“Stato e rivoluzione” di Lenin
- 07 Novembre 2017

“Stato e rivoluzione” di Lenin

Recensione a: Vladimir Il’ič Lenin, Stato e rivoluzione. Edizione del centenario con un saggio introduttivo di Tamás Krausz su “Lenin e la rivoluzione d’Ottobre”, Traduzione di Lila Grieco, Donzelli Editore, Roma 2017, pp. 224, 25 euro (scheda libro)

Scritto da Cosimo Francesco Fiori

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L’anno della Rivoluzione d’Ottobre fu anche l’anno in cui vide la luce Stato e rivoluzione, che viene ora ripubblicato in nuova traduzione e con un’introduzione di Tamás Krausz. L’opera venne terminata da Lenin «nel fuoco della lotta», nell’estate del 1917, durante la persecuzione antibolscevica seguita ai fatti di luglio, che lo aveva costretto alla clandestinità. Fu proprio dai mutamenti avvenuti in quelle settimane che maturò il cambio di strategia: dall’evoluzione pacifica («tutto il potere ai soviet») alla presa del potere dei bolscevichi reclamata in modo martellante, fino al punto di minacciare le dimissioni dal Comitato centrale in caso di disaccordo («se non prendiamo il potere adesso, la storia non ci perdonerà»[1]). La stesura dell’opera sarà poi interrotta dalla stessa rivoluzione, «intralcio [di cui] non ci si può che rallegrare [, poiché] è più piacevole e più utile fare “l’esperienza della rivoluzione” che non scriverne»[2].

A più di cent’anni dai fatti dell’Ottobre, su di essi e su tutto ciò che attiene al comunismo si è sedimentato un senso comune che oscilla tra il ribrezzo morale (il comunismo come parte del male assoluto che piove inesplicabilmente sul mondo nel Novecento, come le cavallette sull’Egitto) e la condiscendente ironia (ma davvero i comunisti pensavano possibile la trasformazione dell’uomo, il paradiso in terra, l’«assalto al cielo»?); discorso amico dell’indistinzione e della genericità, che sovente scade nella polemica dozzinale e che non spiega perché il comunismo non fu follia di una setta, ma movimento reale di massa che impresse una torsione nella storia. È usuale, ad esempio, ritenere che l’anatomia di Stalin illumini quella di Lenin, se non dello stesso Marx. Al fine di evitare un determinismo ancor peggiore di quello che è rimproverato agli stessi marxisti, sarà innanzitutto necessario evitare una lettura di Stato e rivoluzione che imputi i fatti di figli e nipoti. Nonostante Lenin vanti innumerevoli tentativi di imitazione col bronzo, a dimostrazione dell’influenza della sua azione, più perenne del bronzo è ciò che hanno decretato i «cocciuti fatti», e cioè l’attribuzione di un seggio nel consesso degli sconfitti della storia. In attesa di una qualche «rimessa in questione di ogni vittoria che sia toccata nel tempo ai dominatori», come diceva Benjamin, sarà opportuno evitare di sovrapporre a Lenin valori e criteri normativi esterni e arbitrari.

Oltre al problema costituito dalla realtà storica del socialismo realizzato, scrivere di un testo come Stato e rivoluzione dopo un secolo dalla sua pubblicazione pone difficoltà varie. Innanzitutto per via della variegata ricezione, che ha comportato una notevole stratificazione di interpretazioni. Poi per ciò che concerne il testo in sé, per le questioni teoriche che solleva e per il rapporto con la tradizione precedente cui si rifà. C’è poi la natura del testo: come tutti gli altri scritti di Lenin, Stato e rivoluzione è interamente calato nella dimensione della lotta e della polemica politica. Ancora in corso la «guerra imperialista» che ha visto molti socialisti far feticcio dello Stato nazionale, i bolscevichi si preparano a fare i conti con lo Stato di lì a poco: è evidente che la questione dello Stato non è, per Lenin, mera teoria. Pure, il taglio è spiccatamente teorico e vi è l’ambizione di «ripristinare l’autentica dottrina di Marx sullo Stato»[3] mediante «scavi archeologici»[4] (durante i quali emerge l’intercambiabilità di Marx con Engels, come d’uso).

