Scritto da Luca Picotti
6 minuti di lettura
Nel 2023 il Financial Times, prestigioso quotidiano economico britannico, ha pubblicato una serie di articoli volti a evidenziare il distacco tra la dinamica potenza statunitense e la statica vecchia Europa. Il periodo storico non è casuale: dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la conseguente crisi energetica, l’Unione Europea ha visto diversi suoi Paesi entrare in recessione, a partire dalla Germania, nella cornice del generale trauma dovuto alla fine del mondo di ieri, per dirla con Stefan Zweig, imperniato sull’illusione della pace attraverso gli scambi economici, la lente interpretativa del diritto internazionale e della lex mercatoria, il gas russo a basso costo e i fitti rapporti commerciali con Pechino. Gli Stati Uniti sono tornati centrali nella scena europea, sostituendo in parte le forniture di gas russo con il proprio GNL, esportando armi e, per tramite della NATO, ben lungi dall’essere cerebralmente morta come sosteneva Emmanuel Macron, dettando la linea politica, con ampio sostegno nell’Europa dell’Est (Polonia, Paesi Baltici). Se a questo si unisce la parallela competizione tecnologica con la Cina, le sfide dell’intelligenza artificiale e nella rimodulazione delle catene del valore, l’immagine di questo inizio degli anni Venti del Duemila vede un’Europa arrancare, rispetto a degli Stati Uniti piuttosto assertivi nel ritagliarsi una rinnovata egemonia. Da qui, alcuni emblematici articoli del Financial Times.
Europe has fallen behind America and the gap is growing è il titolo di un incisivo contributo di Gideon Rachman, che citando lo studio di Jeremy Shapiro e Jana Puglierin riporta dei dati piuttosto indicativi: se nel 2008 l’economia dell’Unione Europea era addirittura leggermente superiore a quella americana – 16,2 trilioni rispetto a 14,7 – nel 2022 gli Stati Uniti hanno raggiunto i 25 trilioni, mentre l’Unione Europea, compreso il Regno Unito, si è fermata a 19,8. Paradossalmente, la grande divergenza tra le due sponde dell’oceano comincia proprio dalla crisi finanziaria, scoppiata sì nel mercato americano, ma che ha avuto effetti decisamente più pesanti in Europa, ove è andata ad unirsi alla crisi dei debiti sovrani. Seppure i dati citati da Rachman siano discussi, è pacifico che vi sia stato un quindicennio di sostanziale differenza nella crescita delle due aree. Non a caso, per quanto riguarda gli Stati Uniti, lo storico dell’economia Alan S. Blinder ha parlato di “the longest business expansion in U.S. history”: dal giugno 2009 sino alla pandemia (febbraio 2020), il PIL reale è cresciuto in media del 2,3% per anno, i posti di lavoro sono aumentati di 21,3 milioni e, specularmente, il tasso di disoccupazione è diminuito dal 9,9% al 3,5%, la percentuale più bassa dal 1969. Dopodiché, tornando al Financial Times e a Rachman, l’autore prosegue evidenziando come in ambito tecnologico la leadership americana sia indiscussa, mentre l’Europa vanta solo due realtà nella top 20, ossia ASML e SAP. Ancora, nelle classifiche delle università (al netto del loro valore), nella top 30 dei ranking di Shanghai e THE appare solo una istituzione europea. Per non parlare del mercato dei capitali: scarno in Europa, imponente negli Stati Uniti, tanto che, secondo Paul Achleitner, oggi l’Europa è praticamente dipendente dal mercato dei capitali statunitense. Infine, Rachman conclude riprendendo quella che è ormai una battuta diffusa a Washington: c’è una cosa che Bruxelles sa fare, ossia regolare, ma a occhio è meglio essere leader nella creazione di ricchezza piuttosto che nella sua regolazione. Anche perché, viene da dire, regolare qualcosa che non si conosce (regolamento AI) o non si ha (potenziali controlli sull’export di tecnologie), non è una grande strategia.
