Stato e politica tra coronavirus e globalizzazione
- 06 Aprile 2020

Stato e politica tra coronavirus e globalizzazione

Scritto da Silvia Righi

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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.


La problematizzazione del modello di sviluppo occidentale è al centro di discussioni nei diversi campi del sapere e a diversi livelli da ben prima dello scoppio della pandemia di covid-19. A partire dalla crisi economico-finanziaria del 2008, all’emergere continuo di movimenti di protesta (dagli Indignados spagnoli al Movimento 5 stelle italiano), per arrivare ai ragazzi di Friday for Future, l’insofferenza emerge manifesta nella società. Tra i recenti contributi teorici italiani di rilievo, quello scritto a quattro mani da Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano e pubblicato sul numero 6/2019 de «il Mulino» offre una prospettiva d’analisi di indubbio interesse sulle ragioni della crisi delle democrazie liberali. Come indubbio è l’apporto del fenomeno della globalizzazione allo scivolamento delle classi dirigenti occidentali verso l’approccio economico neoliberista – con le ricadute sulla politica e sulle società che vengono riportate nel saggio. La mancata costruzione di una narrativa politica alternativa a quella neoliberale nell’epoca della globalizzazione è una responsabilità particolarmente importante in Europa, culla dei sistemi di welfare e sede di quell’esperimento organizzativo che è l’Unione europea. Proprio questa avrebbe potuto costituire lo strumento d’avanguardia di un diverso modello, nonché un’assicurazione per la sopravvivenza dello Stato (entrato profondamente in crisi, come ricordano Felice e Provenzano). L’analisi merita quindi di essere integrata con un approfondimento sulla peculiarità europea che, nella galassia dei sistemi neoliberali, rappresenta un capitolo dalle caratteristiche sui generis ma centrale, tanto perché costituisce l’anello intermedio tra il livello nazionale (statale) e quello internazionale (globalizzazione), quanto in ragione della sua potenziale funzione politica nel sovvertimento del paradigma politico oggi ancore prevalente. Il dibattito sulla governance dell’UE non è certo nuovo, ma nuova è l’opportunità – se così si può chiamare – che offre il coronavirus. Per gli Stati europei, per l’Unione stessa e per il modello di sviluppo.

L’epidemia di covid-19 che sta terrorizzando il mondo è anch’essa una manifestazione della globalizzazione e di un particolare modello di sviluppo. Che ha caratteristiche che vanno dalla rapidissima e continua connessione tra zone e persone agli antipodi del globo, alla delocalizzazione delle produzioni, e poi alle migrazioni continue, l’aumento delle disuguaglianze, la ben poca considerazione per il pianeta, a partire dal consumo di risorse e di suolo. E le epidemie globali. Buona parte del discredito di cui soffre la politica nelle società europee origina dalla sua manifesta incapacità di dare risposte a questi fenomeni e alle paure, difficoltà che essi generano nelle persone.

 

L’approccio neoliberista: il ritiro della politica di fronte all’economia

L’ultima parte del secolo scorso ha decretato un’incontrastata vittoria dell’approccio neoliberale – che finisce per sovrapporsi a quello neoliberista nel momento in cui lo Stato si fa ancella del buon funzionamento del mercato. Semplificando enormemente i processi, esso arriva, di fatto, ad indicare il mercato come fonte di equilibrio ottima in grado di autoregolarsi, relegando il ruolo dello Stato a garante della possibilità del mercato di funzionare liberamente ed in modo perfettamente competitivo.

Agli inizi degli anni Duemila una narrativa alternativa ha tentato di proporre una prospettiva diversa sulla globalizzazione, all’insegna dello slogan – appunto – di “un altro mondo è possibile”. Inutilmente. Complice anche una sinistra europea ancora prigioniera delle considerazioni sulla cosiddetta terza via e che lo guardava con malcelata diffidenza, il movimento cosiddetto no global è stato presto ridotto a minoranza ininfluente, anche in conseguenza dei tragici fatti che accompagnarono il G8 di Genova del 2001.

