Lo Stato come innovatore “organizzativo”
- 07 Agosto 2018

Lo Stato come innovatore “organizzativo”

Scritto da Lorenzo Cattani

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L’intervento pubblico nell’economia è certamente uno dei temi maggiormente discussi da esperti, giornalisti, accademici e politici poiché tocca un tema fondamentale per le economie capitaliste, che può essere riassunto con la seguente domanda “quanto mercato possiamo permetterci?”.

Le motivazioni usate a sostegno della tesi per cui lo Stato debba intervenire sulla sfera economica sono tante. Sicuramente una delle più importanti è di natura tecnologica/produttiva e afferma che lo Stato sia un attore fondamentale per il processo di innovazione (negli ultimi anni l’autrice che meglio ha saputo avanzare simili argomentazioni è certamente Mariana Mazzucato[1]).

In questo breve articolo non si intende discutere il ruolo dello Stato in virtù del contributo che questo può dare all’innovazione tecnologica, ma si propone invece una riflessione su quella che potremmo chiamare “l’altra faccia dell’innovazione”, l’innovazione “organizzativa”, e il ruolo che lo Stato può avere anche nel ripensare i modi con cui organizzare il lavoro nelle imprese. Per fare ciò, verrà proposto un caso di studio particolare, che riguarda il programma di formazione per i quadri dell’IRI, lanciato verso la fine degli anni Cinquanta.

 

IRI: la formazione dei quadri

All’interno del volume Il “miracolo economico” e il ruolo dell’IRI, curato da Franco Amatori, Fabio Lavista e Ferruccio Riccardi ricostruiscono l’iniziativa lanciata dall’IRI relativa alla formazione di quadri intermedi con un profilo diverso rispetto a quanto fatto dalla nascita dell’istituto fino agli anni Cinquanta. In precedenza, l’Istituto aveva organizzato corsi di formazione per i manager limitati ad un approccio fortemente specialistico: la decisione di offrire questi corsi nasceva dalla presa di coscienza da parte dei dirigenti dell’IRI “che i giovani laureati italiani in discipline tecniche difettavano di preparazione. Tali deficienze si manifestavano non solo nella mancanza di un sapere pratico per quanto riguardava il lavoro di officina, oppure nell’insufficiente specializzazione tecnico-scientifica in relazione ad argomenti specifici, ma più in generale nella mancanza di esperienza e di capacità di percepire gli elementi essenziali di una gestione industriale”[2].

L’idea era quindi di fornire competenze altamente specifiche ai vari ingegneri che l’Istituto si proponeva di mettere a comando del ciclo produttivo. Ad esempio, come ricordano gli autori, per la sezione dedicata agli ingegneri siderurgico-meccanici erano stati pensati i seguenti moduli: miniera minerale ferro, altiforni, acciaieria, laminazione, fabbricazione tubi, fabbricazione latta e bande stagnate, acciai speciali, grossa e piccola fucinatura, fonderia acciaio, ghisa, bronzo e leghe leggere, costruzioni navali, grossa meccanica, meccanica di precisione, costruzioni elettromeccaniche, radio, costruzione di automobili, costruzione di idrovolanti, motori di aviazione, armi e proiettili, carpenteria.

Le cose tuttavia cambiarono a partire dal 1959 quando l’IRI, sotto consiglio di Pasquale Saraceno, Giuseppe Glisenti e Felice Balbo, commissionò un’indagine alla Booz Allen Hamilton, una società di consulenza statunitense. L’indagine era interamente dedicata a comprendere le necessità dei quadri intermedi nei confronti della formazione e le interviste condotte in quel periodo mostrarono diversi problemi organizzativi, che andavano a incidere in particolare sui rapporti tra i quadri intermedi e l’azienda. Il problema principale era sicuramente l’accentramento delle responsabilità e la scarsa attività di delega nei confronti dei quadri. Gli autori hanno raccolto alcune delle dichiarazioni emerse durante il ciclo di interviste che forniscono un quadro del problema. Riportiamo qualche esempio:

In questa azienda tutti vogliono controllare in dettaglio il lavoro del proprio reparto e così vi è ben poca delega di responsabilità e di autorità

La nostra azienda è vecchia e conservatrice. Di conseguenza sono malvisti cambiamenti e miglioramenti. Qui una persona viene promossa se diligente, non se ha iniziativa.

Nella nostra azienda tutto il lavoro di organizzazione viene svolto dall’alta direzione e da un reparto speciale. Raramente un giovane quadro dà suggerimenti nel campo della programmazione e dell’organizzazione.[3]

È da questi risultati che l’IRI lancerà una proposta “generalista”, in cui Felice Balbo svolgerà un ruolo fondamentale. Balbo voleva formare quadri che fossero sì tecnici, ma che avessero anche una forma mentis che permettesse loro di sviluppare capacità di analisi e problem solving. I corsi relativi alla formazione di questi nuovi quadri non si svilupparono attorno ad “aree di problemi”[4] che i partecipanti ai corsi dovevano risolvere. Se prima si dava grande importanza alle materie tecniche, il focus si sposta ora anche su tematiche come le previsioni di vendita, la programmazione della produzione e dei programmi di investimento, passando per i sistemi di rilevazione dei dati economico-finanziari e il controllo dei risultati di vendita. La figura che si cerca di creare è quindi quella del manager “generalista”[5], che sviluppa competenze trasversali al settore in cui opera e che, di conseguenza, non è vincolato all’esercizio di una sola attività. Non a caso le attività di consulenza sono state affidate ad un’azienda statunitense: nei paesi anglo-sassoni il profilo generalista è infatti molto diffuso fra i manager.