 

Stato borghese e dittatura del proletariato

Di fronte agli antagonismi di classe si contrappone lo Stato. Se, nel sistema hegeliano, al particolarismo della società civile si oppone la classe universale, già Marx denuncia come illusoria questa universalità (che è a sua volta particolare): lo Stato borghese, garantendo il diritto dell’uguaglianza (formale), pone le condizioni necessarie allo scambio; la sua illusoria opera di mediazione tra gli interessi particolari delle classi è in realtà assicurazione del predominio della classe dominante: è coercizione. «Le forme degli Stati borghesi – dice Lenin – sono assai varie, ma la sostanza è una: tutti questi Stati sono, in un modo o nell’altro, ma in ultima analisi necessariamente, una dittatura della borghesia»[5] (la concezione evidentemente soggettivistico-strumentale prevale sulla deduzione della necessità dello Stato borghese, riecheggiando il Marx del 1848, dello Stato «comitato»). La strategia di Lenin verso lo Stato si presenta come continuatrice della dottrina di Marx ed Engels di contro, da un lato, alle deformazioni «opportunistiche» e «socialscioviniste» in voga nella Seconda Internazionale (riformismo), e, dall’altro, alla teoria anarchica. Quest’ultima aveva il vizio dell’astrattismo, dicendo sic et simpliciter che lo Stato andava abolito, dall’oggi al domani (la lotta di classe non cesserebbe minimamente: gli anarchici invertono cause ed effetti). Quanto ai riformisti, essi commettevano l’errore opposto, la «superstiziosa venerazione» dello Stato. Lenin dice: lo Stato borghese non va conquistato come un bottino, va bensì distrutto e sostituito con la dittatura del proletariato (quindi non semplicemente abolito, come volevano gli anarchici). Tale dittatura produrrà le condizioni per la sua stessa fine (argomento contro gli «opportunisti»): una società senza conflitti di classe non avrà bisogno di coercizione statale, per cui lo Stato diverrà superfluo e non verrà abolito, ma si estinguerà (espressione mutuata dall’Anti-Dühring di Engels).

Vi sono dunque due fasi: una prima, in cui il vecchio Stato è distrutto con la violenza e ne subentra uno nuovo (fase di transizione, in cui la lotta di classe non cessa ma anzi si intensifica, contro le resistenze del vecchio ordine); e una seconda, il comunismo, in cui cessa la lotta di classe e sparisce lo Stato per assenza di compiti (società omogenea, autoamministrazione dei produttori, che svolgono compiti pratici e non politici, perché non vi è conflitto). Potremmo quindi distinguere due sensi del concetto di rivoluzione: uno puntiforme, che designa il momento che instaura la prima fase; e uno esteso – rivoluzione come processo – che coincide con la fase di transizione, quella più complessa e la cui durata è imprevedibile.

La fase transitoria della dittatura del proletariato svolge un duplice compito: una pars destruens (l’«espropriazione degli espropriatori», come diceva Marx, la lotta contro le resistenze e la lotta tenace contro le abitudini proprie del vecchio ordine) e una pars construens, ossia l’educazione all’autogoverno. Ripreso da Marx, dagli scritti sulla Comune di Parigi, è l’elenco delle caratteristiche del nuovo Stato (un diritto costituzionale minimo): non esercito separato, ma popolo in armi (che è poi il vero pouvoir constituant che sostiene la dittatura); non burocrazia separata, ma funzionari (amministrativi, giudiziari, etc.) elettivi, revocabili in ogni momento e retribuiti al livello di un buon operaio; non parlamentarismo, ma organismi «di lavoro, legislativi ed esecutivi allo stesso tempo» (tutti istituti volti a riassorbire lo Stato politico nella società, a farne un suo strumento, togliendogli la posizione separata, sopraordinata, falsamente universale tipica dello Stato borghese). Tale Stato non è più uno “Stato” nel senso usuale del termine, ma anzi, il suo consolidamento equivale al principio della sua estinzione.

Lenin riprende, anche se brevemente, il discorso marxiano della Critica del programma di Gotha. Secondo Marx nella fase di transizione persiste il diritto borghese: a tot ore di lavoro corrisponde tot salario, al di là di tutte le differenze esistenti (chi non ha figli e chi ne ha tre, etc.). Mentre, dal lato della produzione, è venuta meno la proprietà privata dei mezzi di produzione, dal lato distributivo permane il diritto borghese dell’eguaglianza, che produce disuguaglianza. La situazione muta nel comunismo, dove è superata «la subordinazione servile alla divisione del lavoro», dove «la società può scrivere sulle sue bandiere: “ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!”»[6]. Questo sia detto anche per ricordare che il comunismo non è uno schematico egualitarismo, e non parte dal lato distributivo: «la distribuzione dei mezzi di consumo è ogni volta soltanto conseguenza della distribuzione delle condizioni stesse di produzione»[7] (valga questo a far giustizia di ogni discorso per cui “ci vorrebbe solo più uguaglianza”).