Le questioni poste sul tavolo allora sono però le stesse che oggi ci appaiono dispiegate in tutta la loro – dirompente – forza. Il modello di sviluppo imboccato e l’approccio neoliberista, intimamente legati, hanno infatti creato una pletora crescente di perdenti, troppo a lungo derubricate a “imperfezioni del sistema”, che sarebbero state in qualche modo automaticamente sanate.

Il potere nelle società moderne è legittimo monopolio dello Stato che, per sua definizione, ha confini, insiste su un territorio specifico. Il “reame della politica” (che dirige lo Stato) è quindi di per sé impreparato ad affrontare fenomeni che questi confini li travalicano, e anche per questo ha scelto di abdicare al suo ruolo e delegare all’economia, abbracciando, in maniera quasi unanime, la teoria neoliberista. Ricordiamo il motto – creato in occasione della campagna elettorale di Bill Clinton del 1992 e diventato iconico – “it’s the economy, stupid”.

Di conseguenza, l’accumulo di domande di aiuto lasciate senza risposta ha condotto all’esacerbazione di ingiustizie sociali, polarizzazione e frammentazione delle società, precarizzazione della vita (lavorativa e non). Non solo. La politica ha finito per trasmettere una percezione di sé come costoso, inutile orpello – “la casta”.

L’epidemia impone l’esigenza dell’intervento politico, e dello Stato; la necessità di superare il modello del capitalismo sregolato diventa manifesta. La crisi dello Stato, appare evidente, non viene tanto dall’istituzione di poteri sovranazionali (come l’UE), quanto da un ritiro della politica, a tutti i livelli di governo. Un intervento di carattere sovranazionale è infatti indispensabile per fronteggiare alcuni fenomeni, ma risulta efficace se, di nuovo, governato dalla politica.

Davanti all’acuirsi di diseguaglianze e paure, in assenza di una risposta politica, abbiamo allora assistito ad un ripiego istintivo dell’opinione pubblica verso una chiusura totale. Dall’America first trumpiano ai cosiddetti sovranisti in Europa, la chiusura non risolve il problema ma ne dà l’impressione nel momento in cui non viene fornita un’alternativa credibile. È un fenomeno che riguarda tutto l’Occidente, prima campione dell’ “aperturismo”, e che rischia fin di far scricchiolare le democrazie, come sottolineano anche Felice e Provenzano.

La politica può e deve recuperare la sua capacità di intervenire. Sia per dare una visione di priorità e individuare investimenti strategici, che per indirizzare il modello di sviluppo. C’è il tema delle disuguaglianze da colmare, tra cittadini ma anche tra aree geografiche. Ci sono gli effetti della delocalizzazione da combattere e quelli della robotizzazione da fronteggiare; ci sono flussi di migranti da gestire e l’impatto delle attività umane sul pianeta (e su noi stessi) da mettere sotto controllo. Questioni che richiedono una profondità decisionale di lungo periodo, investimenti strategici, che solo il pubblico è capace di mettere in campo come magistralmente spiegato da Mariana Mazzucato ne Lo Stato innovatore. E la presenza di principi etico-sociali d’intervento condivisi e/o discussi con l’opinione pubblica.

Una prospettiva del genere cozza profondamente con il paradigma dell’austerity, che, benché condannato perfino dal Fondo monetario internazionale a partire dal 2013, continua ad essere maggioritario in Europa.

 

La peculiarità europea

A questo punto è però necessaria una distinzione, spesso trascurata. L’UE, che è stata disegnata dagli anni Novanta, e la governance economica che la caratterizza, risponde sì in parte alle logiche neoliberali e neoliberiste, ma con un innesto che la distingue in modo netto: l’influsso del retaggio ordoliberale di impronta calvinista della Germania – ossessionata, nel dopoguerra, dalla lotta all’inflazione e dal risparmio. A fianco di una competenza esclusiva del livello sovranazionale in ambito di concorrenza, prova della volontà di assicurare le condizioni di libero mercato, e dell’istituzione del mercato unico quale obiettivo più strettamente perseguito, troviamo una serie di ferree regole di bilancio che imbrigliano l’azione degli Stati, a partire da Maastricht per arrivare al Fiscal Compact, adottato in fretta furia in risposta alla crisi economica. Il modello dell’Unione europea potrebbe quindi definirsi “ordoliberista”.

