Scritto da Tancredi Bendicenti
11 minuti di lettura
La crescita dell’importanza rivestita da soggetti privati, come le grandi piattaforme tecnologiche, in ambiti cruciali per la tutela dei diritti delle persone, solleva nuove questioni e sfide, sul piano della regolazione ma ancora prima su quello della riflessione teorica. Su questi nodi si sofferma in questa intervista Antonio Punzi, Professore ordinario di metodologia della scienza giuridica e media law e Head del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università LUISS “Guido Carli” di Roma.
L’evoluzione del rapporto tra la libertà di iniziativa economica e l’insieme delle libertà individuali è una delle grandi questioni del nostro tempo. Ci si chiede, infatti, come il binomio classico della cultura anglosassone “liberty and property”, che ha contribuito in misura considerevole all’essenza e alla dinamicità del progresso occidentale, si sia trasformato e adattato ai grandi cambiamenti che hanno segnato la fine del Ventesimo e l’inizio del Ventunesimo secolo. Di particolare rilevanza sono soprattutto, a tal proposito, le esperienze di nazioni come la Cina, caratterizzate da un rifiuto sistematico delle conquiste del liberalismo moderno, ma nelle quali, nonostante vi siano ancora forti ingerenze statali, si è assistito ad un progressivo e significativo sviluppo del settore privato dell’economia.
Antonio Punzi: Il tema è interessante anzitutto perché, come lei stava dicendo, ci richiama alle radici della nostra tradizione culturale, istituzionale e sociale, e ci consente perciò anche di fare un bilancio, che è certamente un bilancio positivo, nella misura in cui la libertà di iniziativa economica e le libertà individuali sono andate, nella nostra storia, di pari passo e si sono vicendevolmente coordinate in un rapporto di determinazione reciproca. Da una parte, le libertà individuali hanno contribuito a mettere a fuoco il contenuto, e a tracciare i limiti della libertà di iniziativa economica, dall’altra la libertà di iniziativa economica ha aiutato a tenere le libertà individuali nella loro giusta dimensione e quindi a coniugare le libertà degli individui, delle associazioni, dei partiti, con le esigenze del funzionamento di un sistema economico che deve essere non soltanto libero, ma anche produttivo, per il benessere delle donne e degli uomini che ne fanno parte e ne usufruiscono. Questa, perciò, è la nostra tradizione. Personalmente, quando ho sentito parlare – prima da studente, poi da laureato – della dicotomia tra la libertà di iniziativa economica e le libertà e la dignità degli individui, ho sempre avuto qualche perplessità, per non dire un’avversione. A mio parere, infatti, se le due dimensioni vengono slegate, si cade o nell’individualismo egoistico o in una logica statalista di programmazione tanto dell’attività economica quanto delle libertà individuali, fondata su un modello precostituito di “buon cittadino” e comunque priva di ogni fiducia nello sviluppo dell’agire sociale. L’agire sociale dev’essere invece inteso come autenticamente libero, né sregolato né autoregolato, ma spontaneo e supportato dalle garanzie apprestate dal diritto. Peraltro, un modello nel quale le libertà individuali sono ridotte a mere pedine di uno scacchiere non può nemmeno garantire la piena e reale libertà di iniziativa economica, che i costituenti giustamente riconobbero coniugandola con l’utilità sociale, la sicurezza, libertà e dignità umane. L’iniziativa economica, d’altronde, è anzitutto il luogo del genio, dell’invenzione da parte delle donne e degli uomini, dunque non è soltanto riducibile all’attività di impresa che adotta strategie e soluzioni esclusivamente in vista dell’incremento degli utili. Dietro ogni impresa – che non a caso è un sostantivo declinabile anche in senso diverso da quello economico – c’è infatti un progetto, un’idea, l’intelligenza umana che immagina un mondo, un mercato, dei bisogni, anche decisioni economiche diverse da quelle fino a quel momento adottate. La dignità dell’uomo – penso a Vico e a tanti altri pensatori – si sviluppa anzitutto nella misura in cui ha la possibilità di esprimere questo suo genio. La