Recensione a: Joseph E. Stiglitz, Invertire la rotta. Disuguaglianza e crescita economica, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 96, 8 euro, (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Negli ultimi trentacinque anni le disuguaglianze nei paesi occidentali sono aumentate a dismisura. La consolidata convinzione per cui “l’alta marea solleva tutte le barche, grandi e piccole”, cioè che la crescita economica porta maggiore ricchezza e un tenore di vita più alto a tutte le classi sociali, pare oggi più fragile, delegittimata dai fatti e dai numeri. Da quando il dogma neoliberista si è instaurato nelle università prima e nella politica poi, quindi agli inizi degli anni Ottanta, abbiamo assistito ad un considerevole aumento delle disuguaglianze. La crescita economica è finita nelle tasche dei pochi, causa le politiche regressive – a favore dei ricchi – adottate dai governi e, più in generale, una concezione economica incentrata sulla massimizzazione del profitto di breve termine e sull’imperativo categorico della crescita.
Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia 2001 e professore alla Columbia University, in apertura del suo piccolo volume Invertire la rotta. Disuguaglianza e crescita economica riporta la metafora della marea, per denunciare che, alla fine, «l’alta marea ha fatto salire solo i grandi yacht, lasciando molte delle barche più piccole a infrangersi contro gli scogli» (p.4).
Perché le disuguaglianze sono aumentate così drasticamente negli ultimi trentacinque anni? La disuguaglianza è il prezzo da pagare per avere una significativa crescita economica? Oppure è proprio la disuguaglianza a fungere da ostacolo alla crescita? Infine, è possibile invertire la rotta che negli ultimi anni ha fatto salire, rimanendo nella metafora, solo gli yacht e naufragare le barche più piccole?
Il premio Nobel Stiglitz in un piccolo volume di neanche cento pagine cerca di rispondere a questi quesiti, nel tentativo di dimostrare che la disuguaglianza non è qualcosa di ineluttabile, ma è frutto di precise concezioni economiche e scelte politiche.
Per comprendere appieno il problema delle crescenti disuguaglianze è innanzitutto necessario lavorare con i numeri. Secondo quanto riporta Stiglitz, basandosi sulla realtà americana, «fra il 1980 e il 2014, il reddito medio reale dell’1% più ricco della popolazione è aumentato del 169% (da 469.403 a 1.260.508 dollari al netto dell’inflazione) e la sua quota del reddito nazionale è più che raddoppiata (dal 10 al 21%)» (p.7). Ancora più sorprendenti sono i dati relativi allo 0,1 % dei super ricchi, che hanno visto il loro reddito medio reale crescere nello stesso periodo del 281%. Nel frattempo il reddito familiare mediano è cresciuto solo dell’11%, numero che sarebbe nettamente inferiore se non si calcolassero i primissimi anni del periodo preso in considerazione: infatti, scrive Stiglitz, nel 2014 il reddito era più alto solo dello 0.7% rispetto al 1989.
La ricchezza appare ancora più concentrata del reddito: l’1% degli americani possiede il 41,8% della ricchezza del paese, contro il 25% scarso del 1978, e lo 0,1% detiene da solo il 22%. Gli Stati Uniti sono un paese molto diseguale, sicuramente più dei partner europei; eppure il trend è comune, l’inversione di rotta degli ultimi trentacinque anni ha segnato tutte le economie avanzate: se ci atteniamo al coefficiente Gini[1], notiamo come questo sia sì aumentato del 29 % negli Stati Uniti, ma è anche aumentato del 17% in Germania, del 14% in Gran Bretagna e del 12% in Italia.