Il risultato fu quindi un decentramento delle responsabilità dal top management al middle management, con i quadri che iniziarono ad avere molte più responsabilità. Ancora più interessante sarà vedere come alla fine degli anni Sessanta questo processo verrà portato avanti coinvolgendo anche i lavoratori. Lavista e Ricciardi parlano infatti di come alcune ricerche svolte dall’Ifap (l’istituto di ricerche e formazione di direzione aziendale), si tradussero in attività volte all’implementazione di misure ergonomiche all’interno dello stabilimento, nonché di “autonomia organizzativa con la partecipazione dei lavoratori”. 

 

Relazioni Umane e Risorse Umane

È interessante ricollegare quanto visto nel caso dell’IRI con alcune teorie sulle risorse umane. Nello specifico, è importante discutere questo caso alla luce del lavoro di autori come McGregor e Miles che, nella prima metà degli anni Sessanta, hanno lavorato sull’idea di leadership partecipata. È soprattutto nei confronti delle tesi di Miles che va analizzato il lavoro di formazione dei quadri intermedi dell’IRI. Non sembrerebbe che né i dirigenti IRI né i consulenti americani avessero in mente in modo chiaro l’idea della leadership partecipata, tuttavia la leadership partecipata appare essere il risultato della loro iniziativa. Per questo motivo è interessante “incrociare” l’esperienza pratica dell’IRI con quanto prodotto dalla letteratura scientifica e accademica. Nel 1965, in un articolo intitolato, per l’appunto, “Human Relations or Human Resources?” l’autore sosteneva che i manager adotterebbero due approcci diversi nei confronti della leadership partecipata: uno che viene applicato ai loro sottoposti e un altro che invece viene applicato a sé stessi e ha a che fare con il modo con cui i manager vorrebbero essere impiegati dai loro superiori.

Il primo approccio è quello delle “Relazioni Umane”. In questo caso la cosa più importante è utilizzare la partecipazione per far sì che i sottoposti di un dato manager si sentano utili, in modo da assicurarsi il loro rispetto nei confronti dell’autorità. I sottoposti vengono coinvolti nel processo decisionale, ma nessuno si aspetta che tramite una maggior partecipazione si possano raggiungere esiti migliori. Come afferma Miles, l’idea per cui i dipendenti possano notare elementi che al manager sono sfuggiti non viene presa in considerazione; un simile esito è, al massimo, ritenuto come un effetto collaterale benevolo di un processo che in ogni caso mira a scongiurare il conflitto e ad ottenere un maggior rispetto della disciplina. Questa è un’idea che non si discosta molto dagli stili di management più classici, tipici dell’organizzazione taylorista del lavoro[6]. L’unica differenza sta nell’introduzione di un metodo di controllo soft come la leadership partecipata.

Il secondo approccio, quello delle “Risorse Umane, vede i dipendenti come fonti di risorse ancora inesplorate, come suggerisce Miles, e implica un’idea organizzativa completamente diversa dalla precedente. L’idea è che la partecipazione al processo decisionale non sia necessaria per garantire il rispetto della gerarchia, ma per via del fatto che le persone che sono maggiormente a contatto con le ,ansioni in questione siano le più adatte ad esercitare il controllo. Più sono importanti le decisioni da prendere e più è importante coinvolgere le “prime linee”, ovvero i lavoratori e i manager che si occupano delle attività quotidiane dell’azienda.

Può il caso della formazione dei quadri nell’IRI essere visto come un esempio di transizione verso un approccio di “Risorse Umane”? Molto probabilmente sì, perché quello che è stato fatto nel concreto ha visto una concessione di maggior autonomia nei confronti dei manager di medio livello. I quadri hanno infatti acquisito competenze relative alla pianificazione strategica, come ad esempio la politica dei prezzi o la funzione dei capi e la loro posizione nel processo decisionale o ancora la politica di sviluppo aziendale in condizioni dinamiche (tutte “materie” su cui venivano erogati programmi di formazione. Queste sono competenze che in un’azienda fortemente gerarchica sono solitamente prerogativa del top management, ma con il programma di formazione portato avanti dell’IRI sono state “estese” anche ai quadri intermedi, segno delle maggiori responsabilità di cui il middle management deve ora farsi carico. Questo conduce, infine, alle conclusioni dell’articolo circa il ruolo dello Stato. 