genialità del progettare un’impresa, un’impresa che dà luogo a prodotti o servizi che prima non c’erano, che coinvolge donne e uomini come lavoratori, dando loro reddito e possibilità di sostentamento, e che poi si relaziona sul mercato, magari in una filiera, mettendosi in rete con altre imprese, è un luogo di ideazione dell’esperienza sociale. Anzitutto come esperienza produttiva, ma anche come esperienza etica. A mio parere, una libertà di iniziativa economica come questa, arricchita di un tale contenuto meta-economico, non può esistere slegata dalle libertà individuali delle donne e degli uomini. Certo, per immaginare donne e uomini liberi, dobbiamo imprescindibilmente pensarli in una condizione di ragionevole benessere, di dignità, di disponibilità di condizioni materiali che consentano loro di vivere una vita che possa dirsi felice. In questo senso alto va intesa la lezione dei Costituenti: che non si è limitata a stabilire una mediazione fra cattolici, liberali e social-comunisti, perché in essa ritroviamo una vera e propria filosofia della società, e dunque anche una filosofia dell’economia. Lei però mi chiede: qual è il futuro di questo binomio? Ci attende uno scenario molto interessante, uno scenario nel quale già in parte ci troviamo, nel quale gli strumenti di interazione tra l’impresa che produce, che immette sul mercato dei beni, e la platea di consumatori e utenti dei servizi sono completamente cambiati rispetto ai canali fisici a cui eravamo abituati. Oggi, nell’osservare l’attività dell’impresa, ne studiamo il sito, il modello di governance, lo statuto, siamo interessati a vedere se ci sono delle finalità sociali: formuliamo un giudizio. Facciamo delle scelte di acquisto a seconda dell’opinione che ci siamo formati: perciò, rispetto al mondo di ieri, la rivoluzione informatica prima, quella digitale poi, ha messo a disposizione gli strumenti perché il rapporto tra l’impresa e la società sia un’interazione ricca di contenuti e di valori. La libertà dell’uomo è anche libertà di una decisione economica consapevole, anche libertà di scelta di un prodotto o servizio in base a un giudizio su tanti fattori, tra i quali le condizioni in cui esercitano la propria attività i lavoratori: gli orari e l’ambiente di lavoro, la percezione puntuale dello stipendio, il regolare versamento dei contributi. Dietro a un prodotto, o a un servizio, le cui informazioni diventano oggi sempre più trasparenti, vediamo sempre più una storia, che è anche una storia di lavoro e di valori. Ed è proprio la trasparenza di questa storia – dalla sua ideazione alla traduzione di questa idea in un modello produttivo e organizzativo, fino alla quotidiana realizzazione in attività concrete – a far sì che la libertà dei moderni, che ha tantissimi pregi ma anche qualche limite, possa schiudersi alla responsabilità.
Potremmo dire, dunque, che la separazione tra libertà individuali e libertà di iniziativa economica sia sostanzialmente una distinzione falsa, nel limite in cui la libertà d’iniziativa economica già rientra, ontologicamente e logicamente, nell’alveo di quell’insieme di libertà fondamentali che determinano la possibilità dell’individuo di esprimersi pienamente all’interno della società?
Antonio Punzi: È falsa in quanto dicotomia. A dircelo sono i più grandi pensatori della libertà dei moderni: prendiamo John Locke, ad esempio, che non era soltanto un filosofo della libertà di iniziativa economica, ma anche un filosofo della tolleranza, della dignità umana, della libertà di religione, della libertà dell’individuo di scegliere il suo progetto di vita. La separazione tra queste due dimensioni della libertà, come abbiamo visto nel Novecento, porta a esiti concentrazionari, e, più essenzialmente, all’infelicità. Ciò che ci rimane impresso nella memoria di certi regimi statalisti, attraverso le esperienze tragiche dei lager, della persecuzione degli intellettuali dissidenti, dunque della violazione della dignità e della libertà, è anzitutto l’infelicità delle persone. L’uomo e la donna infelici non esprimono il proprio genio, e se non si esprime il genio non si esprime neanche la creatività imprenditoriale.
