unirci, di assumerci il rischio in prima persona, di sovvertire l’ordine costituito, soprattutto quando è ingiusto, responsabile della morte di milioni di persone, della povertà e della distruzione ambientale».