Recensione a: Lorenzo Mesini, Stato forte ed economia ordinata. Storia dell’ordoliberalismo (1929-1950), il Mulino, Bologna 2023, pp. 240, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Non è possibile cogliere l’intima natura dell’attuale ordinamento economico e giuridico della Germania senza porre lo sguardo sulla corrente intellettuale nota sotto il nome di ordoliberalismo. Si tratta di una dottrina nata verso la fine degli anni Venti del secolo scorso, nell’orbita culturale della rivista Ordo e di quella che sarà poi battezzata come Scuola di Friburgo, che ha visto come propri maggiori interpreti pensatori quali Walter Eucken, Franz Böhm, Alexander Rüstow, Alfred Müller-Armack e Wilhelm Röpke. Il comune denominatore era dettato dall’esigenza di trovare una veste economico-costituzionale alla Germania che recidesse ogni rapporto da un lato con qualsivoglia concentrazione di potere in capo allo Stato, caratteristica tipica delle economie pianificate, dall’altro con la fede in un libero mercato capace di autoregolarsi, destinato invero a diventare sede di monopoli, cartelli e interessi corporativi. La soluzione, al netto dell’intrinseca polifonia che ha contraddistinto questa scuola di pensiero, dettata dalle diverse sensibilità, nonché formazioni intellettuali, dei suoi protagonisti, può essere così efficacemente riassunta: Stato forte ed economia ordinata.
Tale è il calzante titolo del volume, pubblicato da il Mulino, del diplomatico Lorenzo Mesini, frutto di un approfondito lavoro di ricerca sulla storia dell’ordoliberalismo, con particolare riferimento all’arco temporale che va dal 1929 al 1950. Sull’importanza della periodizzazione storica l’autore insiste sin dalle prime righe. Difatti, troppo spesso il dibattito sull’ordoliberalismo è rimasto appiattito sulla stagione di ricostruzione e boom economico della Germania nella seconda metà del Novecento, tra, per l’appunto, principi ordoliberali, economia sociale di mercato e figure note come Ludwig Erhard e Konrad Adenauer, quando invece la sua genesi ha una precisa collocazione storica, in un contesto internazionale e domestico che non può essere trascurato. Nel complesso, la ricerca di Mesini vuole emanciparsi dai due filoni principali della letteratura sul tema: da un lato quello tendenzialmente apologetico, volto a evidenziare soprattutto le virtù di tale dottrina in relazione alla storia di successo della Repubblica federale tedesca nel secondo dopoguerra; dall’altro quello critico, interpretato, prima fra tutti, da Michel Foucault, che ha sì il merito di avere richiamato l’attenzione di un più ampio pubblico sull’importanza dell’ordoliberalismo, ma che ha assunto un approccio troppo strumentale alla proiezione ideologica dei suoi fautori – nel caso di Foucault, la ricostruzione fornita risulta, scrive Mesini, «interamente funzionale al suo intento programmatico di studiare il liberalismo come quadro generale della biopolitica» (p. 14). Non ritenendo sufficienti le letture di carattere strettamente teorico del fenomeno, Mesini colloca il punto di partenza della propria ricerca proprio sulla storicizzazione di tale corrente intellettuale: «Lungi dal rappresentare un prodotto del secondo dopoguerra o la reazione intellettuale alla nascita del Terzo Reich nel 1933, l’ordoliberalismo affonda le sue radici nei dibattiti e nei problemi sorti in Europa dopo la fine della Prima guerra mondiale. Fu una particolare combinazione di circostanze nazionali e internazionali a segnarne la nascita: il programma ordoliberale nacque inizialmente entro la crisi di Weimar e sulla scia della crisi economica mondiale del 1929; si sviluppò in seguito seguendo criticamente la politica economica del Terzo Reich; infine ispirò i programmi economici del dopoguerra» (p. 9). Difatti, se è vero che l’ordoliberalismo ha assunto una dimensione pratico-egemonica in occasione della ricostruzione della Repubblica federale e del processo di integrazione europea – sino a vedere i propri principi cristallizzati nei Trattati comunitari –, allo stesso tempo la genesi e la maggiore produzione intellettuale dei suoi interpreti si colloca in un’altra epoca e da questa, inevitabilmente, dipende.
