“Storia della Democrazia cristiana” di Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio
- 11 Novembre 2024

“Storia della Democrazia cristiana” di Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio

Recensione a: Guido Formigoni, Giorgio Vecchio e Paolo Pombeni, Storia della Democrazia cristiana. 1943-1993, il Mulino, Bologna 2023, pp. 720, 38 euro (scheda libro)

Scritto da Andrea Germani

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Il 18 gennaio 1994 finiva un mondo: «Nella sede dell’Istituto Luigi Sturzo, fu sancita la nascita del nuovo Partito Popolare Italiano […] La solennità del momento non fugò i tanti dubbi esistenti, tra cui la domanda di fondo: “sarà una zattera o una nave quella che abbiamo messo in opera?”» (p. 578). Con questo passaggio ripreso dalle ultime battute di Storia della Democrazia cristiana, edito da il Mulino nel 2023, i tre autori – Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea all’Università IULM di Milano; Paolo Pombeni, professore emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna; Giorgio Vecchio, già docente di Storia contemporanea dell’Università di Parma – si congedano dal lungo lavoro di ricostruzione della storia della Democrazia Cristiana. Partendo dalla fine, da questa semplice constatazione di commiato con annessa citazione, possiamo notare alcuni di quelli che furono elementi essenziali della storia e della cultura politica italiane del Novecento.

Innanzitutto, la data, e in particolare l’anno: il 1994. In quell’anno si chiude l’esperienza della Prima Repubblica, con la vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche di aprile, e si apre la stagione partitico-istituzionale in cui viviamo, quella Seconda Repubblica figlia della Prima, ma sorta in contrapposizione a un modello diventato ormai obsoleto e presto rinnegato, per venire poi recentemente rivalutato con una certa dose di nostalgia. Il trionfo berlusconiano fu il primo segno del profondo mutamento dei tempi di una nazione ormai disaffezionata al modello della “famiglia politica” radicatosi nel mezzo secolo precedente e ora disposta ad affidarsi a leader capaci di personalizzare le battaglie politiche, come tanti presidenti del Consiglio e ministri, ma anche tanti presidenti di Regione e sindaci eletti direttamente dai cittadini sin dal 1993. Il tutto in un contesto di percepita “fine della storia”, con lo scontro fra le due Weltanschauung geograficamente, politicamente e culturalmente opposte lasciato alle spalle con la caduta del Muro di Berlino.

In secondo luogo, poi, l’ingombrante nome di don Luigi Sturzo, presbitero siciliano classe 1871, uomo convintamente antifascista e di sincera fede democratica che ricondusse nei ranghi dell’impegno civico i cattolici italiani, mezzo secolo dopo il non expedit di Pio IX del 1868 che imponeva ai fedeli della Chiesa di Roma di non curarsi delle vicende politiche del Regno d’Italia; imposizione revocata nel 1919 da papa Benedetto XV. Sturzo scelse l’esilio, a Londra, Parigi e New York, dal 1924 al 1940. Tornò in Italia per diventare, nel dopoguerra, senatore a vita dal 1952 fino al 1959, anno della sua morte.

Terzo elemento, forse il più importante, il nome della neonata formazione, nuovo Partito Popolare Italiano; nuovo, per l’appunto, perché percepito in continuità con il partito fondato proprio da Sturzo nel 1919, il Partito Popolare Italiano (PPI). Fu con il PPI che i cattolici italiani, laici e religiosi, decisero di intervenire nell’agone politico proponendo una scelta di centro, moderata e popolare, ispirata ai valori della dottrina sociale della Chiesa. Il partito fu sciolto dal regime fascista nel 1926, rimase in clandestinità fino al dopoguerra, quando risorse negli anni della Resistenza per confluire assieme ad altre forze antifasciste in quella che diventerà poi la Democrazia Cristiana (DC). Il PPI ritornò sulla scena in quel 1994 della dissoluzione della DC, in un tentativo di rebranding centrato sul ritorno ai valori della forza popolare degli anni Venti, non ancora segnata da collusioni con il potere e il malaffare e compromessi di palazzo. Operazione fallita presto: il partito si sciolse nel 2002 lasciandosi alle spalle modesti risultati politici ed elettorali. Anni dopo si potrebbe dire che quella che poteva essere la “nave” si risolse a essere una “zattera” per salvare i centristi sopravvissuti alla terribile stagione 1992-1994 che non trovarono casa nel centro-sinistra di Romano Prodi o nel centro-destra di Silvio Berlusconi.

