Stato d’assedio: un estratto dal libro di Maurizio Ambrosini
- 30 Novembre 2023

Stato d’assedio: un estratto dal libro di Maurizio Ambrosini

Scritto da Maurizio Ambrosini

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«Siamo davvero “sotto assedio”? A guardare le immagini degli sbarchi che periodicamente approdano sugli schermi dei nostri dispositivi elettronici o ad ascoltare le dichiarazioni di una politica sempre più polarizzata sull’argomento, sembrerebbe una domanda retorica. E invece… invece la prospettiva cambia se si osserva il fenomeno attraverso la lente dei dati».

In Stato d’assedio. Come la paura dei rifugiati ci sta rendendo peggiori Maurizio Ambrosini – Professore ordinario di Sociologia all’Università di Milano – delinea, a partire dai numeri del fenomeno, la realtà dell’accoglienza dei rifugiati in Italia. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Egea, l’introduzione del volume.


La leggenda dell’assedio

È difficile trovare nel dibattito pubblico una questione più discussa, travagliata e divisiva dell’accoglienza delle persone in cerca di asilo. La questione compatta la destra su posizioni sempre più rigide di chiusura; interpella e, di fatto, scompagina il fronte di sinistra tra principi astratti e reticenze pratiche; è stata sfruttata dalle formazioni populiste anti-sistema per fomentare contrapposizioni tra poveri nazionali e nuovi arrivati fatti giungere da fantomatici complotti internazionali. Tuttavia, è una questione mal compresa e trattata in modo assai approssimativo, per non dire grossolano. Si confondono sistematicamente rifugiati, richiedenti asilo e immigrati, si pensa che i profughi – spesso definiti genericamente migranti – arrivino soltanto o prevalentemente in Italia, si scambiano gli sbarchi dal mare per l’immigrazione nel suo complesso, si ingigantiscono le cifre: si alimenta in definitiva una sindrome da stato d’assedio permanente, sconfinando non di rado nella paura di un’invasione. Per citare un recente sondaggio (marzo 2023), il 30% degli italiani è convinto che oltre la metà degli immigrati sia arrivata a seguito degli sbarchi dal mare, e un altro 33% vede negli sbarchi il motivo dell’ingresso di una quota d’immigrati compresa tra il 20 e il 50%[1]. In realtà, negli ultimi dieci anni (2013-2022) sono arrivate dal mare circa 900.000 persone. Se fossero rimaste tutte in Italia, il che non è avvenuto, si tratterebbe di circa il 15% dell’immigrazione complessiva. Questa (5,3 milioni di residenti regolari, più 0,4-0,6 milioni di soggiornanti irregolari stimati) in realtà è prevalentemente femminile, e per circa la metà europea, senza contare cinesi, filippini, latino-americani, che di certo non arrivano in barca dalle sponde meridionali del Mediterraneo.

Per introdurre l’argomento, non si può prescindere dall’invasione dell’Ucraina. Questa sciagurata aggressione ha risvegliato empatia e apertura nei confronti di chi fugge dal proprio Paese per cercare scampo, ma tale sussulto di umanità appare selettivo e circostanziato: riguarda gli ucraini, non necessariamente chi arriva dall’Ucraina ma non ne ha la cittadinanza, e non chi fugge da altre guerre. I conflitti e le crisi umanitarie nel resto del mondo non hanno rallentato la loro tragica virulenza: nel mondo sono attivi 23 conflitti di media o elevata intensità, che coinvolgono 850 milioni di persone. Il 2023 ha visto l’esplosione di una guerra civile in Sudan, mentre il 2021 è stato l’anno della caduta di Kabul e del ritorno al potere dei talebani in Afghanistan. In Etiopia non è ancora risolto il conflitto armato tra il governo centrale e la regione ribelle del Tigray, mentre altre milizie regionali si sono sollevate contro Addis Abeba. In Sud Sudan e in Congo, sanguinosi conflitti interni si trascinano da anni. Nel Sahel i movimenti jihadisti hanno guadagnato terreno, provocando migliaia di vittime e fughe di civili. In America latina è stato soprattutto il disastro politico-economico del Venezuela a provocare la fuga di milioni di persone, mentre in altri Paesi poveri, come Haiti, El Salvador, Guatemala, lo stesso Messico, sono le bande armate a diffondere insicurezza e mettere in fuga le persone. Dobbiamo poi ricordare, tra le tante crisi aperte, il colpo di Stato in Myanmar, la rinnovata persecuzione dei rohingya, i conflitti con altre minoranze interne, nonché la caccia agli oppositori in molti Paesi del mondo. Come recita un incisivo slogan dell’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati): «Se oggi i rifugiati bussano a casa tua, è perché qualcuno prima ha bussato a casa loro».