Abbiamo precedentemente accennato alla Cina, ovvero ad un sistema in cui il soggetto che tende alla compressione delle libertà fondamentali è lo Stato. Rivolgendo lo sguardo all’Occidente, però, la nascita dei colossi della Big Tech, proprietari di interi spazi virtuali – delle vere e proprie agorà – in cui si svolge una parte sempre più rilevante tanto della vita pubblica quanto di quella privata, fa senza dubbio sorgere dei problemi riguardo alla tutela e alla limitazione delle libertà individuali, soprattutto in merito a chi possa legittimamente esserne gestore e garante. Un esempio senza dubbio emblematico è riscontrabile nella disattivazione dell’account Twitter di Donald Trump in seguito all’attacco di Capitol Hill. Ferma restando la gravità delle condotte che hanno portato a tale sanzione, è, secondo lei, giuridicamente accettabile che sia una grande impresa, un soggetto dunque di puro diritto privato, come Twitter, a limitare de facto la possibilità dell’allora presidente degli Stati Uniti, di un rappresentante democraticamente eletto, di interfacciarsi con i suoi elettori e più ampiamente con i cittadini della nazione che governa? Chi può, cioè, decidere quali siano i confini della libertà di espressione? Se, anzi, vi sia effettivamente un limite ad essa filosoficamente concepibile? Applicando lo stesso ragionamento al nostro Paese, infine, come comportarsi rispetto alla circolazione di contenuti di estrema destra sulle piattaforme digitali, in relazione al reato di apologia di fascismo?
Antonio Punzi: Comincerei dalla prima parte della domanda: che libertà di espressione è quella di uno spazio nel quale la voce di qualcuno viene messa a tacere da un privato, e non da un’istituzione statale? È una domanda legittima, ma che va ricontestualizzata, perché la complessità ci mostra anzitutto la necessità di ripensare la separazione tra sfera pubblica e sfera privata, tra soggetti pubblici e soggetti privati. Non è facile, ma è un compito ineludibile. Lo dico in riferimento proprio al tema della libertà di espressione e della moderazione dei contenuti in rete: dobbiamo abituarci a ripensare le categorie tradizionali. Mi riferisco, come esempio virtuoso di questa opera di rielaborazione, alla scelta della Commissione europea. Nella messa a punto delle strategie di contrasto ai discorsi di odio, non ci si è limitati allo schema prescrittivo tradizionale legge-prescrizione-sanzione, non perché questo modello non sia ancora oggi utile, ma perché non è sufficiente e comunque non è efficace. Non ne faccio una questione filosofica, di preferenza di un modello di regolazione rispetto a un altro: un contenuto di odio, o anche un contenuto disinformante, producono effetti nocivi nell’arco di pochissimo tempo; perciò, la prima preoccupazione deve essere quella dell’efficacia dell’intervento di contrasto. Però la tensione all’efficacia non deve far dimenticare che questi processi trattano della libertà di espressione: noi giuristi dobbiamo insistere affinché venga sempre garantito un due process, dunque un assetto procedimentale che garantisca, per esempio, un adeguato contraddittorio, una tempestiva notifica al soggetto interessato dalla sanzione, un’adeguata motivazione del provvedimento restrittivo. Dal punto di vista filosofico, è emblematico che la Commissione abbia deciso di coinvolgere nel processo di regolazione gli stakeholder: è come se ci avesse invitati ad andare al di là della contrapposizione tra l’etero-regolazione e l’auto-regolazione. Il disegno dell’Unione è quello di coinvolgere le IT company nel processo di normazione, invitandole a sottoscrivere un codice di condotta, ad assumere degli impegni, acconsentendo a che facciano ingresso nelle “stanze segrete” dell’azienda controllori, valutatori del loro operato, e impegnandosi a rispettarne le decisioni. D’altra parte, il Digital Service Act, il DSA – e la stessa bozza di Regolamento europeo in materia di AI – cambiano lo scenario legislativo in modo molto importante e ci aiutano a pensare alla regolazione in termini nuovi. Si tratta di atti normativi che non vivono senza l’azione della singola company sul social network che controlla. D’altronde il modello classico prescrizione-sanzione è oggi in parte inefficace perché legato ad una scansione temporale che oggi non caratterizza più l’azione sociale. Ecco che siamo chiamati a ragionare in termini di “coregolazione” o di regolazione condivisa. Ora possiamo tornare alla domanda: che libertà di espressione è quella nella quale, se io mi esprimo, rischio di