Questi elementi contribuiscono a rendere il senso del quadro complessivo della vicenda umana e storica consumatasi dalla caduta del governo Mussolini, nel 1943, sino alla fine della Prima Repubblica, raccontata con minuzia di particolari nel corposo saggio di oltre settecento pagine firmato da tre navigati storici. La storia della DC è forse la storia politica più italiana che esista, essendo la DC un grande partito della nazione operativo sul territorio per più di cinquant’anni, legato a doppio filo alla Chiesa universale, ma pur sempre romana, partito confessionale e di cultura tradizionalista, ma pur sempre anche laico e modernizzatore. Un partito capace di creare sodalizi ed estendere le proprie ramificazioni dalla profonda provincia padana e meridionale fino alle metropoli del Nord e del Sud, nelle roccaforti rosse del Centro-Nord, nei quartieri benestanti della classe dirigente, ma anche nelle campagne o nelle case popolari, fra operai, agricoltori, studenti, professionisti, colletti bianchi e imprenditori. L’intera storia democristiana corrisponde alla storia dei quasi cinquanta esecutivi che hanno governato la Repubblica dal 1946 al 1994. Primo partito in tutte e undici le legislature, forza politica in grado di mobilitare oltre 14 milioni di elettori, come alle politiche del 1976, passato dal clamoroso 48,51% del 1948 – 12,7 milioni di voti in un Paese di 45 milioni di abitanti – alla “débâcle” del 1992, il 29,66% dei plebisciti – 11,6 milioni di preferenze, ma in un Paese completamente cambiato.

Il libro restituisce al lettore mezzo secolo di tradizione democristiana in sedici densi capitoli cronologicamente ordinati, non risparmiando nomi, date ed eventi che nel loro complesso sono importantissimi per capire cambiamenti e riorientamenti di un partito che fece della conservazione di un paradigma politico la cifra della propria stabilità, fino a doversi scontrare con le conseguenze di un apparato monolitico, incapace di affrontare la sfida dell’innovazione di partito e di governo che ha caratterizzato l’Occidente nel XXI secolo. Dalla mitica fondazione il 19 marzo 1943 in una riunione clandestina nella casa romana del dirigente aziendale Giuseppe Spataro, che ebbe come esito un documento programmatico di poche pagine intitolato Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana (si rimanda a Il passaggio cruciale del 1943: la Dc si presenta alla ribalta, pp. 26-32), sino al già menzionato incontro all’Istituto Sturzo di oltre cinquant’anni dopo.

Dalle fila della DC sono usciti tanti degli uomini e delle donne dell’Italia repubblicana: Giulio Andreotti, Tina Anselmi, Laura Bianchini, Rosy Bindi, Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Ciriaco De Mita, Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Arnaldo Forlani, Giovanni Goria, Angela Maria Guidi Cingolani, Rosa Russo Iervolino, Giovanni Leone, Mino Martinazzoli, Aldo Moro, Flaminio Piccoli, Mariano Rumor, Oscar Luigi Scalfaro, Mario Scelba, Antonio Segni, Vincenzo Scotti, Paolo Emilio Taviani, Benito Zaccagnini. Non solo presidenti della Repubblica, del Consiglio dei Ministri, di Camera e Senato, ministri e sottosegretari, ma anche delegati, amministratori locali, consiglieri di Stato e dirigenti pubblici provengono dai ranghi della DC.