Qualche precisazione terminologica è inoltre necessaria per porre le premesse dell’analisi che seguirà. Parliamo di richiedenti asilo quando si tratta di persone che hanno attraversato un confine di Stato, hanno presentato una domanda di protezione internazionale e sono in attesa di una decisione da parte delle autorità nazionali: una procedura che può richiedere anche degli anni. Nel frattempo, se non hanno mezzi autonomi di sussistenza, hanno diritto a essere accolti dignitosamente. Gli stati democratici non possono respingerli, né impedire loro di presentare la domanda di asilo: vige l’obbligo di non refoulement. Nell’Unione Europea, sulla base del regolamento di Dublino, accoglienza ed esame delle domande competono principalmente al Paese di primo ingresso, e i richiedenti asilo non hanno il diritto di spostarsi in altri Paesi dell’Unione. Quando lo fanno, se le autorità li intercettano e riescono a individuare il Paese di primo ingresso, possono rimandarveli: sono i cosiddetti “dublinati”. La lunghezza e complessità delle procedure, nonché il diritto di appello contro una decisione negativa, conducono alla formazione di una popolazione dallo status precario e dalle prospettive incerte, circostanze che non solo producono danni psicologici, ma pregiudicano gli investimenti necessari per una successiva integrazione: per esempio, imparando la lingua, conseguendo un titolo di studio, frequentando un corso di formazione.

Rifugiati in senso ampio possono essere definiti coloro che hanno ottenuto una risposta positiva alla loro domanda di asilo, che sia lo status pieno ai sensi della Convenzione di Ginevra o qualche forma di protezione complementare con durata e contenuto differenti: a seconda del tipo di riconoscimento, al termine potranno chiedere la cittadinanza, ottenere un altro tipo di permesso oppure cadere nell’irregolarità qualora la protezione non sia rinnovabile e il permesso non convertibile in lavoro.

Almeno nel nostro Paese, non è detto che il conseguimento dello status di rifugiato rappresenti il lieto fine di una storia travagliata: mentre prima del verdetto le persone sono accolte, più o meno bene, nelle strutture preposte, con il permesso di soggiorno per protezione internazionale in mano non è scontato che continuino a ricevere assistenza. Dovrebbero essere prese in carico dal sistema oggi denominato SAI (Sistema Accoglienza e Integrazione, in precedenza SPRAR, poi SIPROIMI), ma non ci sono posti per tutti, poiché soltanto 1.800 circa degli 8.000 comuni italiani hanno accettato di farne parte. La priorità va alle famiglie, alle donne sole, alle persone malate. In ogni caso, l’assistenza dura sei mesi, più eventualmente altri sei. Capita così che dei rifugiati riconosciuti e titolari di un permesso di protezione internazionale si ritrovino in mezzo alla strada, non diversamente dai richiedenti asilo che hanno ricevuto un diniego (si usa per loro il neologismo “diniegati”, non bello ma efficace), e rimangono sul territorio in condizione irregolare.

