“Storia della decolonizzazione” di Dane Kennedy
- 25 Giugno 2017

“Storia della decolonizzazione” di Dane Kennedy

Recensione a: Dane Kennedy, Storia della decolonizzazione, il Mulino, Bologna 2017, pp. 120, 11,50 euro (scheda libro)

Scritto da Emanuele Monaco

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Il Novecento è stato il secolo d’oro dello stato-nazione. Lo dicono i numeri: se nel 1945 l’Onu contava 51 nazioni, oggi ne conta 193, quasi quattro volte tanto. Ma quello che questi due numeri fanno è soprattutto descriverci uno dei più dirompenti e globali fenomeni del secolo scorso: la fine degli imperi coloniali e la loro sostituzione da parte di una miriade di nuovi stati-nazione indipendenti. Nel raccontare come è nato il mondo contemporaneo il libro di Dane Kennedy, un’esauriente introduzione al vastissimo e complesso tema, illustra gli aspetti principali di un processo che ha innescato spesso violenza estrema e instabilità: il suo inquadramento in due secoli di cambiamenti politici radicali sul globo; le guerre imperiali mondiali e le conseguenze per le colonie, economiche, demografiche, politiche; il ruolo delle pressioni internazionali e delle ex-potenze imperiali nello scacchiere globale; lo stato-nazione come soluzione politica post-coloniale, trionfo e tragedia allo stesso tempo.

È innegabile che la moltiplicazione degli stati-nazione sia da inquadrare nel collasso degli imperi europei. Sebbene forme imperiali siano sopravvissute ed esercitino influenze più o meno manifeste, esse sono comunque obbligate a farlo nell’ambito di una rete globale di stati indipendenti politicamente, con prerogative sancite ormai dal diritto internazionale e dalle varie risoluzioni dell’ONU sull’autodeterminazione dei popoli (per esempio la 1514 del 1960 che considera il colonialismo “una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo”). Come si è arrivati a questo dopo secoli di dominio imperiale europeo?

 

Definire e storicizzare la decolonizzazione

La parola “decolonizzazione” non è nuova, né è stata coniata nel Novecento, e questo fatto ci introduce al primo tema che Kennedy ritiene fondamentale: la contestualizzazione storica della fine del regime coloniale europeo. Se il termine trova la sua origine in Francia nel XIX secolo (soprattutto nei circoli parigini contrari alla conquista dell’Algeria), per la sua consacrazione storica si sono dovuti aspettare gli anni Sessanta del Novecento, quando per la prima volta la parola “decolonizzazione” è stata definita dall’Oxford English Dictionary come “ritiro di una potenza coloniale dalle ex colonie; acquisizione dell’indipendenza politica o economica di queste colonie” (il dizionario, tra i sinonimi, offre la locuzione “trasferimento dei poteri”). Le parole chiave di questa definizione sono naturalmente “ritiro” e “acquisizione”, espressioni di un’operazione di amnesia collettiva promossa nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale sia dagli ex-regimi coloniali sia dai governi dei nuovi stati sorti in Africa e Asia. Infatti le immagini di pompose cerimonie di passaggio di consegne, di bandiere che vengono ammainate al suono di inni nazionali, di firme di documenti e di strette di mano ci parlano di una necessità di narrare la decolonizzazione in termini di pacifico processo basato sul consenso e sul semplice trasferimento di sovranità, cosa lontanissima dalla verità storica. Questa necessità nasceva da un bisogno di oblio che, come Ernest Renan osservò nel 1882, insieme “all’errore storico, costituisce un fattore essenziale nella creazione di una nazione”; questo perché le nazioni sono il risultato di “campagne di sterminio e terrore” da dimenticare se si vuole trovare una ragione per continuare a esistere come stato. Questa riflessione si applica bene anche ai processi di rimozione di memoria avvenuti nel periodo post-coloniale. Entrambi i “contendenti” di questo periodo, presenti in pompa magna alle cerimonie di passaggio di sovranità, avevano ottime ragioni politiche per minimizzare e dimenticare il disordine, i traumi, le violenze e la guerra che avevano caratterizzato la decolonizzazione. Se da una parte le potenze ex-coloniali volevano presentare la perdita dell’impero come un processo non fallimentare ma frutto di una preparazione all’autogoverno delle colonie, anche i regimi che ne presero il posto posero l’accento principalmente sulla lotta per l’indipendenza e su una narrazione di questa quasi mitica, nascondendo molte volte storie di guerre civili e pulizie etniche che spesso seguirono ad essa. Ripulire gli eventi dagli aspetti cruenti e violenti serviva, come avrebbe detto Renan, al processo razionale, avviato dalle élite politiche sia in Europa che nelle ex-colonie, di normalizzazione della decolonizzazione all’interno di un nuovo ordine internazionale.

