Recensione a: Alessandro Vanoli, Storia del mare, Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 576, 24 euro (scheda libro)
Scritto da Andrea Raffaele Aquino
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Secoli di storiografia, di riflessione sulla storia, ci hanno insegnato che i più grandi avvenimenti dell’uomo hanno sempre avuto come teatro la terraferma. Basti pensare alle grandi battaglie, alle scoperte e invenzioni, alle innovazioni sociali, all’economia. Quella terrigena, tuttavia, non è che una prospettiva con cui approcciarsi alla storia – e anche piuttosto parziale, a dire la verità. Perché la terraferma copre appena il 30% del nostro pianeta e la parte restante non può certo essere classificata come non rilevante o residuale. Alle tante storie di terra continuamente prodotte, Alessandro Vanoli, storico e saggista di rilievo, risponde con una storia del mare. Non di un mare, ma del mare, dell’idea di mare e delle sue relazioni con l’essere umano. L’impresa di intrecciare una narrazione e un’analisi puntuale richiederebbe spazi e tempi particolarmente estesi che andrebbero ben oltre le circa 550 pagine del testo in oggetto. Ma, del resto, Vanoli, da fine storico, non si pone l’obiettivo pretenzioso di tracciare una storia evenemenziale di questo tipo. La sua, piuttosto, è una “provocazione”, un invito a cambiare punto di vista, a rinunciare all’assioma dell’antropocentrismo, a scrutare l’orizzonte, a guardare la luna e non il dito. E, perché no, a preparare il terreno a una nuova storiografia – che ha già cominciato a muovere i primi, prudenti, passi – più attenta a osservare il mare come ponte, acceleratore di processi, luogo di scoperte, scrigno del mito.
La “storia del mare” di Vanoli, quindi, si presenta, come prevedibile e forse auspicabile, estremamente eterogenea, composta delle tante storie, piccole e grandi, che l’autore dispiega come guidandoci in un castello pieno di porte, aperte e chiuse con destrezza per far intravedere al lettore delle stanze meravigliose. Non si tratta, però, di un libro di aneddoti, bensì di una narrazione che segue un principio logico e, in parte, cronologico. Per questo, non si può iniziare se non dal “principio”, dalle origini del mare, dalla geologia, dal movimento delle placche, dai fossili, dalla Pangea. La seconda parte è, invece, dedicata agli “ambienti”, ai venti, alle correnti, alle onde, alle coste e in generale, alla grande varietà che caratterizza le acque, spesso sottostimata, se non ignorata, nel senso comune. Passando per la trattazione e la descrizione puntuale di ecosistemi marini profondamente diversi, generati da differenti proporzioni di salinità, pressione, temperatura, flussi d’aria e capaci di influenzare la nostra percezione del mare, la nostra “idea” di mare, Vanoli arriva alla sezione forse più accattivante dell’intero testo, a partire dal titolo, che diventa facilmente una domanda: “quando l’uomo incontrò il mare”? E la risposta, che ha solamente un’apparenza di ovvietà, è che l’acqua è sempre stata presente nella vita dei Sapiens, che vi si sono adattati, sviluppando in centinaia di migliaia di anni caratteristiche morfologiche adatte al nuoto e all’immersione. Probabilmente, la brama di coprire distanze più lunghe in acqua permise ai primi uomini di ideare mezzi di trasporto acquatico, segnando l’inizio di un capitolo fondamentale nella storia dell’umanità: la storia della navigazione. Millenni di esperienze, di rielaborazioni, di messa a punto di natanti (dalle zattere alle barche) per giungere a interiorizzare l’esperienza del mare come costitutiva dell’essere umano. L’Odissea, in questo senso, è il primo vero poema del mare e ci racconta tantissimo di cosa significasse per i Greci navigare e di quale valore conferissero a tale esperienza. Ma, del resto, lo stesso mito del diluvio, poligenetico, ci consente di riflettere sul rapporto tra uomo e mare nell’antichità. E, a ben guardare, la stessa Genesi ci riferisce delle modalità di costruzione dell’Arca di Noè, svelandoci tecniche di calafatura già avanzate. Insomma, dal mare ci si nutre (la pesca), con il mare ci si veste (la porpora, il bisso), attraverso il mare si interagisce (relazioni commerciali, diplomatiche, “umane”), mediante il mare si riflette su di sé (miti fondativi e delle origini).