Profughi è invece un termine generico, senza precise connotazioni legali: indica chi cerca scampo dalle guerre, pulizie etniche, persecuzioni delle minoranze, repressioni di vario genere, incluse le violenze perpetrate da attori non statali, come i movimenti jihadisti. Parliamo correntemente di “profughi” nel caso delle persone giunte nell’Europa occidentale dall’Ucraina a causa dell’invasione russa, giacché non rientrano nel quadro legale dell’asilo comunemente adottato, ma beneficiano di condizioni più favorevoli. Ne discuteremo più avanti. Di solito il termine “profughi” si usa per chi attraversa un confine, perché in quel momento diventa visibile e almeno in teoria fa scattare degli obblighi di protezione da parte della comunità internazionale. L’UNHCR è per l’appunto l’agenzia internazionale preposta ad assisterli.

La rilevanza simbolica e ideologica delle politiche dell’asilo ha ricevuto una conferma, se fosse necessaria, con la mossa del governo Meloni nel marzo del 2023: dopo la tragedia del naufragio di un natante nelle acque di Cutro, sulla costa ionica della Calabria, con la perdita di oltre novanta vite umane, oltre a una trentina di dispersi, ha organizzato un teatrale consiglio dei ministri sul posto e varato un decreto il cui obiettivo annunciato doveva essere quello di scongiurare il ripetersi di eventi del genere. Il decreto ha invece stabilito delle maggiori aperture all’immigrazione per lavoro, assecondando le richieste delle organizzazioni imprenditoriali, mentre sul fronte dell’asilo ha ristretto le possibilità d’ingresso e di accoglienza. La timida apertura ai lavoratori è stata presentata come la risposta alle crisi umanitarie, malgrado vari Paesi in guerra, come Siria, Afghanistan, Somalia, non rientrino tra i beneficiari delle risicate quote d’ingresso. Motivazioni, provenienze e canali diversi di spostamento sono stati ancora una volta sovrapposti e confusi. In Parlamento, una settimana dopo, la premier ha rincarato la dose, affermando che non esiste un “diritto a migrare”: affermazione già di per sé discutibile, perché la carta dei diritti umani dell’ONU stabilisce che tutti hanno il diritto di uscire dal proprio Paese; ma soprattutto, nega il diritto di cercare asilo all’estero.

Come vedremo in seguito sulla base dei dati statistici, la ricorrente lamentela sull’Europa matrigna, che lascia l’Italia sola a farsi carico delle persone che arrivano per chiedere asilo, è un’altra narrazione fuorviante: l’Italia riceve ogni anno meno richieste di asilo dei principali partner europei e ha un rapporto tra rifugiati e popolazione molto più basso della media dell’Europa occidentale.

Ma è priva di fondamento un’altra e più ampia rappresentazione: che siano l’Europa e il Nord del mondo più in generale a essere maggiormente investiti del compito di accogliere i rifugiati. Circa tre su quattro, invece, sono accolti in Paesi intermedi o in via di sviluppo, non di rado poverissimi. I numeri delle morti nel Mar Mediterraneo (2.406 accertate nel 2022, già più di 300 nei primi due mesi del 2023) ci ricordano quante difficoltà e ostacoli debbano superare nella speranza di trovare un porto sicuro in Europa.

Ad aumentare lo scarto tra discorso pubblico e dati di fatto concorre un altro importante fenomeno, questa volta di segno positivo: la generosa accoglienza nei confronti dei profughi ucraini, soprattutto nelle settimane successive all’invasione russa del febbraio 2022. Comuni, associazioni, gruppi spontanei e semplici cittadini si sono impegnati in gare di solidarietà, talvolta disordinate ma impressionanti per il volume di donazioni e di persone coinvolte. Nessuna forza politica o voce mediatica ha dissentito, cosicché assistiamo allo strano paradosso per cui circa 170.000 profughi ucraini possono circolare in Italia e attraverso le frontiere, accedere al mercato del lavoro, beneficiare dei diversi servizi pubblici, ricevere contributi per l’affitto, mentre poco più di 100.000 persone sbarcate dal mare nel 2022 sono percepite da molta parte dell’opinione pubblica come una calamità da arginare. Una richiesta insieme alimentata e prontamente accolta dal governo in carica, prima con il decreto anti-ONG del gennaio 2023, poi con la stretta sull’asilo del mese di marzo.