L’articolo è impietoso, ma fotografa alcuni dati di fatto. Segue un altro pezzo di Ruchir Sharma, dal titolo: Europe’s new success stories are built on high luxury, not high tech. Sharma evidenzia come il lusso sia uno dei settori in cui l’Europa, guidata dalla Francia – e da LVMH – è cresciuta di più, proprio mentre negli Stati Uniti si registrava l’ascesa delle aziende tecnologiche. Da ultimo, anche il confronto sui dati della produttività nel quarto semestre dell’anno passato, caduta dell’1,2% in Europa e aumentata del 2,6% negli Stati Uniti, ha portato il Financial Times a titolare Europe faces “competitiviness crisis” as US widens productivity gap.
Questa fase storica, senz’altro diversa dai più quieti decenni passati, sta mostrando l’inadeguatezza del modello europeo? Il ritorno della dimensione conflittuale-militare e la competizione tecnologica hanno evidenziato le debolezze dell’Unione? In parte è innegabile. Il fatto è che, se da un lato abbiamo uno Stato, o un Impero, dall’altro abbiamo un’Unione di Stati, tenuti assieme dalle regole dei Trattati. Questo comporta un diverso approccio alla radice: capitalismo politico da una parte, costrutto giuridico dall’altra.
Non si possono comprendere gli Stati Uniti senza considerare l’intreccio tra potere pubblico e privato, politica e capitalismo, nella cornice della struttura osmotica statale. La loro proiezione marittima, le più di ottocento basi militari all’estero, la spesa per la difesa che supera gli 800 miliardi di dollari annui, il fatto che abbiano passato la quasi totalità della propria esistenza come nazione in guerra, impediscono un’analisi meramente economicistica di tale realtà. In ambito politologico come in quello giuridico: difatti, se si va a fondo nello studio delle strutture amministrative statunitensi, ci si renderà conto di come, più che terra delle libertà, si tratti di un complesso apparato burocratico in cui i confini tra pubblico e privato sono meno nitidi di quanto si voglia credere. Solo in questo modo si possono cogliere i tratti più propriamente protezionistici americani: poteri del presidente, legami tra grandi imprese e servizi di intelligence, finanziamenti pubblici nella tecnologia, comitati di scrutinio degli investimenti, potenti dipartimenti a controllo dell’export. Si tratta, in generale, del concetto avanzato da Alessandro Aresu di “capitalismo politico”: è difficile parlare, con riferimento agli Stati Uniti, di un mercato libero di autoregolarsi; l’interesse nazionale e la proiezione imperiale si intrecciano con lo sviluppo capitalista del Paese. È un modello che non ha mai scisso la dimensione politico-militare da quella economica e, in combinazione con un intrinseco dinamismo e con mercati dei capitali propensi al rischio, ha dato vita al sistema delle big corporation, leader quasi monopoliste di settori strategici, nonché ai vertici delle catene che più contano. Tra gli ingredienti: aiuto e protezione del sistema di intelligence e militare (sia all’interno, che per l’aggiudicazione di contratti esterni), sussidi pubblici, veicolazione di fondi dalla ricerca alla sfera applicativa, sacrificio della concorrenza se necessario.