Il partito ha vissuto tre grandi fasi: la svolta a sinistra degli anni Sessanta, epoca di riforme e aperture alle istanze socialdemocratiche (riassunte nei capitoli 5. L’apertura a sinistra come governo della modernizzazione (1960-1963) pp. 207-266 e 6. La segreteria Rumor e il governo di centro-sinistra (1964-1968) pp. 267-300); la fase di “solidarietà nazionale”, complice il “compromesso storico” fra DC e il più grande rivale, il Partito Comunista Italiano (PCI), negli anni del terrorismo e del rischio di fratture non ricomponibili (si veda 9. Il «rinnovamento» di Zaccagnini e la solidarietà nazionale (1975-1979) pp. 341-370); la fase del “multipartitismo”, quando la DC dovette rassegnarsi a cedere quote importanti di governo ad altri partiti, non essendo più in grado di guidare autonomamente un esecutivo. Da questa scelta emergerà il primo presidente del Consiglio non democristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini nel 1981, e lì a seguire il socialista Bettino Craxi, presidente del Consiglio dal 1983 al 1987 e il socialista Giuliano Amato nel 1992-1993 (il concetto è spiegato in 10. La transizione verso il «pentapartito» e la segreteria Piccoli pp. 371-388 e sviluppato nei capitoli 11, 12, 13 e 14 dedicati agli anni Ottanta).

La DC fu un partito per natura liquido e multiforme, ambendo a esaurire nei suoi ranghi la totalità dello spettro politico moderato e ponendosi come forza a difesa di libero mercato e proprietà privata – pur essendo nata entro ambienti storicamente ostili al liberalismo – ma anche costruttrice di un solido sistema di welfare e di tutela dei diritti di deboli e lavoratori – pur trovandosi sempre sideralmente distante da posizioni operaiste e marxiste. In Francia a contendersi la sfida di governo c’erano gollisti e socialisti, in Germania cristiano-democratici e socialdemocratici, nel Regno Unito Tories e Labour e negli Stati Uniti democratici e repubblicani: tutte formazioni accomunate dal fatto di essere garanti di stabilità politica e pieno rispetto dei principi democratici. La DC fu per mezzo secolo l’unica forza democratica e istituzionale pienamente legittimata dal contesto internazionale, in grado di guidare un’Italia uscita da una dittatura, e non troppo distante da un ritorno dell’autoritarismo, fortunatamente mai avvenuto. Ciò comportò una divisione interna in una destra e una sinistra democristiana (le famose “correnti”) non potendo fare affidamento su repubblicani, liberali e socialisti, che sommati raggiungevano il 20% dei suffragi. Come principali oppositori: l’estrema destra del Movimento Sociale Italiano, che deteneva fra il 6 e il 9% dei consensi – partito molto forte a Roma, nei confini settentrionali e nelle città del Sud – ma, soprattutto, la sinistra del Partito Comunista Italiano, che toccò il 34,37% (12,6 milioni di voti) alle politiche del 1976 e che fu un partito radicato in particolare nelle città operaie e nelle fasce giovanili, oltre che egemone in Umbria, Toscana ed Emilia-Romagna.

Sicuramente la principale battaglia combattuta dal fronte democristiano fu quella contro il comunismo e, particolarmente, contro il suo massimo rappresentante, italiano e occidentale: il PCI. Lo scontro cominciò già durante le elezioni del 1948 per diventare fronte di grandi tensioni sin dallo scoppio della Guerra di Corea: «Il 15 agosto [1950] Scelba parlando al congresso della Gioventù operaia cattolica invitava a una lotta aperta contro il PCI e il 23 settembre il Consiglio dei Ministri avrebbe approvato dei provvedimenti per la “difesa civile”» (p. 95). Quattro decenni di conflitti scanditi da eventi spartiacque per la storia della Repubblica: la delicata situazione di Trieste, ritornata italiana nel 1954, e del confine giuliano; la rivolta di Budapest del 1956; la costruzione del Muro di Berlino nel 1961; la crisi dei missili di Cuba del 1962 e l’omicidio di Kennedy l’anno successivo; la Primavera di Praga nel 1968; le rivolte operaie e studentesche degli anni Settanta; la lunga scia di sangue lasciata dall’eversione rossa, culminata con il rapimento Moro nel 1978 da parte delle Brigate Rosse; le tensioni con il mondo medio-orientale negli anni Ottanta.

