“Statualità e minoranze” di Alessia Melcangi
- 17 Aprile 2019

“Statualità e minoranze” di Alessia Melcangi

Recensione a: Alessia Melcangi, Statualità e minoranze: meccanismi di resistenza e integrazione in Medio Oriente. Il caso dei cristiani copti in Egitto, Ledizioni, Milano 2018, pp. 238, 24 euro (scheda libro)

Scritto da Gabriele Sirtori

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Questa recensione a Statualità e minoranze si inserisce in un filone di approfondimento sul Medio Oriente condotto dalla redazione di Pandora che ha portato alla pubblicazione del volume Il trono di sabbiaStato, nazione e potere in medio oriente edito da Rosenberg & Sellier. Si tratta di un volume di interviste ad importanti esperti italiani di Medio Oriente e un esperimento editoriale che muove dal desiderio di capire e approfondire un tema cruciale come quello del concetto di Stato nei paesi mediorientali. 


Egiziani, anzi i veri egiziani. È molto probabile che un cristiano copto citi questa caratteristica nel descrivere la comunità a cui appartiene. Eppure i copti nell’Egitto contemporaneo sono visti come una “minoranza”, qualsiasi cosa questo termine significhi. Sicuramente lo sono in termini numerici: tra i 15 e i 20 milioni, i cristiani formano circa il 15% della popolazione dell’Egitto, Paese che ha sul suo territorio la prestigiosa università islamica di Al-Azhar, fondata nel X secolo, Paese che ha visto la nascita della Fratellanza Musulmana e il cui presidente attuale, nella sua immagine ufficiale, ama fare pubblica dimostrazione della sua ardente fede islamica. L’Egitto è anche il Paese che ostacola i copti nell’accesso alle cariche pubbliche e a posizioni di alto livello nel privato.

Come risolvere questa apparente contraddizione? O meglio, come spiegare le diseguaglianze di trattamento e di rappresentanza istituzionale tra una comunità, numericamente minoritaria, che si sente orgogliosamente parte del proprio Stato, e la restante maggioranza della popolazione?

Una buona risposta la fornisce il libro di Alessia Melcangi “Statualità e minoranze: meccanismi di resistenza e integrazione in Medio Oriente” che, indagando sullo sviluppo identitario della comunità copta in Egitto in alcuni momenti chiave della storia del Paese, tocca un tema fondamentale per la comprensione del Medio Oriente attuale: la questione delle minoranze.

Minoranza, un termine politico

Prima di tutto una precisazione: il termine “minoranza” non ha sempre ricoperto l’importanza attuale nelle politiche di quest’area del mondo. L’autrice traccia uno sviluppo di questo concetto e trova un punto di svolta nel periodo del primo dopoguerra, in corrispondenza cioè con la creazione degli stati nazione attuali dalle ceneri dell’ormai dissolto Impero Ottomano.

Il Nord Africa e il Medio Oriente infatti si contraddistinguono per ospitare all’interno dei propri territori una grande diversità etnica e religiosa. Nel periodo pre-coloniale questa frammentazione era gestita, non senza diverse problematiche, attraverso l’istituto dei dhimmi (millet nella dicitura ottomana): alle comunità non musulmane venivano garantiti i principali diritti civili, come la protezione da parte dei governanti o il diritto di culto, dietro il pagamento di particolari imposte da cui i musulmani erano esentati. Questo da una parte sanciva ufficialmente la diversità della comunità in questione e la sua minorità rispetto alla più grande “ummah” (comunità) musulmana, dall’altra però garantiva la legittimità della presenza dei suoi componenti sul territorio e della loro partecipazione alla vita pubblica. Se pur consapevoli della propria diversità, i membri di queste comunità confessionali ancora non parlavano di sé come appartenenti a una “minoranza”.

All’inizio del XX secolo, con la fine dell’Impero Ottomano e la creazione dei moderni confini statali, spesso dettati dagli interessi delle potenze europee come nel caso dell’area levantina, si assistette ad un profondo mutamento. Il concetto di nazione appena importato dall’Europa, infatti, presupponeva l’esistenza, se non altro nella percezione collettiva, di una popolazione dalle caratteristiche omogenee abitante un territorio corrispondente a quello racchiuso dai confini statali. Una condizione problematica questa in un territorio variegato come quello mediorientale. Questo significò per le autorità governative, desiderose di implementare lo Stato moderno nelle nuove entità territoriali, la negazione, negli atti e nella retorica ufficiale, delle differenze etniche, religiose e culturali esistenti e il tentativo di diluizione delle diverse identità comunitarie in un’unica grande identità nazionale. È in questo periodo che inizia ad avere valore il concetto di “minoranza”, utilizzato inizialmente dalle potenze europee in riferimento alle comunità cristiane per giustificare le proprie interferenze con finalità “protettiva”.

Questo processo omogeneizzante risultò ancora più accentuato nel secondo dopo guerra, quando cioè molti Stati della regione ottennero l’indipendenza dalle potenze mandatarie e il nazionalismo divenne un termine chiave della retorica ufficiale dei loro leader. Lo storico Moncef Khaddar distingue due tipi di nazionalismo: un “nazionalismo anti-coloniale”, vario ed inclusivo nei confronti di tutti i settori della popolazione, formatosi in seguito alla coesione delle diverse voci della società durante la lotta contro le interferenze coloniali europee; a questo, nel secondo Novecento, si contrappose un “nazionalismo di Stato”  finalizzato alla conservazione delle élite al potere, maggiormente autoritario e omogeneizzante, volto a riconoscere un solo popolo unito da una storia, una cultura e un territorio condiviso. Questo nazionalismo nega la presenza in uno stesso Stato di comunità contigue e parallele distinte sì in virtù della loro appartenenza confessionale ed etnica ma unite secondo il principio di cittadinanza multiculturale.