La trattazione di Mesini si suddivide in tre macro-capitoli: il primo si concentra sulle origini dell’ordoliberalismo (1929-1932), nella cornice della crisi di Weimar e, in generale, di un più ampio dibattito sulla definizione delle strategie per affrontare la crisi del capitalismo e dello Stato; il secondo si focalizza sullo sviluppo di tale dottrina (1933-1942), in termini di contrapposizione rispetto alle politiche economiche del Terzo Reich; il terzo è dedicato invece alla compenetrazione tra ordoliberalismo ed economia sociale di mercato (1943-1950) in occasione della ricostruzione della Germania nel secondo dopoguerra.
«Nel complesso questo libro è costruito su un doppio livello di analisi: uno di carattere storico, in cui si ricostruisce lo sviluppo dell’ordoliberalismo nei suoi testi principali, e uno teorico, in cui si prende in esame il paradigma ordoliberale. Attraverso questo doppio livello si è cercato di fare emergere la natura ambivalente dell’ordoliberalismo: non originale sul piano filosofico ma radicale nei progetti rivolti alla politica tedesca, rigido e dogmatico sui principi ma estremamente flessibile e adattabile sul piano politico, capace di collegarsi a differenti posizioni in sede teorica e politica ma determinato a pretendere un indiscutibile primato operativo» (p. 12).
Il volume si basa soprattutto sui testi dei maggiori protagonisti del movimento, rigorosamente inseriti nel contesto storico di riferimento. Da tale lettura simultanea emerge con limpidezza la polifonia della corrente ordoliberale, in termini di formazione accademico-intellettuale, biografie e sensibilità politica: si avrà così da un lato Walter Eucken, formatosi su una concezione conservatrice e borghese della politica nazionale, e dall’altro Alexander Rüstow, che arriverà alla convergenza accademica con il primo da una diversa sensibilità, quella del socialismo di matrice etica e religiosa; ancora, accanto alla formazione economica di Walter Eucken vi è quella giuridica di Franz Böhm, tra i maggiori fautori di uno specifico diritto della competizione (Kampfrecht). Importanti sono anche le differenti decisioni individuali prese dopo il 1933, con Röpke e Rüstow che scelsero l’esilio, onde evitare qualsivoglia forma di connivenza con il regime, mentre gli altri esponenti rimasero in patria e proseguirono le proprie attività accademiche e professionali nella Germania nazista, per quanto in opposizione rispetto alle scelte economiche del Reich, incentrate sulla pianificazione dell’economia, lo sforzo bellico e l’incremento della produzione.
In questo mosaico intellettuale, così squisitamente polifonico, emergono ciononostante dei punti comuni che permettono di trarre dalla dottrina ordoliberale alcuni principi fondamentali. Vi sono innanzitutto questioni profondamente legate al contesto storico: ad esempio, secondo Eucken e Rüstow, la Germania dell’epoca «avrebbe dovuto intraprendere una politica di libero scambio a sostegno delle esportazioni, poiché solo accumulando un crescente surplus commerciale con l’estero le sarebbe stato possibile risolvere la questione delle riparazioni di guerra» (p. 40); oppure, l’esigenza della stabilità monetaria, della parità di bilancio e di una banca centrale indipendente risentiva senz’altro dello spettro dell’inflazione degli anni di Weimar, così come le precauzioni in termini di austerità fiscale trovavano radici nel peculiare panorama internazionale del primo dopoguerra, ove l’austerità era propagata da coloro che temevano politiche revisioniste e di riarmo finanziate in disavanzo. Dopodiché, i pensatori ordoliberali arrivarono tutti a convenire sull’esigenza di uno Stato forte, in grado di costruire le regole del gioco economico attraverso un’adeguata infrastruttura giuridica, tale da garantire la concorrenza ed evitare concentrazioni di potere, sia privato (monopoli, cartelli, interessi corporativi) che pubblico (pianificazione statale, controllo dei prezzi). In merito, il giurista Franz Böhm propugnava una vera e propria “politica del diritto”, che fosse capace di regolare e tutelare l’economia di mercato. Presupposto necessario per tale politica del diritto era la presenza di uno Stato forte, necessità avvertita anche da Rüstow: «Tra il controproducente interventismo economico – “una medicina dal sapore dolce ma che ha definitivamente mostrato i suoi risultati catastrofici” – e la scelta di non intervenire, lasciando l’economia tedesca al suo libero corso, anche Rüstow individuava nello “Stato forte” (starker Staat) una terza modalità di concepire il rapporto tra politica ed economia. Lo Stato forte, senza alterare le dinamiche del mercato, si poneva esclusivamente il compito di tutelarne attivamente i principi