Kennedy dà, soprattutto nella parte centrale del testo, un resoconto diverso di questi processi. Se è vero che alcune colonie riuscirono ad ottenere l’indipendenza senza eccessive violenze, la monopolizzazione, nella ricerca, nell’opinione pubblica, nell’analisi storica, da parte dei racconti delle prolungate e violente campagne in Algeria, Angola, Kenya e Vietnam ha finito paradossalmente per rendere, nella mente di molti, queste dei semplici episodi eccezionali, delle anomalie di un processo bene o male pacifico. E questa mentalità si ritrova soprattutto nella narrazione britannica del processo di decolonizzazione, un processo raccontato come relativamente senza traumi, preparato in anticipo, senza le “trappole” in cui la Francia era caduta. Nelle parole, citate anche da Kennedy, di Clement Attlee, il Regno Unito aveva “volontariamente ceduto la propria egemonia sui popoli soggetti e aveva concesso loro la libertà”. La realtà fu ben altra. I britannici, come i francesi, gli olandesi e i portoghesi ricorsero alla forza ogni volta che il loro potere nelle colonie veniva messo in discussione, e si ritirarono soltanto quando ogni altra opzione diventò impraticabile. Negli ultimi anni infatti diverse ricerche storiche, citate e rendicontate magistralmente dall’autore, hanno messo l’accento sulla violenza che dilagò in tutta l’Asia britannica e olandese dopo la seconda guerra mondiale, sui vari traumi rappresentati dalla divisione dell’India, sulle violenze nel Corno d’Africa. I documenti scoperti nell’archivio di Hanslope Park ci narrano di una politica coloniale brutale e repressiva, oggi politicamente imbarazzante e penalmente rilevante, come hanno potuto scoprire molti kenioti nel 2012, quando l’Alta Corte del Regno Unito garantì a quattro sopravvissuti alle violenze nel loro paese un risarcimento milionario. Come Kennedy racconta con chiarezza, gli stati imperiali fecero di tutto pur di mantenere il loro potere.

 

Stato-Nazione, trionfo o tragedia?

Allora se la definizione data dall’Oxford Dictionary sembra non fornire gli strumenti per comprendere le caratteristiche del processo di decolonizzazione, più associabile ai concetti di “guerra”, “rivoluzione” e “terrore” che a quelli incruenti e ideologici dell’etichetta ufficiale, questo apre a due interpretazioni storiche, secondo l’autore. Primo, che l’aspetto “transnazionale” e sincronico dato dalla definizione del processo non riesce a comunicarne efficacemente i vari aspetti e la specificità storica; secondo, che se si riconoscono “guerra”, “rivoluzione” e “terrore” come caratteristiche proprie della decolonizzazione, allora questa si pone di un contesto che va al di là delle categorie temporali che convenzionalmente definiscono il mondo contemporaneo. Kennedy propone infatti una narrazione diacronica del fenomeno, fuoriuscendo dalla specificità novecentesca di questo, trovando nelle crisi degli imperi europei avvenute nei secoli precedenti una sorta di filo rosso comune. Egli individua quindi diverse “ondate” storiche di decolonizzazione: la prima, nelle Americhe, tra il 1776 e gli anni Venti del XIX secolo; la seconda, in Europa, tra il 1917 e gli anni Venti del XX secolo; la terza quella avvenuta nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale; una quarta, provocata dal collasso dell’impero sovietico nel 1989. Caratteristiche comuni di queste quattro ondate sono la frammentazione degli imperi, l’espansione e la nascita di altri, e infine il sorgere negli “spazi liberi” di nuovi stati che hanno contrapposto la loro indipendenza e specificità nazionale alla precedente omogeneità imperiale.