L’estinzione dello Stato rappresenta il telos, l’esigenza teorica che vale a distinguere la rivoluzione comunista da un golpe puro e semplice. Lenin, come già Marx, rifugge però dall’utopia: la parola d’ordine politica è la dittatura, mentre la sua estinzione è legata alla qualità e alla rapidità dello sviluppo della transizione, e questo «non lo sappiamo e non possiamo saperlo»[8]. Inoltre, estinzione dello Stato non vuol dire fine di ogni disciplina: Lenin cita uno scritto di Engels dove è affermato che nell’industria, così come in un naviglio in alto mare, «la volontà di qualcuno dovrà sempre subordinarsi»[9].

 

Lenin e la concezione dello Stato

Il grande assente nello schema teorico di Lenin, come rileva Krausz nell’introduzione, è il partito. La capacità di controllare e dirigere tutti i processi sembra originare dalle masse rivoluzionarie in modo spontaneo, e ciò fa specie perché uno dei capisaldi del leninismo è che la coscienza non nasce dalle masse in modo spontaneo, ma giunge dall’esterno, cioè dal partito dei rivoluzionari di professione (cfr. Che fare?). Assenza importante, probabilmente dovuta a motivi tattici, che nell’introduzione non è colta appieno: vi si afferma che la spiegazione è semplice: «nel socialismo autogestito […] le classi e i partiti non esistono più»[10]. Ora, se si intende con ciò la fase finale del comunismo, questo è ovvio. Ma il punto è la fase di transizione, nella quale è arduo affermare che le classi e i partiti non esistano più: esiste una mediazione politica tra classi diverse – perlomeno operai e contadini – e tendenzialmente ogni classe, dice altrove Lenin, è guidata da un partito diverso. È noto che si impose poi il monopartitismo, ma di esso non c’è traccia in Stato e rivoluzione; e giova ricordare che i primi tempi del potere sovietico sono caratterizzati da un’alleanza tra partiti: bolscevichi e social-rivoluzionari di sinistra.

Problematici e non soddisfacenti sono alcuni meccanicismi, invero propri della tradizione marxista. Innanzitutto vi è l’idea che, pur con diversi accenti nei vari autori (è Engels la fonte di Lenin sulla «estinzione», non Marx), la fine della lotta di classe produca una società omogenea, in cui la dissonanza d’interessi non attiene che all’accidente, e in cui dunque non ci sono conflitto e politica, e di conseguenza nemmeno apparato coercitivo ed ente statale separato. Fine del conflitto economico, fine di ogni conflitto. C’è qui un riduzionismo economicistico che pare dettato sia da un’esigenza politica (unificare gli sforzi contro le classi dominanti), sia da una più generale esigenza teorica, che lega insieme la trasformazione del modo di produzione, quella sovrastrutturale delle forme politiche e, infine, anche quella antropologica. Se da un lato c’è una dialettica (la negazione dello Stato borghese prima, e della stessa dittatura del proletariato poi), dall’altro c’è un gradualismo antropologico, evoluzionista. Per via di una lenta abitudine, si forgia, in sostanza, un uomo nuovo, che vivrà in un’epoca post-politica. È questo possibile, o non si produrranno altre forme di conflitto decisivo? È auspicabile una società senza conflitto? Va anche detto che le indicazioni della tradizione marxista sul comunismo futuro sono, per forza di cose, vaghe: non vi è una descrizione articolata del mondo futuro. Ciò che è detto sul comunismo va inteso per quello che è, cioè una negazione determinata del modo di produzione borghese e delle sue sovrastrutture.

Meccanica è, ancora, la concezione dello Stato (Lenin parla più volte di «macchina»): dittatura, apparato coercitivo-repressivo. «Dominio», per usare una categoria gramsciana. È pur vero che gli Stati di allora mostravano il loro lato di pura repressione in modo molto più patente e disinvolto di oggi; ma l’idea dello Stato come una «macchina» che possa essere «spezzata» e «sostituita» era insufficiente già allora (significativa la lettura del fallimento della Comune, che non era stata abbastanza dittatura, perché, fra l’altro, non aveva fagocitato la Banca di Francia). Questa visione strumentale dello Stato viene in effetti superata solo dalla concezione gramsciana: Stato «allargato» (Buci-Glucksmann), società civile, lotta per l’egemonia. Gramsci indicò per l’Occidente la via della guerra «di posizione», mentre in Russia si era operata una guerra «di movimento».