È il caso dell’Egitto attuale dove la minoranza copta è vista, dai copti stessi e dalla narrazione ufficiale dello Stato, come una comunità caratterizzata da una certa estraneità rispetto al corpo sociale egiziano. Estraneità che si traduce in “necessità di tutela” da parte del governo, che così ne esce rafforzato, e che giustifica un trattamento diverso dei suoi membri – minori diritti, minori possibilità di carriera – rispetto alla maggioranza della popolazione.

Esclusione delle minoranze come sintomo della debolezza dello Stato

L’autoritarismo omogeneizzante in questi stati, spiega Melcangi, è spesso condizione necessaria alla loro sopravvivenza, alla luce della intrinseca debolezza delle istituzioni.

Per comprendere questo passaggio è necessario tornare al primo dopoguerra, momento critico più volte evidenziato dall’autrice. Guardando alla mappa del Medio Oriente in quel periodo, infatti, esso appare come una serie di contenitori vuoti “all’interno dei quali questi stati si potevano sviluppare, e si svilupparono, come istituzioni di potere e di appropriazione, con aspirazioni sia verso l’interno, sia verso l’esterno”. In altre parole l’indipendenza dalla Sublime Porta prima e dalle potenze coloniali poi fu l’occasione per i centri di potere allora presenti di istituzionalizzare il proprio controllo sullo Stato e sulla popolazione. Questo portò a quella che lo storico Nazih Ayubi definisce “aporia dello Stato-nazione arabo”: da una parte si assistette allo sviluppo di uno Stato iper-burocratizzato, invadente, dotato di una martellante retorica nazionalista e omogeneizzante e spietato nella repressione del dissenso, caratteristiche queste descritte dal termine “over-stating”; dall’altra si trattò (e si tratta) di stati profondamente deboli e sottosviluppati, specialmente dal punto di vista economico e democratico, ostaggio di vecchi centri di potere, spesso élite militari, costantemente in cerca di legittimazione per il proprio controllo sullo Stato, e attivi in politiche neo-patrimonialiste e dirigiste in ambito economico.

Il fenomeno di over-stating quindi sarebbe una compensazione della debolezza delle istituzioni di questi stati. Questo fu evidente soprattutto laddove, come nel caso dell’Egitto, al potere si trovarono le oligarchie militari che, dopo il colpo di stato dei Liberi Ufficiali del 1952, sostituirono definitivamente la borghesia e il notabilato nel ruolo di élite. Questa nuova classe dirigente, alla ricerca di una legittimazione per il proprio potere, operò a due livelli: a livello interno promosse un discorso retorico nazionalista e modernizzante, i cui strumenti furono la scolarizzazione di massa, il controllo dei mass-media e dei leader religiosi, musulmani e cristiani, e la negazione, nella propaganda ufficiale, della diversità interna alla popolazione egiziana; a livello esterno pose enfasi sulle rivendicazioni territoriali (come il controllo sul canale di Suez) in modo da generare coesione intorno ad una causa comune.

La diversità anziché ricchezza venne letta come pericolo. Ammettere l’esistenza di una società plurale significava mettere in discussione la scarsa inclusività delle istituzioni che la governano, evidenziandone la debolezza e mettendo in luce la scarsa democraticità dei centri di potere che controllano lo Stato.

Il risultato fu – e in molte realtà, come l’Egitto, lo è ancora – la creazione di una netta divisione tra chi si riconosce nella propaganda ufficiale e gli esclusi dal potere. Il nazionalismo, anziché inclusivo, diventa una ideologia identitaria escludente, una sorta di “Majority Rule”, una dittatura della maggioranza.

Questa situazione si verifica anche laddove al potere si trova una comunità minoritaria – si vedano la Siria, il Bahrein, o l’Iraq di Saddam. La distinzione tra inclusi ed esclusi dalla propaganda identitaria ufficiale e quindi dal potere, resta viva. Le decisioni di inclusione ed esclusione in questo caso non seguono logiche demografiche, ma sono frutto della negoziazione diretta tra le comunità e il centro di potere statale: un’ulteriore affermazione della debolezza e del mancato radicamento delle istituzioni dello Stato e del principio di cittadinanza.

Anche in questi paesi si assiste alla presenza di forti retoriche nazionaliste che giustifichino l’estensione e la presenza del potere nelle mani della particolare comunità in quel momento al governo del Paese. Anche in questo caso le parti sociali escluse dal potere, come i curdi nel caso dell’Iraq di Saddam, la comunità sciita in Bahrein, le grandi conformazioni tribali dell’Est della Siria, finiscono per essere dimenticate anche nella retorica identitaria ufficiale dello Stato.

Questi macrogruppi sociali si trovano così davanti ad un bivio: accettare l’identità dominante, rinunciando agli attributi tipici della propria comunità, oppure sviluppare meccanismi culturali e sociali di difesa, conservando e rimodulando le proprie tradizioni distintive sviluppando però un rapporto di alterità ed estraneità – e in qualche caso ostilità o vittimismo – rispetto alla comunità nazionale dominante.

Scritto da
Gabriele Sirtori

Nato a Lecco nel 1996, studente di arabo e persiano, ha passato gli ultimi 3 anni tra Iran, Egitto, Libano, Kurdistan (iraniano) e il Veneto. Ha seguito corsi presso l'Università Ferdowsi di Mashhad, Iran. È studente del terzo anno presso l'Università Ca Foscari di Venezia.

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