Come si spiegano queste tendenze? Stiglitz analizza criticamente la risposta degli economisti neoclassici a questa domanda. Questi svilupparono la teoria della produttività marginale, secondo cui vi è una correlazione tra la retribuzione e il contribuito del singolo individuo alla società: chi apporterà un maggiore contributo alla società avrà un reddito più alto. Stiglitz ritiene però sia riduttivo spiegare la disuguaglianza in questi termini, quando vi sono invece numerosi fattori istituzionali e politici che possono agire indipendentemente dalla produttività o condizionarla. Innanzitutto, se consideriamo la distribuzione prima delle tasse e dei trasferimenti, come mai Stati Uniti e, ad esempio, Norvegia – paesi con livelli simili di sviluppo tecnologico, produttività e reddito pro capite – differiscono nella distribuzione del reddito prima delle tasse? Questo, scrive Stiglitz, la teoria neoclassica non lo spiega. L’economista suggerisce quindi di spostare l’attenzione su un elemento a suo parere fondamentale per comprendere le disuguaglianze: la rendita.
Il termine originariamente indicava i ricavi delle terre che il possidente riceveva in virtù del suo titolo di proprietà e non per un suo “fare”. La ricerca di rendita (rent seeking) «significa quindi ricavare reddito non come ricompensa per aver creato ricchezza, ma attraverso l’accaparramento di una quota più ampia di una ricchezza che sarebbe stata prodotta comunque» (pp.28-29). Le rendite hanno largamente contribuito all’aumento dei redditi delle due categorie occupazionali che più hanno trainato la crescita dei redditi alti: i lavoratori del settore finanziario (manager/professionisti) e i dirigenti delle imprese non finanziarie. Per sfatare la teoria della produttività marginale, Stiglitz richiama numerosi studi che hanno evidenziato la mancata correlazione tra il compenso del manager e l’andamento dell’azienda. Le retribuzioni degli amministratori delegati, ad esempio, molto spesso crescono più velocemente rispetto al valore di mercato della società e, addirittura, aumentano anche nei periodi in cui le quotazioni in borsa scendono. «Negli Stati Uniti, il rapporto fra il salario di un amministratore delegato e quello del lavoratore medio è salito da circa 20 a 1 a 354 a 1 nel 2012» (p.31). Si sta verificando un fenomeno di costante accumulo di ricchezza, che però non porta a un incremento della capacità produttiva dell’economia, della produttività marginale media o del salario medio dei lavoratori: «al contrario, i salari possono ristagnare o addirittura calare, perché l’aumento della quota delle rendite avviene a scapito dei salari» (p.37).
Negli ultimi trent’anni, oltre ai fenomeni di accumulo di cui abbiamo parlato qui sopra, vi è stato anche un costante deterioramento del potere contrattuale dei lavoratori. I salari sono cresciuti molto meno della produttività – altro dato che scredita la teoria della produttività marginale- e i sindacati hanno perso il ruolo determinante che prima della svolta neoliberista potevano vantare (si pensi alla sconfitta inflitta dalla Thatcher al potentissimo sindacato dei minatori inglesi nel 1984-85). La globalizzazione ha poi ulteriormente declassato la posizione dei lavoratori: «Con un capitale altamente mobile, e con tariffe basse, le imprese possono semplicemente dire ai lavoratori che se non accettano salari più bassi a condizioni di lavoro peggiori l’azienda si sposterà altrove» (p.41). Stiglitz punta il dito contro le scelte politiche degli ultimi trentacinque anni, subordinate all’ideologia della marea che alza tutte le barche, grandi e piccole. Così non è stato, afferma l’economista, e per questo bisogna necessariamente invertire la rotta.
La disuguaglianza è necessaria per crescere? «In realtà, come dimostra una ricerca empirica del Fondo monetario internazionale[2], la disuguaglianza è associata all’instabilità economica. In particolare i ricercatori del Fondo hanno dimostrato che quando la disparità di reddito è alta i periodi di crescita tendono ad essere più brevi» (p.47). Sono diversi i modi, scrive Stiglitz, con cui la disuguaglianza può danneggiare l’economia. Innanzitutto produce un indebolimento della domanda aggregata e una riduzione dei consumi. Vi è poi il problema della disuguaglianza di opportunità: chi nasce negli strati bassi della società difficilmente potrà esprimere il suo potenziale, con la conseguenza che, nel lungo periodo, questo spreco di capitale umano potrebbe fungere da ostacolo ad una solida crescita economica. Infine, secondo l’economista, i paesi con una maggiore disuguaglianza sono quelli meno inclini ad implementare politiche di investimenti pubblici in settori strategici come quello dei trasporti pubblici, delle infrastrutture, dell’istruzione e della tecnologia; questo perché coloro che possono vantare redditi alti, e una maggiore forza persuasiva nell’intreccio con la politica, sono interessati più ad una politica fiscale accomodante che all’attenzione verso i servizi pubblici.