La stessa teoria economica però, oltre all’empirismo, non può non faticare a negare che un sistema in cui la leva monetaria non esiste (in conseguenza della creazione dell’euro), quella fiscale è indispensabile per reagire agli shock economici, pena l’aggravarsi delle conseguenze dello shock stesso. E se le regole già permettono agli Stati uno sforamento del famoso 3% del deficit – da negoziare comunque nella sua entità – in presenza di eventi eccezionali, la logica sottostante rimane asfittica. Il coronavirus lo ha dimostrato, nel momento in cui la Commissione, per voce della Presidente von der Leyen, ha dichiarato che l’Italia potrà spendere tutti i soldi che ritiene necessari e che verranno allentate le maglie della normativa sugli aiuti di Stato. La decisione è stata confermata, per tutti i paesi colpiti, dalla riunione dell’Eurogruppo del 16 marzo, a margine della quale il suo Presidente Centeno ha recuperato il whatever it takes di Mario Draghi.

La sospensione momentanea del Patto di stabilità non è però una risposta minimamente sufficiente. Fortunatamente, a pochi giorni di distanza dall’improvvida dichiarazione – poi ritirata – della Presidente della BCE circa lo spread (che aveva allarmato i mercati e fatto schizzare i tassi di interesse sui titoli italiani, al punto da mettere in dubbio la sostenibilità del nostro debito pubblico in prospettiva), la stessa BCE ha annunciato un massiccio programma di Quantitative Easing da 750 miliardi – specularmente a quanto deciso dalla Federal Reserve americana che, a differenza della BCE, ha come primo obiettivo statutario la piena occupazione. Non solo, per la prima volta dalla crisi del suo debito sovrano, la BCE comprerà anche titoli greci. Sembrerebbe insomma che a Francoforte il virus – che non rispetta i confini – abbia potuto più di qualunque impianto teorico, più dell’evidenza del disastro sociale greco. Ma ancora non basta, perché, nonostante l’effetto calmierante e di sostegno di questa iniezione di liquidità, il debito pubblico degli Stati crescerà esponenzialmente, e non solo per l’aumento della spesa, ma anche in ragione della fortissima contrazione economica che accompagna e seguirà la crisi sanitaria.

Un sistema di governance economica come quello attuale non poteva reggere, e i fondi strutturali (unica vera politica redistributiva messa in atto dall’UE) hanno effetti irrisori rispetto ai problemi. Lo stesso vale per InvestEU, il fondo di investimento europeo che, per quanto esiguo, ha dimostrato, nella sua prima forma (il cosiddetto EFSI) l’effetto di stimolo che gli investimenti pubblici hanno su quelli privati (concetto ampiamente dimostrato da Stephanie Kelton nel secondo capitolo di Ripensare il capitalismo). Già questo, da solo, avrebbe dovuto rimettere in dubbio la teoria dell’austerity e la stretta ai bilanci statali in tempi di difficoltà economiche.

Da un lato serve quindi introdurre una visione di lungo periodo caratterizzata da investimenti strategici che assicurino una reale convergenza degli Stati membri e, appena l’emergenza sanitaria sarà risolta, un piano straordinario di investimenti che impedisca a tutta l’Unione di imboccare una strada senza uscita. Per questo è fondamentale anche la partita sul quadro finanziario pluriannuale in corso a Bruxelles. La palla è lasciata ancora una volta ampiamente in mano agli Stati (e ad un Consiglio europeo che da tempo va ben oltre le prerogative assegnatigli dal trattato, “sbilanciando l’equilibrio istituzionale”), mentre sarebbe auspicabile un sussulto di Commissione e Parlamento (come perorato dall’ex premier ed ex Presidente della Commissione europea Romano Prodi). Queste ultime hanno peraltro avanzato proposte decisamente contenute se si pensa che la Commissione chiede che il bilancio del prossimo settennato sia pari all’1,1% del PIL degli Stati membri mentre il Parlamento arriva (addirittura!) all’1,3%. L’UE, almeno l’Eurozona, dovrebbe essere invece dotata di considerevoli risorse proprie.