Se si pone la decolonizzazione del cosiddetto “terzo mondo” nel contesto delle due ondate che la precedettero (e anche in parte di quella che le succedette) affiorano dei temi cruciali che caratterizzano i capitoli centrali e finali del libro di Kennedy. Il primo tema è quello della guerra mondiale tra imperi come momento determinante, con le conseguenti crisi economiche e politiche, per rendere il terreno fertile per le istanze indipendentiste (la guerra dei sette anni, le guerre napoleoniche, la prima e la seconda guerra mondiale, la guerra fredda). Il secondo tema è legato alle varie alternative allo stato coloniale implementate nei territori ex-imperiali. Anche se la forma nazionale fu quella che più si impose, non fu l’unica e non fu neanche scontata. Questo ci porta ad un terzo tema, quello delle violenze e delle continue pulizie etniche che seguirono l’indipendenza di molte ex-colonie e che accompagnarono la creazione dei nuovi stati. Infine un punto che apre ad una riflessione ancora più ampia, quello della mancata scomparsa dell’imperialismo o degli imperi, semplicemente rinati sotto nuove forme e nuove denominazioni.

L’originalità della narrazione di Kennedy è soprattutto nell’affrontare il secondo tema, quello dello stato-nazione come principale successore dei regimi coloniali, ma, citando lo storico americano, allo stesso tempo trionfo e tragedia del processo di decolonizzazione. Trionfo perché sancì il principio di autodeterminazione nazionale come norma globale sulla quale basare sovranità e relazioni internazionali. Milioni di persone nelle Americhe, in Africa e in Asia e in Europa trovarono nell’indipendenza una nuova identità come cittadini di stati-nazione, ammessi a far parte di quella “famiglia di nazioni” rappresentata oggi dall’ONU. Tragedia perché la costruzione di questa nuova identità nazionale fu un po’ ovunque caratterizzata da conflitti etnici, religiosi e culturali. La creazione di nuovi stati fu accompagnata spesso dalla morte e dall’esodo di milioni di persone. L’eredità di questa memoria ha lasciato in tutto il mondo risentimenti e odi che ancora oggi risultano difficili da gestire e risolvere. Il libro cerca quindi, per comprendere questi aspetti, di rispondere a due domande fondamentali che potrebbero saltare alla mente del lettore: perché lo stato-nazione fu sempre l’esito della decolonizzazione? Perché si rivelò così spesso una soluzione problematica e complessa? Le risposte possibili sono molte, e il lavoro di Kennedy non basta ad esaurirle completamente, viste le implicazioni vastissime del tema. Cercando di riassumere le tesi dello storico americano, non si può che notare che le domande sono sicuramente incomplete e qui si nota anche il limite di una forzata narrazione globale del fenomeno. Le soluzioni trovate per il futuro delle ex-colonie infatti furono molte e si differenziano da caso a caso. Spesso esse furono accompagnate dalla volontà delle ex-potenze imperiali di mantenere contatti con i territori perduti, e anche dalla necessità di trovare una forma che meglio rispondesse alle criticità scaturite dalla questione dei confini (alcuni storici oggi chiamano molti paesi africani “stato-nazioni”, sfuggendo alla definizione “etnonazionalista” della forma statale), o da fenomeni come quello panafricano, panarabo e panasiatico (scaturiti anche da un processo che Kennedy chiama di “cosmopolitismo anti-coloniale”). Queste questioni, soprattutto quella dei confini, sono alla base di molti dei problemi che il globo si trova ad affrontare al giorno d’oggi, come le continue guerre civili, le migrazioni, le lotte per le risorse, la ricomparsa di atteggiamenti imperiali. Questo ci porta a pensare, insomma, che la vera tragedia è che lo stato-nazione, che vediamo identificato come fine ultimo del processo di decolonizzazione, mal definisce idealmente e nei fatti il mondo scaturito da questo fenomeno secolare, e che l’incapacità di superarne i limiti è alla base delle sfide del mondo contemporaneo.

Uno degli scopi di questo volume è infatti quello di far capire al lettore che il costo che comportò il lento processo di passaggio dal giogo coloniale all’indipendenza nazionale, ci condiziona ancora molto, ci fa riflettere sui limiti e sulle mancate aspirazioni dello stato-nazione, ci rende consapevoli di un peso che il mondo non ha ancora smesso di portare. Come afferma lo stesso Kennedy nell’introduzione, “non si tratta di celebrare la decolonizzazione, quanto di tenerne presente la dimensione problematica”. In quanto ciò che essa ha realizzato, o meglio non realizzato, rappresenta la più grande sfida con cui il mondo dovrà confrontarsi nel prossimo secolo.

Scritto da
Emanuele Monaco

Classe 1990. Dottorando in storia contemporanea presso l’Università di Bologna. Dopo aver studiato presso l’Università Federico II di Napoli, l’Università di Bologna e la Paris I Sorbonne di Parigi, ha lavorato a Londra. Si occupa di storia europea, relazioni transatlantiche e storia di genere

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