Stiglitz ritiene siano molte le politiche in grado di ridurre le disuguaglianze. Si tratta, soprattutto, di stabilire le regole del gioco, mettendo da parte l’idea perversa che vuole la politica subordinata e succube dell’economia e dei mercati. Bisogna in primo luogo scoraggiare l’ossessione per il feticcio del breve termine che oggi dilaga nel settore finanziario, dove stock option[3] e plusvalenze premiano l’arricchimento immediato e la speculazione, in un circuito economicamente autoreferenziale che permette di estrarre valore senza produrlo. Stiglitz enuncia alcune riforme e linee d’azione per debellare la disuguaglianza, dal maggiore sostegno all’istruzione all’aumento del salario minimo, dal rafforzamento dei crediti di imposta sui redditi da lavoro al rinvigorimento del potere contrattuale dei lavoratori. Vi sono poi quattro specifiche aree sulle quali è necessario focalizzare lo sguardo:
1) Compensi dei dirigenti. Stiglitz ritiene siano eccessivi e punta il dito contro la remunerazione basata sulle stock option. I dirigenti, afferma, non dovrebbero essere ricompensati per miglioramenti del titolo azionario – ad esempio dovuti ad un abbassamento dei tassi di interesse annunciato dalla Fed – a cui non hanno contribuito. Per una adeguata correlazione tra il guadagno e l’impegno del manager bisognerebbe basare la performance pay sull’andamento relativo di altre aziende in circostanze comparabili.
2) Politiche per l’occupazione. Sono necessari investimenti pubblici in settori strategici per debellare la disoccupazione e aumentare la domanda aggregata.
3) Istruzione. Per combattere la disuguaglianza servono investimenti in questo campo. Bisogna garantire il libero accesso a tutti, e non solo a chi se lo può permettere, per evitare così la stratificazione sociale.
4) Tassazione. Servirebbe, secondo Stiglitz, una tassazione equa dei redditi da capitale, riducendo il rendimento netto sul capitale. Inoltre bisognerebbe anche agire sulle norme speciali che garantiscono una tassazione favorevole delle plusvalenze e dei dividendi.
Joseph E. Stiglitz, con questo piccolo volume, ci invita a non accettare acriticamente l’esistente e a non cadere nel rassegnato fatalismo che considera esclusa a priori la possibilità di invertire la rotta. Le disuguaglianze non sono figlie naturali dell’economia in sé, sono il frutto di un certo tipo di approccio economico, di una concezione che da più di trent’anni ha inteso la massimizzazione del profitto nel breve periodo come l’imperativo categorico da seguire. Sono da ristabilire le regole del gioco, questo è il monito dell’economista. Anche perché, per quanto si voglia spesso far credere il contrario, alla fine è tutta una questione di scelte politiche.
[1] Il coefficiente di Gini è la più utilizzata misura per descrivere la disuguaglianza di una distribuzione. È un numero compreso tra 0 e 1 (in questo caso lo stiamo usando in proporzione 0-100). I valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione. I valori più alti indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 (o 100 nel nostro caso) che corrisponde alla massima concentrazione: la situazione dove una persona percepisce tutto il reddito del paese mentre gli altri hanno reddito nullo.
[2] Andrew Berg e Jonathan Ostry, Inequality and Unsustainable Growth: Two Sides of the Same Coin?, IMF Staff Discussion Note n. 11/08, aprile 2011.
[3] Le stock option sono strumenti remunerativi che danno il diritto di acquistare azioni di una società ad un determinato prezzo d’esercizio.