Dall’altro appare evidente la necessità di una revisione profonda della governance economica europea, di un cambio di paradigma che permetta agli Stati (e all’Unione) di investire dove necessario e utile. E questi giorni ci dicono quanto siano importanti la sanità pubblica e la ricerca. Ma non basta: se Unione deve essere, è indispensabile colmare i gap tra uno Stato e l’altro, dare spessore alla solidarietà riportata nei Trattati, e allora i trasferimenti da una zona all’altra non possono limitarsi ai fondi strutturali: la vecchia strada della mutualizzazione del debito, gli eurobond – o coronabond secondo la denominazione avanzata dal Presidente del Consiglio italiano al Consiglio europeo straordinario del 17 marzo – costituirebbero un enorme cambio di prospettiva e la base per quel piano straordinario di investimenti già richiamato, oggi davvero indispensabile per dare un senso percepibile al progetto europeo. Un progetto che ancora non è inverato e, fallendo di fronte alla prova del coronavirus, rischia di non inverarsi mai.

Allo stesso modo, non si possono non rivedere le regole di concorrenza dell’UE, adottare in periodo in cui il must era l’apertura dei mercati. Ora è chiaro che, se impediscono ai campioni nazionali di competere, non fanno “partecipare i vicini”, ma deprimono forzosamente possibilità di sviluppo, tagliando il singolo Stato e l’UE fuori dalla competizione globale. L’Italia, insieme ad altri tre paesi, lo scorso 4 febbraio ha inviato in merito una lettera alla vicepresidente della Commissione Margrethe Vestager, chiedendo la revisione delle regole di concorrenza, ma anche lo sviluppo di una strategia di politica industriale a livello dell’UE.

Un immediato cambio di paradigma, tanto discusso dagli anni della crisi economica iniziata nel 2008, risulta oggi, agli albori di questa nuova crisi senza precedenti (diversa dall’altra perché parte dall’economia reale, non vi approda), non più rimandabile. Se i capi di Stato e di governo europei non si mostreranno all’altezza della situazione, non solo i cittadini soffriranno enormemente e molto oltre la fine della pandemia, ma quest’ultima costituirà la pietra tombale sul processo di integrazione.

Un’Unione diversa non può più prescindere, insomma, da una cessione di sovranità al livello superiore, se gli Stati europei vogliono uscire vincitori dalle grandi sfide contemporanee e continuare a contare qualcosa sullo scacchiere mondiale – sul quale invece (anche grazie alla sua reazione alla pandemia, interna ed esterna) giganteggia ormai la Cina. Oltre all’aspetto – imprescindibile – già evocato, ciò è particolarmente evidente in ambiti come la politica estera, la politica energetica, quella della migrazione, ma anche, ad esempio, per la tassazione delle multinazionali (sono alcuni Stati membri a bloccare dal 2017 in Consiglio la proposta di direttiva, già approvata dal Parlamento europeo, sul public country by country reporting, che obbligherebbe le multinazionali con fatturato globale pari o < 750 milioni di euro a rendere pubbliche una serie di informazioni tra cui i profitti e le imposte pagate – “paese per paese”, appunto). Un regime fiscale unico, certo, risolverebbe il problema alla radice.

La pandemia ci mostra che anche in materia di prevenzione dei contagi virali, uno stretto coordinamento è assolutamente indispensabile, ma sarebbe stata preferibile una risposta unitaria (oltre che rapida).

La costruzione di una sovranità europea in alcuni ambiti è quindi l’unica carta che possiamo giocarci, ma questo passo va fatto necessariamente portando la politica a Bruxelles, che è invece oggi lasciata priva di visione, ostaggio degli egoismi nazionali e quindi, necessariamente, troppo spesso affidata alle cure di “tecnici”.

 

Quale funzione per lo Stato?