Nella dittatura del proletariato riprendono, per Lenin, alcuni elementi di «democrazia primitiva» sopra elencati, ripresi da Marx. Ma ci si chiede se il legame «solido» e altresì «elastico»[11] tra le masse e gli eletti nei Soviet e alle funzioni pubbliche sia garantito solo da istituti di carattere giuridico-istituzionale (revocabilità in ogni momento, rotazione, etc.: permanente regime assembleare, rapporto “immediato”), oppure da un preesistente legame organico, egemonico, di cui l’elezione sia una sanzione (ecco dove è grave l’assenza di indicazioni sul partito). Sembra che in Lenin ci sia solo il primo aspetto: una «democrazia attuata integralmente» (potenziamento quantitativo della democrazia e «trasformazione della quantità in qualità»).

È pur vero che il regime sovietistico in sé, al pari del fervore rivoluzionario, è inteso da Lenin come potente fattore pedagogico (di tipo spontaneo), che peraltro vede all’opera attorno a sé. Ma, dice Lenin: «non siamo degli utopisti. Sappiamo che una cuoca o un manovale qualunque non sono in grado di partecipare subito all’amministrazione dello Stato. […] Ma […] esigiamo la rottura immediata con il pregiudizio che solo dei funzionari ricchi o provenienti da famiglia ricca possano governare lo Stato […]. Noi esigiamo che gli operai e i soldati coscienti facciano il tirocinio nell’amministrazione dello Stato»[12]. Questo passo, nello spiegare Lenin con Lenin, vale a precisare che l’immissione delle masse nelle funzioni pubbliche è un processo tendenziale, che prevede una fase educativa (dove, però, l’educatore non sembra un’organizzazione avanguardistica, ma il processo in sé). Il soggetto di questo autogoverno dello Stato è la parte più cosciente del popolo (il proletariato e i soldati). È da ritenersi che queste considerazioni aiutino a escludere di vedere in Stato e rivoluzione l’antesignano del programma grillino, come può suggerire una prima lettura. Condizione di tutto il discorso sull’autogoverno, comunque, è la permanenza di un certo entusiasmo, e Lenin sa che «la disgrazia delle precedenti rivoluzioni fu che l’entusiasmo delle masse […] non durava a lungo»[13] (e pare difficile da credere che Lenin potesse affidarsi al solo entusiasmo, “spontaneo” per eccellenza).

 

La tecnica e il problema dello specialismo

Il discorso sull’autoamministrazione e sull’assemblearismo ci conduce al dilemma weberiano: «c’è soltanto la scelta tra burocratizzazione e dilettantismo nell’amministrazione». Lenin era convinto che lo sviluppo della tecnica avrebbe agevolato la fine della divisione del lavoro e dunque la fine della burocrazia come corpo ipostatizzato, permettendo un «controllo operaio» generale. Il capitalismo stesso avrebbe costruito questo stato di cose, riducendo tutto a «operazioni relativamente poco complicate che qualunque persona di istruzione elementare può compiere»[14]; esse «saranno eseguite a turno, da tutti, per diventare quindi un’abitudine e finalmente scomparire in quanto funzioni particolari di un particolare strato della popolazione»[15]. Tutti burocrati, nessun burocrate. Ora, la tecnica ha esasperato, invece, la divisione del lavoro mediante la specializzazione.

Il problema dello specialismo si pone a Lenin già prima della presa del potere, e nei testi del 1918-19 è giustificata l’esigenza di un «compromesso» con gli specialisti «borghesi» costretti a lavorare come funzionari del proletariato: a essi è garantito uno stipendio più elevato degli operai. Già dal 1918 Lenin parla della «lotta contro la deformazione burocratica dell’organizzazione sovietica»[16], ma il problema pratico è questo, far funzionare le cose: «abbiamo gli specialisti borghesi e null’altro. Altri mattoni non ne abbiamo»; il socialismo va iniziato a costruire subito, «non fra vent’anni»[17], e nemmeno «si possono buttare via centinaia di migliaia di persone!»[18] (anche se, quanto a questo, la storia successiva dimostrerà che non è così vero).