Un altro paradosso riguarda il rapporto tra il canale dell’asilo e quello dell’immigrazione per lavoro: in linea di principio dovrebbero rimanere distinti, tanto che una polemica insistente prende di mira chi arriva per asilo con l’accusa di essere in realtà un “migrante economico”, ossia una persona in cerca di lavoro. Di fatto, però, poiché il mercato del lavoro richiede manodopera senza che se ne trovi a sufficienza, diversi governi (Francia, Spagna, in altro modo la Germania) già in passato – ma anche di recente e in forme piuttosto esplicite – hanno concesso e stanno concedendo permessi di soggiorno ai richiedenti asilo diniegati e ad altri immigrati in condizione irregolare che hanno trovato lavoro nell’economia sommersa o che seguono appositi percorsi formativi (caso tedesco). Su questo punto il governo italiano non solo distingue i due canali, ma li separa rigidamente, dichiarando di voler accogliere un certo numero di lavoratori, ma negando di fatto l’accesso ai richiedenti asilo. Per ragioni fondamentalmente ideologiche, rifiuta di riconoscere che anche chi arriva per asilo, se accolto, riconosciuto e formato, potrebbe rispondere alle domande del mercato del lavoro.

Semplificazioni cognitive e artifici retorici servono a costruire giustificazioni delle politiche – non solo italiane in questo caso – che cercano di tenere lontani i potenziali richiedenti asilo e a evitare di accoglierli: su questo terreno, la più insistita e riuscita battaglia culturale riguarda l’individuazione dei cosiddetti scafisti come i responsabili delle morti in mare e come il grande nemico da combattere.

La premier Meloni ha parlato niente meno che di “schiavitù del Terzo Millennio”, perdendo di vista una sostanziale differenza, ovvero che gli schiavisti di ogni epoca hanno tratto profitto dal fatto di tenere gli individui soggiogati e vincolati al loro potere, mentre i trasportatori vendono (a caro prezzo e ad alto rischio) un servizio che i malcapitati “clienti” non possono acquistare sui mercati legali. Anche su questo aspetto approfondirò l’analisi nelle pagine che seguiranno.

Parlare di rifugiati, in un contesto politico così intossicato, significa anche parlare di solidarietà nei loro confronti: un tema anch’esso controverso, tanto che la “criminalizzazione della solidarietà” è uno dei tratti emergenti delle politiche sovraniste. Gli attacchi alle ONG impegnate nei salvataggi (definite “vice-scafisti”, “taxi del mare” e via diffamando), le inchieste giudiziarie, le ispezioni iper-meticolose e i fermi delle imbarcazioni, le misure politiche di restrizione delle loro attività, sono la manifestazione più eloquente della tensione tra impegno umanitario e riaffermazione (selettiva) dei confini. La mobilitazione di tante e variegate espressioni della società civile a favore dei rifugiati, spaziando dalle istituzioni religiose ai movimenti sociali, mostra che la crudeltà delle chiusure ha anche (o ancora?) il potere di scuotere le coscienze, di suscitare energie positive, persino di contribuire a definire identità, valori, orizzonti di senso di una combattiva minoranza di solidali.

Lo stato d’assedio anti-rifugiati, dunque, ci sta rendendo peggiori. Ma questo non vale per tutti. Come altre volte nella storia, le minoranze attive tengono accesa una luce di speranza, affinché l’umanità ritrovi la parte migliore di sé.


[1] Noto sondaggi, «IlSole24Ore», 20 marzo 2023.

Scritto da
Maurizio Ambrosini

Professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università di Milano, dove insegna Sociologia delle migrazioni. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Stato d’assedio. Come la paura dei rifugiati ci sta rendendo peggiori” (Egea 2023), “Sociologia delle migrazioni” (il Mulino 2020), L’invasione immaginaria. L’immigrazione oltre i luoghi comuni (Laterza 2020) e “Migrazioni” (Egea, seconda edizione 2019).

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