Recensione a: Federico Donelli, Sovranismo islamico. Erdoğan e il ritorno della Grande Turchia, prefazione di Alessandro Campi, Luiss University Press, Roma 2019, pp. 180, 17 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Mariotti
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Comprendere la Turchia del XXI secolo significa oggi più che mai capire la figura di Recep Tayyp Erdoğan, leader carismatico che ormai da venti anni guida il Paese ed è al centro della vita, non solo politica, turca. Non tanto per il suo imporsi più recente come figura autocratica con tendenze ad accentrare il potere decisionale nelle proprie mani, quanto perché sotto la sua guida la Turchia ha conosciuto e sta conoscendo una profonda trasformazione del proprio tessuto sociale e identitario. Trasformazione di tale portata da richiamare subito alla mente quella improntata dal fondatore stesso della Turchia repubblicana – Mustafa Kemal “Atatürk” – e i cui effetti, visibili già oggi, si ripercuoteranno per molti anni anche dopo l’uscita di scena del nuovo leader turco.
La letteratura sulla Turchia moderna a guida AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi – Partito della Giustizia e dello Sviluppo), così come quella incentrata sulla figura di Erdoğan, non è certo scarna; e tuttavia tende a grande maggioranza a presentare la “nuova Turchia” – quella erdoğaniana – in completa antitesi a quella strutturatasi nel corso del Novecento sulla base dei principi kemalisti. Questa visione, per certi versi inoppugnabile benché semplicistica, rischia di tralasciare aspetti importanti di continuità del sistema politico, della società e dei metodi di governo del Paese anatolico. Ne è consapevole Federico Donelli – docente di History and Politics of the Middle East all’Università di Genova e di Comparative Foreign Politics alla Şehir University di Istanbul – che con il suo ultimo libro Sovranismo Islamico. Erdoğan e il ritorno della Grande Turchia, prova (e riesce) a raccontare lo stretto legame che si è instaurato in tre decenni tra il “nuovo” leader e il popolo turco. E lo fa inserendo l’ascesa, il consolidamento e la perpetuazione al potere di Erdoğan all’interno di dinamiche reiteratesi e ben collaudate della struttura del sistema politico e sociale del Paese; senza tuttavia trascurare gli evidenti momenti ed elementi di rottura, tanto delle stesse dinamiche del Paese quanto della vita personale – privata e pubblica – dell’uomo Erdoğan.
Invece di rimarcare la contrapposizione sempre più in voga nella pubblicistica e nella vulgata generale tra una Turchia secolare, occidentale e liberale – kemalista – ed una islamica, conservatrice ed autoritaria – post-kemalista – Donelli cerca di porre l’attenzione del lettore sui pilastri del sistema turco, riscontrabili allora come oggi. Ciò che fa da cornice ed attraversa i quasi cento anni di vita del Paese è appunto «un ordine illiberale di sottofondo, caratterizzato da statalismo, nazionalismo, conservatorismo religioso e protezione di potenti interessi economici» (p. 18).
L’autore riesce ad evidenziare questo elemento ripercorrendo la storia della Repubblica di Turchia in poche ma esaustive pagine, richiamando alla luce i momenti ed i caratteri salienti di un sistema-paese che ha conosciuto una costante oscillazione tra un sistema democratico illiberale ed uno autoritario, al punto da far avanzare dallo stesso la categoria di «autoritarismo camaleontico». In questo particolare meccanismo di riproduzione dell’autoritarismo proprio della Turchia «le strutture rimangono pressoché inalterate mentre a mutare è il carattere identitario» (p. 161).
Se è infatti indubbio l’apporto e l’impatto che l’attuale presidente ha avuto in ogni aspetto della vita del Paese, per capire al meglio il come e il perché vi sia riuscito è necessario comprendere tanto la sua storia personale quanto il contesto in cui il suo successo ha potuto aver luogo. La fase di trasformazione che sta sperimentando la Turchia da alcuni anni è secondo Donelli una «vera e propria riconfigurazione non tanto del regime politico, quanto della concezione che i turchi hanno del proprio Paese e della loro visione del mondo circostante» (p. 17).
Erdoğan dunque, nella visione dell’autore, è riuscito a incidere così a fondo nell’immaginario collettivo del Paese – così come fece Mustafa Kemal – sì grazie alle indiscutibili doti di leader carismatico, ma anche e soprattutto per via di un contesto politico-sociale che ha storicamente favorito l’affermarsi e il radicarsi al potere di una personalità forte, capace di raccogliere consenso in una società alla ricerca di una rinascita e di una affermazione del proprio ruolo nel mondo.