Ciò significa la scomparsa dello Stato? Assolutamente no. Lo Stato potrebbe anzi uscirne vincitore: la sua forze ne uscirebbe potenziata laddove non bastava più e rimarrebbe entità insostituibile senza doversi occupare di rincorrere obiettivi individualmente irraggiungibili. Fonte di identità ma non solo. Anche padrone di scegliere le proprie priorità di investimento sulla base delle necessità dei cittadini, di impostare la propria visione per lo sviluppo del paese sul lungo periodo. Quest’ultima, se decisa a livello dell’Unione, non sarebbe efficace.

Esemplificativa di questo approccio è una delle ultime iniziative del governo in carica in Italia: il Piano per Sud, presentato lo scorso 14 febbraio, che ha come orizzonte il 2030 e – il ministro Provenzano non si stanca di ripetere – gioverà (gioverebbe) a tutta l’Italia. A fronte di un investimento di alcuni anni e alcuni miliardi (123 miliardi sarebbe l’ordine di grandezza), il piano promette e permetterebbe di recuperare il gap di sviluppo tra Nord e Sud Italia. Ma non solo, l’ambizione, correttissima, è quella di contribuire a spostare il baricentro dell’Unione verso sud, verso quel Mediterraneo che è stato fonte di benessere tanto a lungo e che può esserlo ancora. Meglio, che è nel nostro interesse lo sia.

Per portare a termine il piano, è stato già siglato un patto tra Ministero, Dipartimento, Cassa depositi e prestiti che avvia sinergie e collaborazioni di lungo respiro, con un’attenzione particolare agli investimenti verdi. Propedeutico agli altri – una vecchia “fissa” del Ministro – sarebbe poi l’investimento nel rinnovo della Pubblica amministrazione. È infatti innegabile che, perché lo Stato possa affrontare con efficacia le sfide del nostro tempo, è necessaria una pubblica amministrazione che non sia ostaggio della fedeltà politica, ma ricca di competenze nuove e diverse, e provvista di un’altra caratteristica: la lealtà. Perché mentre la fedeltà si esplica esclusivamente nel rapporto personale, la lealtà può farsi utile virtù pubblica, e quindi anche politica – nel senso più alto e bello del termine. In quest’ottica, l’investimento nel rinnovo della pubblica amministrazione costituisce un formidabile moltiplicatore, esattamente quello in istruzione.

Un esempio immediato è costituito dalla capacità di poter con efficacia utilizzare i fondi europei. Sappiamo bene che il nostro paese si trova puntualmente, al termine di ogni ciclo di programmazione, a “rincorrere” spese o a trasferirle dal livello regionale a quello statale, per non perdere soldi. Nel 2019, poi, dopo un lungo contenzioso, la Sicilia ha dovuto restituire 380 milioni di euro (riferiti al programma operativo 2000-2006) per gravi carenze nella gestione e nei controlli.

Anche quest’ultimo dato, infine, testimonia che la mancata risposta ai problemi del nostro tempo non è, nelle società occidentali, frutto – come spesso è evocato – di un furto di sovranità da parte dell’Europa (che e l’unico orizzonte politico di senso per gli Stati che ne fanno parte, se vogliono uscire dalle crisi e contare ancora qualcosa sullo scacchiere mondiale). La capacità di agire non ce l’ha rubata nemmeno la globalizzazione. Ce l’ha rubata la rinuncia a fare politica e l’impreparazione della macchina pubblica davanti ad un’economia globalizzata, ce l’ha rubata l’abbraccio con la vague neoliberista.

Scritto da
Silvia Righi

Lavora presso il Parlamento europeo, dove attualmente si occupa principalmente di lavoro e politiche sociali, e del coordinamento per la plenaria per il Partito democratico. Ha conseguito un dottorato italo-francese in diritto dell’Unione Europea e un Master in politiche europee al College of Europe. Ha collaborato con l’Agenzia dei diritti fondamentali dell’UE e, dal 2017, scrive per la rivista «Aspenia» online. Le opinioni presenti negli articoli sono espresse a titolo puramente personale.

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