venire “bannato”? Per rispondere mi rifaccio in primis all’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: è composto di due paragrafi, il secondo dei quali parla di “responsabilità”. La libertà di espressione degli europei, sotto questo profilo, è diversa da quella degli americani: al diritto di esprimersi liberamente è legato indissolubilmente l’onere di esercitarlo in modo rispettoso e responsabile. La coniugazione tra questi due valori, tra questo diritto e tra questo dovere, nella nostra cultura della comunicazione, è una connessione originaria. Oggigiorno, peraltro, anche al di fuori dello scenario europeo si registrano fenomeni significativi. A tal proposito, è interessante riflettere sull’istituzione nel 2019, da parte di Meta, di un organo appositamente preposto alla tutela della libertà di espressione: l’Oversight Board. Un comitato di garanzia che esercita una sorta di “giudizio di legittimità”, che controlla ed eventualmente riforma le sanzioni di Facebook o di Instagram, nel caso in cui essi abbiano moderato un contenuto in modo discutibile. La company si è impegnata a dare esecuzione alle decisioni di questo board, che non è composto da dipendenti di Meta, ma da esponenti della cultura della comunicazione internazionale, spesso provenienti dai Paesi piagati da un continuo e invasivo intervento della censura, e aventi perciò una fortissima sensibilità per la libertà di espressione. La questione non è dunque soltanto come contrastare il discorso di odio, il contenuto inaccettabile, ma come coniugare questo contrasto con la tutela del free speech. L’istituzione dell’Oversight Board da parte di Meta dimostra che, gradualmente, questa idea della coregolazione è penetrata nella forma mentis delle IT company. Vengo da ultimo al problema dell’apologia di fascismo. Vi sono stati recentemente due casi degni di nota, entrambi riguardanti proprio la moderazione di contenuti pubblicati da gruppi di estrema destra, in cui il Tribunale di Roma si è occupato del problema della definizione giuridica di piattaforme virtuali quali Facebook e Twitter. Da entrambe le sentenze emerge chiaramente un concetto: non si tratta di spazi puramente privati, perché vi è un interesse sociale in ordine a ciò che in essi si svolge. L’azienda è quindi tenuta, nella moderazione dei contenuti, al rispetto di alcuni principi fondamentali. È anche vero, però, che una IT company non può autonomamente farsi “garante” dei valori costituzionali, e sanzionare condotte e dichiarazioni in funzione di valutazioni politicamente discrezionali. Ecco perché solo attraverso una governance condivisa della rete, attraverso un’opera di continuo dialogo tra le imprese e le istituzioni nazionali e sovranazionali, che renda possibile un continuo check di aggiornamento, di condivisione e di valutazione, è possibile affrontare le molte problematiche che la complessità del mondo digitale ci presenta. Un processo di regolazione veramente condiviso ci consentirebbe da un lato di non abbandonarci ad una concezione della libertà d’espressione come un diritto completamente deresponsabilizzato, dall’altro di garantire che alcuni contenuti, se manifestamente lesivi dell’interesse pubblico, possano essere limitati nella loro circolazione. Per quanto riguarda le tutele che devono essere garantite al presunto violatore, deve prevalere la nostra sensibilità di giuristi, la nostra attenzione alle forme e garanzie del procedimento: è necessario che vi sia tanto la notifica tempestiva dell’avvenuta sanzione – nella forma di un alert per esempio –, quanto la garanzia di poter far valere le proprie ragioni e beneficiare di un contraddittorio. Il filtro processualistico ci aiuta molto nel parlare della moderazione dei contenuti: quando la decisione di moderazione dei contenuti è assunta da Meta, essa non può dirsi essere definitiva. In molti casi vi è un’istanza di controllo superiore, che può giungere ad annullare i provvedimenti adottati dall’azienda. È importante concentrare l’attenzione su questo tema, perché le categorie che lo definiscono stanno cambiando. Bisogna comprendere che il potere degli stakeholder non va represso e combattuto, ma incanalato affinché sia esercitato nell’interesse pubblico. Non dimentichiamo che si tratta di una loro intrapresa, e che non ci si può perciò comportare come se le piattaforme digitali fossero beni comuni. Si deve piuttosto lavorare – e non sarà un lavoro breve né semplice – perché l’azione di questi privati sia coerente con i valori fondanti delle nostre democrazie liberali.