All’interno di questo contesto vanno dunque inserite le figure di Recep Erdoğan e Mustafa Kemal, che con spirito di leadership, e potendo vantare di larghi consensi grazie a successi pregressi (militari o economici che siano), sono riuscite ad innestare e/o assecondare nuove aspirazioni, credenze e devozioni nelle coscienze e nell’immaginario del proprio popolo. Un percorso, quello avviato da Erdoğan, di «rivoluzione culturale che ha saputo alimentare una contro-egemonia in grado di scalfire il paradigma dominante kemalista» (p. 162); ma che non avrebbe potuto reggersi senza la stabilità politica e le performance economiche che hanno assicurato un miglioramento delle condizioni di vita del suo popolo.
Attraverso una narrazione scorrevole, asciutta ma esaustiva, Federico Donelli riesce a narrare la lunga parabola dell’uomo Erdoğan, a partire dall’ambiente familiare in cui è cresciuto, con un costante richiamo a fatti ed elementi – materiali e psicologici – che ne hanno determinato tanto il carattere quanto le paure ed i timori più reconditi, andando in questo modo ad incidere sulla sua visione e impostazione politica. D’altronde è lo stesso autore ad indicare la convinzione sottostante l’obiettivo del libro: «solamente conoscendo meglio la personalità di Erdoğan è possibile capire il percorso intrapreso da un Paese sempre più immagine riflessa del suo leader» (p. 19). Ne emerge la storia di un giovane cresciuto in un umile ambiente di periferia e del suo percorso politico, attraverso numerosi momenti di crisi, verso il potere assoluto. Ma soprattutto quegli stessi momenti di crisi, affrontati a volte con spregiudicatezza altre con pragmatismo e cautela, ma sempre con una profonda conoscenza del contesto in cui si muoveva, gli sono risultati congeniali per rinsaldare i consensi e riaffermarsi ogni volta in posizione di maggior forza («i leader carismatici dipendono dall’emergere di una crisi perché è solamente in mezzo alle difficoltà che la fede nei leader si distingue, legittimando il loro dominio carismatico»; p. 82). Allo stesso tempo il forte carattere e i successi nell’identificarsi come capo popolo con il tempo hanno aumentato in Erdoğan la considerazione di sé sino a scaturire in percezione di onnipotenza e, dall’altra parte, ne hanno alimentato il carattere paranoico e la diffidenza nei confronti dell’altro.
Accompagnando il lettore in un viaggio narrativo su due piani, quello dell’Erdoğan uomo e quello dell’Erdoğan politico, Donelli riesce a ben descrivere il legame che il nuovo leader turco è riuscito a costruire con il proprio popolo, aiutando così a comprendere al meglio le dinamiche di un Paese che appare oggi su binari opposti rispetto alle attese occidentali di un decennio e poco più addietro.
Forse uno dei maggiori pregi del libro è quello di illustrare con chiarezza la fitta rete di relazioni e dinamiche di potere – dai legami con le peculiari confraternite religiose turche al complesso militare-industriale, passando per il ruolo della magistratura – con cui Erdoğan, non senza una buona dose di abilità e astuzia è riuscito fin dalla sua esperienza da sindaco di Istanbul a districarsi e arrivare al potere centrale. Nel far questo, da una parte ha sfidato l’ordine costituito, dall’altra ne ha riprodotto le dinamiche per consolidare il potere a suo vantaggio, potendo sfruttare proprio le imperfezioni di quel sistema democratico illiberale – in particolari momenti di rottura e/o congiuntura favorevoli, comunque sapientemente affrontati (2007; 2011; 2013; 2016) – dando vita ad una nuova ibridazione, maggiormente autoritaria, centrata sulla propria figura, ma pur sempre ascrivibile a quella categoria di “autoritarismo competitivo” che ha caratterizzato la storia turca.