La concorrenza è invece il cuore dell’altro modello, quello europeo. Non uno Stato, come si diceva, ma un’Unione di Stati. Difatti, il dato essenziale da considerare nell’approcciarsi all’Unione Europea è la mancanza di un centro politico che possa dare un indirizzo unitario a quello che per ora rimane un mero costrutto giuridico-economico, costituito da una pluralità di interessi nazionali che si incontrano e scontrano al suo interno, in una continua ricerca di equilibrio tra i diversi rapporti di forza. Sin dagli esordi del progetto europeo, si è voluto fondare questo equilibrio sui principi, sanciti dai trattati, della concorrenza e del libero mercato, nonché di legalità e di corretta amministrazione, in modo da creare una cornice che potesse contenere le spinte politiche dei singoli Paesi membri. Una costruzione fondata sulla (illusoria, seppur non trascurabile) supremazia del diritto sulla politica. Dopotutto, non può esserci capitalismo politico senza politica. Nella moltitudine di interessi, l’unico collante sono le regole. Allo stesso modo, nella intrinseca competizione interna tra campioni nazionali, non è nemmeno concepibile una strategia volta a promuovere delle big corporation in salsa statunitense, proprio perché ogni bandiera vuole che sia la propria corporation a prevalere; per evitare queste contraddizioni, il costrutto europeo si è fondato sulle politiche di concorrenza e di limiti agli aiuti di Stato: l’armonia delle regole contro la disarmonia della politica. In un libro del 2019, The Great Reversal, l’economista Thomas Philippon ha avanzato una tesi originale, seppur discutibile: il modello americano ha abbandonato la cultura della concorrenza e si è trasformato in un sistema oligopolistico in cui vi è un eccesso di concentrazione di potere e lobbismo, con ripercussioni negative sulla ricchezza di tutti. Invece, sostiene l’autore, l’Unione Europea è riuscita a dare vita ad un modello in grado di tutelare la libera concorrenza, con effettivi benefici e senza perdere terreno rispetto all’alleato d’oltreoceano, anzi. Se da un lato l’analisi di Philippon ha il merito di evidenziare alcune contraddizioni del sistema americano, dall’altro si scontra con una realtà diversa: il modello americano forse porta ad alcuni prezzi sconvenienti per il consumatore, ma da un punto di vista di creazione di ricchezza, produttività e innovazione tecnologica non ha pari. Questo è il grande tema: rispetto all’Unione Europea, vi è stata quella grande divergenza di cui si parlava all’inizio. Da questo punto di vista, il modello del capitalismo politico pare raggiungere i propri obiettivi. Sicuramente più dell’Unione Europea, se si pensa non solo al distacco a partire dal 2008, ma anche a questi anni di guerra, ove gli unici a non avere sofferto paiono gli Stati Uniti. L’analisi di Philippon è troppo economica e si focalizza su indicatori (ad esempio i prezzi per i consumatori) che non rilevano in un ambito macro-politico; inoltre, datata 2019, soffre dei cambi di paradigma verificatesi dal 2020, che hanno ulteriormente messo in difficoltà il modello europeo.
Vi è però un aspetto, fondamentale, da menzionare in sede di conclusioni. Il modello statunitense del capitalismo politico garantisce a Washington la centralità in ambito internazionale, certificata da tutti i principali indicatori rilevanti all’esterno: ricchezza, produttività, innovazione, tecnologia. Sul fronte degli indicatori domestici, però, la fotografia è ben più impietosa, se rapportata a quella di altri Paesi occidentali, a partire da quelli europei: più bassa aspettativa di vita, più alta mortalità infantile, più alto tasso di omicidi, maggiore alcolismo e consumo di droghe. In termini di qualità della vita, gli Stati Uniti perdono il confronto con l’Unione Europea su ogni fronte. Contraddizioni del capitalismo politico? Qualcuno potrebbe effettivamente dire che è facile, per l’Europa, mantenere una buona qualità della vita quando tutti gli aspetti di difesa e sicurezza sono appaltati a titolo gratuito agli Stati Uniti, mentre per questi ultimi, forse, la costante tensione sociale è il prezzo da pagare per un modello così dinamico, distruttivo e intrinsecamente legato alla proiezione militare. È un tema centrale, che le prossime elezioni americane – e le turbolenze che le abitano – implicitamente ci ricordano. Ma è anche un elemento di riflessione per l’Unione Europea: il fatto è che il Texas avrà pure un PIL pro capite di quasi 80.000 dollari, ma difficilmente qualcuno potrà dire che vi si vive meglio che in Austria. La qualità della vita non conta nelle politiche di potenza, ma è un fattore da non trascurare. Nel confronto tra modello americano e modello europeo, si inserisce questa variabile, che ci accompagnerà negli anni a venire.