Le principali minacce alla stabilità della Repubblica vennero però da destra: lo spettro dei colpi di Stato militari (Piano Solo del 1964 e Golpe Borghese nel 1970); le stragi del decennio 1969-1980 – si veda il capitolo La Dc e la «strategia della tensione» pp. 307-314 –, stagione aperta dalla bomba a Piazza Fontana e chiusa dalla carneficina a Bologna; l’eversione nera e le delicate relazioni con Spagna, Grecia e Portogallo. Il rapporto della DC con il mondo reazionario fu sicuramente meno conflittuale di quanto fosse con i comunisti, vista la presenza di componenti ultraconservatrici nel partito e la mai discussa fedeltà al Patto Atlantico, con annesso quel diktat anticomunista che portò più volte a lavorare fianco a fianco con i neofascisti. Si veda, a tal proposito, la fiducia al governo Tambroni con l’appoggio esterno del MSI – punto spiegato in La segreteria Moro e il pasticcio del governo Tambroni pp. 189-206, con riferimento ai fatti di Genova e Reggio Emilia del 1960 – e la strana alleanza fra missini e democristiani in occasione del referendum sul divorzio del 1974.

Non a caso, uno dei più accorati appelli nei periodi bui della stagione repubblicana è quello del “ritorno al centro”, per deprecare le velleità rivoluzionarie e non ricadere nella spirale autoritaria che aveva condotto al fascismo: sintesi espressa nella teoria degli “opposti estremismi”. «Forse anche per la pressione di questi movimenti interni, la segreteria Forlani assunse un orientamento sempre più a destra tra l’estate e l’autunno del 1971, mirando a riaffermare una “centralità democristiana” che si faceva forte di una riflessione sugli “opposti estremismi” per criticare qualsiasi iniziativa alla propria sinistra e prospettare un bilanciamento della pressione dei movimenti sociali con un appello all’opinione pubblica conservatrice. Di questo atteggiamento faceva parte una parificazione implicita delle minacce violente alla democrazia, provenienti da destra e da sinistra» (p. 315).

La cifra del partito è in larga parte qui, in questo accentramento delle posizioni ai fini della stabilizzazione di una Repubblica sballottata da sconvolgimenti epocali, così come della tutela della medietas italiana. Attitudine, questa, propria di quel ceto medio fatto di famiglie nucleari di piccoli risparmiatori e moderati consumatori, separati nei ruoli di genere e nelle ambizioni della classe di appartenenza, tradizionalisti nei valori sociali e spirituali, dinamici in campo professionale e imprenditoriale, senza per questo venire divorati dall’ambizione. Democristianesimo è diventato nel tempo simbolo di “cerchiobottismo”, di capacità furbesca di saper stare sempre nel mezzo accontentando tutti, imbonendo i nemici e accattivandosi gli amici, trovando margine per compromessi, anche al ribasso. Vizi e virtù di un partito che, fra molte luci e ancora più ombre, seppe guidare una nazione distrutta nella difficilissima transizione verso una democrazia limitata ma, in sintesi, funzionale allo scopo di tutelare diritti e libertà fondamentali dei suoi cittadini.

Scritto da
Andrea Germani

Nato a Perugia, concluso il liceo classico si è spostato a Bologna per studiare filosofia, successivamente ha conseguito un dottorato in Diritto e Scienze Umane all’Università dell’Insubria specializzandosi in Filosofia Politica. Attualmente è Knowledge Transfer Manager all’Università di Bologna e collabora con alcune riviste di cultura; il suo podcast “Libri che NON hanno fatto la storia” è disponibile sulle principali piattaforme.

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