Gli specialisti hanno stipendi più alti e non sono, nella sostanza, revocabili, perché nessuno sarebbe in grado di sostituirli. Essi sono usati dalla rivoluzione, ma a caro prezzo (economico e politico). «Il problema consiste in questo: come unire la rivoluzione proletaria vittoriosa con la cultura borghese, con la scienza e la tecnica borghese»[19]. Da un lato potrebbe dirsi un problema di egemonia in senso gramsciano. Dall’altro, il problema è la tecnica stessa. È discorso che viene da Engels l’ammirazione per le grandi organizzazioni (la ferrovia e il supertrust come prodromi del socialismo). L’elemento tecnico, a differenza di quello statale, non viene «spezzato», bensì preso com’è e «usato». Fino al punto di contraddire parzialmente il discorso sulla distruzione dello Stato borghese, perché in esso sono evidentemente mescolate le creazioni della tecnica e i suoi specialisti: «il capitalismo ha creato apparati di controllo come le banche, i cartelli, la posta […]. Le grandi banche sono l’“apparato statale” che ci è necessario per la realizzazione del socialismo e che noi prendiamo già pronto dal capitalismo. Perciò il nostro compito, in questo campo, consiste soltanto nel tagliare da questo magnifico apparato ciò che lo deturpa in senso capitalista, renderlo ancora più grande, più democratico, più universale. La quantità si trasformerà in qualità. […] Questo “apparato statale” […] possiamo “prenderlo” e “metterlo in movimento” di colpo, con un solo decreto»[20].

È prefigurato in queste riflessioni un problema che non riguarda solo la Russia o il 1917, ma parla al nostro mondo. L’idea della tecnica come “strumento neutro” si è assolutizzata producendo l’ideologia della neutralità, che ha creato oggi ampi apparati (pubblici e privati): autorità indipendenti, banche centrali indipendenti, enti internazionali, apparati finanziari, etc. Mentre “burocrazia” indica un corpo legittimato dallo Stato di cui fa parte, per questi apparati la legittimazione sta in re ipsa, nella stessa idea di neutralità (che ovviamente è illusoria, perché è carica di contenuti: ideologia). Si parla dunque di tecnocrazia. Se Lenin lanciava la parola d’ordine: tutta l’amministrazione deve essere funzione, strumento del popolo e da esso esercitata; oggi la parola d’ordine è inversa: tutta l’amministrazione dev’essere vieppiù svincolata dal popolo, dalla democrazia, dagli Stati, dalla politica (tanto più svincolata, tanto meglio, ad esempio: la Banca centrale è legittima se e solo se è autonoma dallo Stato). Essa assume un ruolo politico, non giustificato se non dalla sua stessa ideologia, funzionale al capitalismo. Per quanto meccanica, la riflessione leniniana e marxiana sul riassorbimento della separatezza dell’illusoria funzione universale dei corpi separati poneva una questione di grande momento, oggi ancora più che allora, visto che la separatezza assurge a valore assoluto.

 

Lenin e la questione del potere

Questione che causa «sacro orrore»[21] è quella della dittatura, che Lenin stesso definisce come «il potere non appoggiato sulla legge, ma sulla forza immediata delle masse armate della popolazione»[22]. Essa è caratterizzata dal suo stesso obiettivo (come tutte le dittature, è orientata al fine), che nel caso di specie è l’estinzione dello Stato. Ciò fornisce il criterio di fondazione della sua legittimità, poiché se «non si prefiggesse di rendersi superflua, si ridurrebbe a un dispotismo arbitrario»[23]. Lenin, nelle settimane in cui matura la convinzione che il potere andrà preso con un colpo di mano, precisa che l’obiettivo teorico non è il potere eterno dei bolscevichi, ma la fine dello Stato. Questione decisiva è, poi, se vi sia un limite, e quale sia, alla «forza immediata» (limite immanente o derivante da un valore esterno, normativo?). Lo sconcerto che possono destare oggi questi concetti è legato, oltre che al senno di poi e a un uso ideologico della parola “dittatura”, a una questione tutta teorica. Il senso comune odierno è abituato a ragionare di un potere completamente giuridificato, in ossequio al normativismo kelseniano, quando non della «sovranità dei valori». Ma così come il kelsenismo ha il suo limite teorico nel fatto che l’ordinamento giuridico poggia su null’altro che il fatto che lo fonda e lo tiene in piedi, anche Lenin ci aiuta a ricordare che il potere è una questione di forza (idea che non viene meno neanche con Gramsci, tranne che nelle sue letture riformistiche): «nella vita dei popoli i grandi problemi vengono risolti esclusivamente con la forza»[24]. Di qui anche un certo connubio tra linguaggio politico e linguaggio militare (Lenin era attento lettore di Clausewitz, al quale appartiene la nota massima che lega politica e guerra), presente ad esempio nell’idea che il partito rivoluzionario debba conoscere altrettanto bene l’arte dell’offensiva e quella della ritirata.