fondamentali» (p. 61). L’ordine era il corollario di tale prospettiva: «Per l’ordoliberalismo la politica è chiamata a svolgere una funzione ordinatrice e di garanzia della dimensione sociale dell’agire economico. Dimensione di cui essa deve riconoscere e rispettare le dinamiche intrinseche e che deve liberare da vincoli e ipoteche esterne […] Il vero primato, all’interno del paradigma ordoliberale, non è dunque ascrivibile alla politica […] ma alla scienza economica» (p. 120). Alla scienza economica e, di conseguenza, al diritto che la rende possibile, come aveva colto Franz Böhm, forse tra i più lucidi, a parere di chi scrive, nell’individuare nella primazia del diritto la vera essenza della dottrina ordoliberale: ossia la centralità di una adeguata infrastruttura giuridica, di marca statale, a tutela del mercato. Infine, un abbozzo di sistematizzazione complessiva della politica economica ordoliberale, che merita di essere menzionato, è quello offertoci da Walter Eucken, che soleva distinguere tra la categoria dei principi costitutivi e quella dei principi regolativi: tra i primi, tasselli fondamentali dell’ordine concorrenziale, figurano il primato della politica monetaria, la costanza della politica economica, l’apertura dei mercati, la proprietà privata, la libertà contrattuale, la responsabilità; tra i secondi, necessari per garantire i primi, l’economista menziona la politica antimonopolistica, la politica fiscale (limitatamente) progressiva, la contabilità economica e le misure contro i comportamenti anomali nell’offerta di lavoro.
Tutti questi principi, integrati dalla dottrina dell’economia sociale di mercato, vennero assunti come base della nuova anima giuridico-economica della Repubblica federale tedesca, sancita dalla Costituzione del 1949. In quel frangente, la corrente ordoliberale riuscì a trovare il contesto internazionale, economico e culturale necessario per farsi egemonica all’interno della società tedesca, aspetto che mancò negli anni Trenta. Una via tecnocratica verso la modernizzazione atta a sopire le spinte politiche, in nome dell’autonomia della scienza economica dalla politica. Approccio che sarà poi in larga parte trasposto nell’architettura europea che, in questo senso, rappresenta un prodotto squisitamente tedesco e, dunque, ordoliberale: si pensi alle norme sulla concorrenza (art. 101 ss. TFUE) o, ancora, a quelle sugli aiuti di Stato (artt. 107 e 108 TFUE); così come ai principi di corretta amministrazione, trasparenza, non discriminazione, tutela del consumatore, nonché le rigidità relative a deficit e debito (una sorta di feticcio che indirettamente dovrebbe garantire un buon funzionamento dell’economia senza storture; ordine e armonia dalle ingerenze indebite della politica). Dopotutto, «corrispondeva ai principi ordoliberali l’idea stessa di istituire tramite il diritto una nuova comunità politica a partire dalla nascita di un mercato comune» (p. 214).
Il volume di Mesini rappresenta un prezioso approfondimento sulla storia dell’ordoliberalismo, che volgendo lo sguardo verso il passato parla anche del presente. L’attualità della tematica è innegabile: non solo per cogliere l’intima natura della Germania, ma anche per affacciarsi al costrutto giuridico-economico comunitario. L’ordoliberalismo si fonda sulla primazia della scienza economica e dunque del diritto, anche come frutto storico del contesto di (e in contrapposizione alla) iper-politicità caratterizzante la stagione del primo dopoguerra. Autonomia dalla politica e ordine del mercato garantito da uno Stato forte. La pretesa dimensione tecnocratica e neutrale renderà tale dottrina il prodotto costituzionale, economico e culturale più adatto per la ricostruzione della Germania secondo la categoria della potenza civile (e politicamente sedata). Non solo: rappresenterà anche l’architettura più idonea per una Unione Europea figlia della fine della storia, a-politica per essenza – in quanto Unione di Stati autonomi, sovrani e con la propria identità – e finalizzata alla tutela giuridica di un mercato comune il più armonico possibile.
È chiaro, pertanto, come l’attuale fase storica – in cui Stato, protezionismo, politica industriale, utilizzo dell’armamentario giuridico ed economico per raggiungere obiettivi geopolitici, ri-globalizzazione e capitalismo politico rappresentano i concetti e le parole d’ordine – si ponga come un ostacolo all’ortodossia ordoliberale. Il che rappresenta una sfida sia per la Germania che per l’Unione Europea. L’invito di Mesini, espresso nelle ultime pagine, a non appiattirsi su principi ossificati e rivedere taluni paradigmi pare proprio indicare l’improrogabile esigenza, alla luce del mutato contesto storico, di un serio dibattito in merito.