 

Conclusioni sullo Stato innovatore

Lo Stato viene descritto come un attore fondamentale per il processo di innovazione tecnologica. Nel caso italiano, come affermato da Pierluigi Ciocca[7], lo Stato ha lavorato sulla frontiera della tecnologia, compensando la mancanza di investimenti da parte del capitalismo privato. Tuttavia, il caso considerato in questo articolo mostra che c’è un’altra faccia della medaglia quando si parla di innovazione. In un momento in cui il principio organizzativo principale era quello taylorista, dove la gerarchia e l’autorità davano vita ad aziende verticistiche, in cui tutto veniva deciso ai “piani alti” dell’azienda e i quadri e i lavoratori avevano un ruolo di mera esecuzione (con i lavoratori che, naturalmente, avevano meno autonomia di tutti gli altri), lo stato italiano, tramite l’IRI, era riuscito a lanciare una riflessione che andava nella direzione opposta a quella che allora era la visione maggioritaria.

È anche interessante notare come l’IRI abbia avviato questo processo negli stessi anni in cui McGregor parlava di leadership partecipata (il suo famoso articolo circa la “teoria x e la teoria y” è del 1960) e alcuni anni prima che Miles pubblicasse il suo lavoro appena menzionato. È quindi interessante notare come in quegli anni l’IRI non si muovesse solo sulla frontiera della tecnologia, ma anche sulla frontiera dell’organizzazione[8]

Naturalmente questo percorso va inserito nel periodo storico in cui è avvenuto: il ruolo dei lavoratori verrà preso in considerazione solo verso la fine degli anni Sessanta, ma è innegabile che l’IRI avesse dato inizio ad un processo di decentramento delle responsabilità, che continua ad essere al centro dell’attenzione anche in questi anni. In un recente articolo di Pandora sul taylorismo digitale si è discusso di come non vi sia un’unica interpretazione circa l’organizzazione del lavoro. Alcune aziende avrebbero optato per ribadire il percorso di trasferimento delle responsabilità verso le prime linee (il cui focus è ora soprattutto sui lavoratori), mentre altre avrebbero puntato su un rafforzamento della gerarchia e del controllo dall’alto tramite il cosiddetto “taylorismo digitale”, che non è escluso abbia conseguenze negative sui lavoratori in termini di stress, specialmente ora che i “lavoratori della conoscenza” sono una quota sempre maggiore della forza lavoro.

Questi cambiamenti organizzativi non possono essere lasciati solo alle aziende, poiché gli esiti sarebbero inevitabilmente legati al tipo di cultura aziendale e ai valori che ciascuna impresa sceglie di coltivare. Oltre a guidare l’innovazione tecnologica, è fondamentale che lo Stato svolga un ruolo guida anche per quanto riguarda i cambiamenti “organizzativi”.

Nel caso italiano, per cui il ruolo dello “stato produttore” è molto più importante rispetto alle altre economie, questo rappresenta un’ulteriore punto a favore per la creazione di una “IRI della conoscenza”, poiché il sistema produttivo italiano è caratterizzato da una élite di aziende innovative che operano sulla frontiera della tecnologia, e anche dell’organizzazione, ma allo stesso tempo vi sono moltissime aziende che non sono disposte ad eseguire investimenti di questo tipo. È quindi fondamentale che lo Stato non si occupi solo dell’innovazione tecnologica, che è condizione necessaria ma non sufficiente per rilanciare il sistema produttivo e traghettare le aziende verso il lavoro del futuro.


[1] Mazzucato, M. (2015), Lo Stato innovatore, Laterza.

[2] Lavista, R. e Riccardi, F. (2013), Le nuove funzioni d’impresa: formazione, comunicazione, ricerca e sviluppo, in Amatori, F. (a cura di) Il “miracolo economico” e il ruolo dell’IRI, pp 250-67, Laterza.

[3] Le seguenti dichiarazioni possono essere consultate sul capitolo scritto da Lavista e Ricciardi nel volume curato da Amatori.

[4] A livello metodologico è interessante notare che in questo frangente venne introdotto per la prima volta in Italia il sistema del business case, che negli USA fu utilizzato per la prima volta all’inizio del Novecento da parte della Harvard Business School e che è tutt’ora uno dei metodi d’insegnamento più utilizzati nelle business school di tutto il mondo.

[5] L’idea è quindi quella di dare completare le competenze tecniche altamente specifiche che di cui i quadri già erano in possesso, con competenze di business administration.

[6] Miles, R. E. (1965), Human-relations or human-resources, in Harvard Business Review, 43(4), 148.

[7] Ciocca, P. (2015), L’IRI nell’economia italiana, Laterza.

[8] Ovviamente la differenza principale è che l’IRI è arrivato alla conclusione di decentrare le responsabilità in seguito ad un indagine anziché tramite la formulazione di una teoria.

Scritto da
Lorenzo Cattani

Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Ha frequentato un Master in Human Resources and Organization alla Bologna Business School (BBS) e conseguito la laurea magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università di Bologna.

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