Accantonata la trattazione antropologica, Vanoli riveste per qualche decina di pagine i panni dello storico medievista, approcciando lo sviluppo della marineria e dei natanti tanto nei loro aspetti materiali (le modalità di costruzione dei legni, le tecniche e gli strumenti di navigazione) quanto in quelli più prettamente sociali (la lingua parlata in mare, i contatti culturali, i racconti del mare, il viaggio per mare), con brevi digressioni su animali (reali e fantastici), organismi acquatici, episodi significativi. La tesi dell’autore è che tutte queste storie sarebbero collegate non dalla ricostruzione storica che possiamo operare ex post, bensì dall’esperienza dell’uomo, che certamente non distingue in compartimenti stagni il commercio marittimo, l’emozione personale, le inquietudini escatologiche e l’osservazione della natura, come suole fare lo studioso che si approccia a queste tematiche. Le vive contemporaneamente, come Vanoli prova a far esperire al lettore, con la sua tecnica peculiare di scrittura, armoniosamente divisa tra narrativa e saggistica.
Oltre che storia del mare, quella di Vanoli è anche storia dei mari. Perché l’autore rifiuta ogni forma di eurocentrismo e di “mediterraneocentrismo” e, oltre ai mari più prossimi (geograficamente e culturalmente) a noi, tratta anche i più remoti, i negletti, raccontando la storia di isole e isolette nell’Oceano Indiano e nel Mar Cinese Meridionale, o di scambi commerciali con l’Estremo Oriente, mediante imbarcazioni e rotte islamiche, o ancora di animali e di cibi esotici.
Vanoli poi si concentra sulla “conquista” del mare operata tra Medioevo ed Età moderna, anche in questo caso analizzando il fenomeno globalmente, senza fermarsi all’epopea di Cristoforo Colombo, opportunamente narrata e, sulla base degli studi più recenti, ricontestualizzata e depurata da mitizzazioni e abusi operati su di essa. Vele e cannoni, come scrisse Carlo M. Cipolla, furono i propellenti di tale espansione, che trascinarono il mondo nella stagione dell’imperialismo e della globalizzazione. Ma, anche in questo caso, l’uomo non è al centro della narrazione: ai grandi esploratori e ai naufraghi derelitti vengono accostate le perle, le anguille, i polpi e a dominare la sezione sono due emozioni: la meraviglia suscitata dalla “scoperta” e la paura causata dall’incertezza, nel contesto in cui il mare comincia a significare schiavitù e la prigione diventa la galea (da cui il termine galeotto). Ma ancora una volta il mare livella la società: in nave tutti condividono lo stesso fato e, di conseguenza, l’esperienza marittima può diventare un acceleratore sociale formidabile, portando uno schiavo a scalare i ranghi fino a diventare capitano.
La storia di Vanoli arriva poi alla contemporaneità. Nel legame tra l’uomo e il mare il XX secolo riveste un’importanza capitale. Al dramma delle guerre mondiali che, spesso lo si dimentica, furono anche guerre navali, seguì la stagione della grande riscoperta del mare, dal punto di vista scientifico e della sensibilità collettiva, segnato per il versante storico dalla pubblicazione di uno degli studi più importante del settore: Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II di Fernand Braudel. L’uomo europeo, dalla seconda metà del secolo scorso, si avvicina al mare in forme nuove, di carattere sportivo, ludico, turistico, cambiandone drasticamente (in meglio o in peggio?) la percezione.
Ma il mare, nell’epoca che viviamo, porta soprattutto i segni di un sanguinoso passaggio di uomini ed è diventato teatro di tragedia e vergogna collettiva, soprattutto in Europa, soprattutto nel Mediterraneo. Sul mare, che rischia sempre più di assumere le forme di un muro, si gioca anche la partita economica: la nuova via della seta cinese (One Belt, One Road) fa del controllo delle acque e dei porti uno strumento essenziale per la sua riuscita. Il mare, però, va osservato anche come oggetto in pericolo, minacciato dall’inquinamento, dagli allevamenti intensivi, dall’innalzamento delle temperature, dalle microplastiche e il contenimento del suo livello, affermano gli scienziati, sarà una sfida del futuro, del futuro prossimo.
Cosa resta, dunque, alla fine del viaggio proposto da Alessandro Vanoli? Nuove conoscenze, piacevoli sintesi, approcci metodologicamente innovativi, ma soprattutto un messaggio, oggi più che mai attuale: quello per cui l’uomo risulta essere infinitamente piccolo rispetto a ciò che lo circonda. Il tutto raccolto in un bel volume, certamente non agile, ma scorrevole e che non richiede particolari competenze pregresse, a tratti piacevolmente enciclopedico. D’altra parte, però, gli spunti offerti dall’autore arricchiscono anche i lettori più vicini alle tematiche trattate, che, grazie alla struttura precisa dei contenuti, riescono a selezionare facilmente le sezioni di maggior interesse.