Il Paese che conosciamo oggi è quindi una nuova Turchia, con elementi indiscutibilmente innovativi sul piano ideologico-culturale che si manifestano apertamente anche nelle più alte sfere della politica, ma è una Turchia che ripropone dinamiche di potere già conosciute. La nuova componente ideologica che il leader turco è riuscito ad assecondare ed incarnare «trova piena espressione in una relazione speciale con le masse» (p. 161). La narrativa erdoğaniana, da sempre caratterizzata da elementi populisti – in particolare l’idea cui secondo cui la maggioranza costituisce l’unico attore politico deputato non solamente a esprimere la direzione del Paese, ma anche ad avere conoscenza dell’interesse e del bene della nazione – ha assunto sempre più i toni di un «sovranismo islamico» anche in risposta a mutamenti nel contesto interno ed internazionale. Se infatti è vero che «in Medio Oriente più di altrove la politica estera è finalizzata sì all’acquisizione di influenza regionale, ma soprattutto ad assicurare la sopravvivenza ed il rafforzamento del regime interno» (p. 100), è chiaro come l’afflato neo-ottomano di cui è intriso l’erdoğanismo più recente non vada ricondotto unicamente ad un piano precostituito di politica estera. Così come durante i primi mandati al potere «lo sguardo verso l’Europa ha manifestato gli interessi, più che i sentimenti, di due settori-chiave del proprio elettorato, ovvero la classe media musulmana e l’imprenditoria turca» (p. 79), allo stesso modo la nuova impronta più assertiva e di maggior influenza regionale è volta ad alimentare e soddisfare quegli stessi appetiti da lui risvegliati nel popolo. In particolare quelli delle sue nuove constituency elettorali, spostatesi decisamente verso un nazionalismo identitario e conservatore, sempre più dipendente e compattato attorno alla figura del proprio condottiero; tanto da far sì che «essi oggi sentono di non poter fare a meno di lui per non sentirsi smarriti» (p. 124).
Il libro, per concludere, conciliando una narrazione storico-descrittiva ad una ricostruzione biografico-psicologica riesce nell’intento di illustrare la storia di un Paese e del suo sistema politico mettendo in evidenza tanto i caratteri di continuità tra l’esperienza kemalista e quella odierna quanto i profondi mutamenti sociali, in parte cavalcati ed in parte determinati dal nuovo leader. Attraverso questo approccio risulta più facile per il lettore comprendere la Turchia erdoğaniana, senza incappare nell’errore di considerare la recente svolta autoritaria come una “deviazione dal corso naturale” riconducibile alla sete di potere di un singolo leader. Tutt’altro che progetto predeterminato, l’erdoğanismo ha assunto sempre più i contorni di un «sovranismo islamico» caratterizzato da un «mix tra la tradizione autocratica kemalista, le strutture di potere tipiche dei regimi mediorientali e l’utilizzo dell’elemento religioso come timbro politico identitario e importante collante sociale» (p. 15).
Rimane aperto un interrogativo: se infatti la trasformazione che sta conoscendo la Turchia è talmente profonda che i suoi effetti permarranno anche all’uscita di scena dell’attuale presidente, difficilmente si può dire la stessa cosa dell’erdoğanismo, impianto ideologico che difficilmente sarà in grado di sopravvivere al suo demiurgo, vista la caratterizzazione fortemente personalistica e la centralità della sua figura nell’elaborazione e modellazione di questo. Che sviluppi conoscerà il Paese in una prospettiva di medio termine? Per quanto importante e simbolica la sconfitta dell’AKP alle amministrative del giugno scorso – la prima in 17 anni – appare prematuro pronosticare la fine della parabola erdoğaniana considerati gli ancora ampi consensi a livello nazionale e la forte presa sugli apparati di potere. E tuttavia, in una società sempre più polarizzata tra ferventi sostenitori e preoccupati oppositori, i partiti politici dovrebbero iniziare a pensare una strategia di medio-lungo termine per la Turchia del dopo Erdoğan. Venuta meno la sua figura polarizzante «è plausibile che, come più volte avvenuto nella storia della Turchia repubblicana, a un periodo di rigido autoritarismo segua una fase di ammorbidimento e maggiore apertura» (p. 169). Ciò non significherà un ritorno alla Turchia kemalista, ma piuttosto una nuova fase in cui plausibilmente si assisterà ad una riproposizione in qualche nuova forma delle strutture tipiche dell’autoritarismo turco (appunto, camaleontico). Ma sarà anche una (nuova) finestra di possibilità affinché quelle strutture vengano scalfite.
Donelli comunque, nello scrivere il saggio, non si propone certo di pronosticare il futuro del Paese ma piuttosto di spiegare il “fenomeno Erdoğan” all’interno di un sistema politico e di una società, quella turca, che è stata spesso “vittima” di interpretazioni fuorvianti e semplificative. Se, nelle parole dell’autore, l’obiettivo era quello di far luce sulla «leadership e il carisma di Erdoğan, e sul cosa spinga i suoi supporter a riempire le piazze, e in casi estremi a morire per lui e il suo ideale» (p. 20), il libro in questione si rivela un utilissimo strumento, riuscendo nell’intento.