Questo metodologico realismo politico, che scorre tra le righe del Lenin pubblicista e informa la sua azione politica, è un insegnamento cui vale la pena di prestare ascolto, in un’epoca in cui la politica si coniuga all’ottativo. Rientrano tra i concetti tipici del leninismo, talora ostici oggi: l’organizzazione (la spontaneità, da sola, non si eleva dal terreno dell’ideologia dominante); la pratica politica in tutti i suoi aspetti, che sappia lanciare parole d’ordine chiare e non sia così infantile da rifuggire dal compromesso, se necessario (purché non si tratti di opportunismo); la politica che agisce sia qui e ora, con la capacità di cogliere la fase, sia nei tempi lunghi: «Noi ci prepariamo, continueremo a prepararci e saremo pronti»[25]. La lettura di Lenin ci sprofonda nella questione del potere, anche nei suoi aspetti meno gradevoli o comodi; ci ricorda che una politica che sia un filantropico tendere verso i poveri e gli umili è cosa borghese, da «amici del popolo». La politica di Lenin è quella fatta dal popolo in armi, ciò che vuol dire, mutatis mutandis: o ci si pone seriamente la questione del potere in tutti i suoi aspetti, oppure si fa chiacchiera. Porla seriamente vuol dire partire non dall’aspetto istituzionale-elettorale, ma dalla lettura complessiva della realtà, dall’identificazione delle proprie forze attuali e potenziali, dalla loro organizzazione, dall’identificazione degli obiettivi immediati e futuri e della strategia per raggiungerli nella fase politica attuale, in un’ottica di medio-lungo periodo e di scontro, anche duro, tra forze: riscoperta della dimensione del conflitto, di cui è fatta la storia. Sicuramente un «versare un poco di aceto e fiele nell’acqua inzuccherata» che sorseggiano le anime belle.


[1] V.I. Lenin, I Bolscevichi devono prendere il potere, in La rivoluzione d’ottobre, Feltrinelli, p. 126.

[2] Id., Stato e rivoluzione, Donzelli 2017, p. 195.

[3] Ivi, p. 85.

[4] Ivi, p. 130.

[5] Ivi, p. 112.

[6] K. Marx, Critica al programma di Gotha, Massari 2008, p. 53.

[7] Ivi, p. 55.

[8] V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 169.

[9] F. Engels, Dell’autorità, in Marx-Engels, Marxismo e anarchismo, Editori Riuniti 1973, p. 81.

[10] T. Krausz, saggio introduttivo a Stato e rivoluzione, cit., p. 41.

[11] V.I. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, in Opere scelte, Editori Riuniti 1970, p. 1118.

[12] Id., I bolscevichi conserveranno il potere statale?

[13] Id., I compiti immediati, cit., p. 1109.

[14] Id., I bolscevichi conserveranno il potere statale?, cit.

[15] Id., Stato e rivoluzione, cit., pp. 125-26.

[16] Id., I compiti immediati, cit., p. 1118.

[17] Id., Successi e difficoltà del potere sovietico, in Opere scelte, cit., pp. 1228-29.

[18] Ivi, p. 1231.

[19] Ivi, p. 1232.

[20] Id., I bolscevichi conserveranno il potere statale?, cit.

[21] Id., Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, in Opere scelte, cit., p. 415.

[22] Id., I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione, in La rivoluzione d’Ottobre, cit., p. 18.

[23] C. Schmitt, La dittatura, Laterza 1975, p. 9.

[24] V.I. Lenin, Due tattiche, cit., p. 416.

[25] Id., Che fare?, in Opere scelte, cit., p. 169.

Scritto da
Cosimo Francesco Fiori

Nato nel 1988 a Sassari. Dopo la laurea triennale in Filosofia e gli studi presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, studia Giurisprudenza all'Università di Pisa.

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