Perciò, richiamando la teoria istituzionalistica di Santi Romano, è necessario per noi oggi comprendere che non esiste solo l’ordinamento statale, ma che, come per esempio nel caso della moderazione dei contenuti, siano necessari, per governare la complessità, anche degli ordinamenti ibridi, che combinino alle garanzie pubblicistiche le formazioni sociali e gestionali emergenti dall’autonomia privata?
Antonio Punzi: Doveroso, anzi necessario, il riferimento a Santi Romano, autore a me carissimo, recuperato in Italia grazie al lavoro del compianto Presidente emerito della Corte costituzionale, Paolo Grossi. Un grande storico del diritto, che in un contesto, in un dibattito, in cui ancora dominava il normativismo, ha riscoperto Santi Romano e ne ha fatto risplendere la straordinaria attualità. Non soltanto il Santi Romano de L’Ordinamento giuridico, ma già quello de Lo Stato moderno e la sua crisi, degli scritti risalenti agli anni pisani. Penso, però, che, ancor più che Santi Romano, il pubblicista e grande presidente del Consiglio di Stato, possa essere qui richiamato Salvatore Romano, il figlio, il privatista fiorentino, che, continuando la linea di pensiero istituzionalistica a cui lei faceva riferimento, comincia a pensare non soltanto ai tanti ordinamenti, ma anche all’ordinamento dei privati e alle sue regole, ai suoi meccanismi interni di giustizia, ai suoi sistemi di enforcement, e comincia perciò a comprendere che i privati si danno un ordinamento anche in modo spontaneo, in attesa che il legislatore faccia il suo, o quando il legislatore, per ragioni politiche, non ha il coraggio di farlo. Il mercato ha bisogno di leggi, come dice Natalino Irti, ma soprattutto, aggiungerei, non può sopravvivere senza: perciò, anche quando manca la legge dello Stato, sono i privati stessi a darsi, autonomamente, un sistema di regole. Dunque, questa rivoluzione da Santi Romano in poi, a cui lei faceva riferimento, è una rivoluzione che, certamente, accentua la nostra sensibilità nei confronti della convivenza dei molti ordinamenti, ma anche al sorgere spontaneo di essi dalla vita sociale. Per esempio, Cesarini Sforza si chiedeva se la fila di fronte allo sportello costituisse un ordinamento giuridico. Chiaramente no, ma se, di fronte al disservizio, l’aggregato di utenti si costituisse in associazione, si desse delle regole e delle condizioni di adesione, un ente esponenziale: allora sì, quella sarebbe la nascita spontanea dell’ordinamento. L’evanescenza della distinzione tra pubblico e privato per le generazioni più giovani è una presa d’atto della realtà, per la mia è l’esatto rovesciamento dello schema col quale ci siamo formati. È sicuramente bello e interessante imparare a mettere in discussione le proprie categorie: certo, la logica della complessità è una logica che richiede più attenzione. Era più semplice risolvere i problemi finché si aveva la struttura a gradi dell’ordinamento: tutto sommato, bastava avere le competenze per affrontarlo. Oggi invece la soluzione va cercata e scoperta. La Regola da applicare, e quindi il mestiere di giurista, la sua arte e la sua tecnica, sono oggi più difficili, più selettivi.