Recensione a: Chiara Giorgi e Ilaria Pavan, Storia dello Stato sociale in Italia, il Mulino, Bologna 2021, pp. 520, 32 euro (scheda libro)
Scritto da Samuel Boscarello
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Nella sua assai fortunata opera La grande livellatrice (trad. it. il Mulino 2019), Walter Scheidel argomenta che sin dalla rivoluzione agricola il progresso delle civiltà umane ha comportato una tendenziale concentrazione dei redditi, dunque un aumento delle disuguaglianze sociali. Nel corso della storia, solo quattro dirompenti forze sarebbero state capaci di invertire il processo e redistribuire la ricchezza: guerre, rivoluzioni, pandemie e fallimenti dello Stato.
Bisogna ammettere che, leggendo le prime pagine di Storia dello Stato sociale in Italia, le tesi di Scheidel sovvengono alla mente quasi spontaneamente per almeno due motivi. Il primo è che il volume prende le mosse dal paradigma storiografico warfare-welfare, che evidenzia come la mobilitazione bellica delle masse sia stata il pungolo decisivo che innescò il protagonismo dello Stato novecentesco nell’assistenza socio-sanitaria dei propri cittadini: un popolo la cui salute fosse cagionevole e il morale fiaccato dalle asperità della vita costituiva una nazione dalle armi spuntate. Il secondo motivo, più prosaico, è che questa pubblicazione irrompe nel mezzo della pandemia di Covid-19. Come le autrici stesse affermano in apertura, l’emergenza che stiamo vivendo ha di nuovo fatto balzare l’importanza del welfare e della sanità pubblica in cima all’agenda politica, sia per contrastare l’aggravamento delle disuguaglianze cui stiamo assistendo, sia per evitare analoghe catastrofi future (p. 7).
Il libro giusto al momento giusto, quindi. Anche per un altro motivo: gli studi sul Welfare State ad oggi sono stati appannaggio prevalente di sociologi, economisti e politologi, specie in Italia. Beninteso, storici che si occupano in maniera eccellente di assistenza e previdenza esistono (le autrici stesse vantavano già importanti pubblicazioni in materia). Si tratta però quasi sempre di studi che irradiano una certa angolazione di quel poliedrico oggetto che è lo Stato sociale. Nel panorama nazionale mancava proprio una sintesi, un fiume nel quale i tanti affluenti storiografici potessero riversarsi. Ne deriva un’opera che si concentra soprattutto sulle dinamiche istituzionali, con dovizia di riferimenti legislativi e dati numerici. Una prospettiva eminentemente “romana”, incentrata sul rapporto tra il governo, il Parlamento (eccetto nell’età fascista, naturalmente) e gli enti assistenziali. Tutto ciò senza rinunciare ad alcuni sprazzi di storia “dal basso”, come nel passo in cui si osserva che ancora dopo il 1945 tre quinti degli ex-voto “per grazia ricevuta” nei santuari piemontesi riguardavano infortuni sul lavoro (p. 308). Anche la scelta delle fonti riflette questo assortimento, che si traduce in un’ampia rilevanza offerta alla pubblicistica: pamphlet, riviste e lavori giornalistici dai quali emerge l’intensa elaborazione intellettuale retrostante la costruzione del welfare italiano, formulando punti di vista alternativi a quelli del legislatore (e non di rado contrastanti), che talvolta sopravvivevano in queste nicchie editoriali persino alla roboante propaganda ufficiale del fascismo. Da segnalare anche il ricorso alla cinematografia come testimonianza delle condizioni di vita della popolazione italiana, punteggiando di storia sociale tout court un lavoro che si può qualificare come una storia politico-istituzionale dello Stato sociale.
La periodizzazione scelta dalle autrici è di confessione hobsbawmiana: il “secolo breve dello Stato sociale”, che inizia con la prima guerra mondiale e termina negli anni Ottanta (p. 501), considerati non a caso “l’epilogo di un modello” (p. 467). Immediatamente il lettore viene trascinato nell’aula di Montecitorio, il 29 giugno 1914: il giorno prima a Sarajevo un certo Gavrilo Princip aveva ucciso l’erede al trono d’Austria-Ungheria, ma i deputati italiani (specie socialisti e radicali) erano impegnati a constatare lo stato miserevole della legislazione nazionale sull’assistenza (p. 25). A differenza degli altri principali Paesi europei (e non solo, come la Nuova Zelanda), dove i provvedimenti sociali stavano via via toccando quote crescenti di popolazione, in Italia tale compito era demandato a una miriade di enti filantropici e società di mutuo soccorso. Fu la prima guerra mondiale ad aprire un’intensa quanto breve stagione di riforme, per compensare l’immane sforzo bellico della popolazione e amministrare l’esoso prezzo della vittoria in termini di morti (560.000) e feriti gravi (460.000). A tal proposito Giorgi e Pavan pongono in evidenza particolari sorprendenti, come la decisione del governo nel 1916 di estendere i sussidi per i familiari dei caduti anche alle unioni extra-matrimoniali. La legge giunse così ad includere tra i beneficiari amanti, conviventi, figli naturali e addirittura “vecchi amici” (pp. 44-49). Un inusitato vento di modernità che fu bloccato dall’ascesa al potere del fascismo.
Il lungo capitolo sul Ventennio è particolarmente importante nell’economia dell’opera (pp. 91-208). Non solo perché contribuisce a sfatare i più dozzinali luoghi comuni sulla presunta generosità del welfare fascista. Di più, in queste pagine emerge chiaramente come la politica sociale del regime costituì addirittura la radice di molte gravi distorsioni del Welfare State italiano: una miriade di trattamenti differenziati tra le varie categorie di lavoratori, l’uso clientelare delle provvidenze sociali, il profondo cleavage di genere indotto da politiche per il lavoro rivolte soprattutto agli uomini e misure per la famiglia destinate principalmente alle donne. Il tutto in una selva di enti, istituti e casse mutua nelle cui maglie si consumava il connubio tra politica e interessi privatistici. Da qui l’origine della frattura tra garantiti e non garantiti, di cui ancora oggi sono evidenti gli effetti.
Insomma, l’eredità del fascismo rappresentò anche in età repubblicana un fardello con cui ogni successivo avanzamento dello Stato sociale dovette fare i conti. A questo punto emerge con chiarezza una delle tesi sostenute con più forza all’interno del volume: le vicende del Welfare State italiano non seguono affatto i principali tornanti della storia nazionale, né di quella europea (pp. 10-15). Certo, la nascita della Costituzione rappresentò un innegabile spartiacque che incastonò i diritti sociali direttamente nel codice genetico della neonata Repubblica. Tuttavia, archiviata l’esaltante stagione costituente, le risorse finanziarie del Paese vennero a lungo destinate soprattutto alla modernizzazione produttiva, lasciando indietro la spesa sociale (p. 322). Per vent’anni abbondanti lo sviluppo del Welfare State italiano avvenne a spizzichi e bocconi, un processo restituito efficacemente dall’immagine del “mantello di Arlecchino” utilizzata da Domenico Preti e mutuata dalle autrici (p. 311): un tessuto pieno di rattoppi e colori diversi, un mosaico senza disegno.
Tuttavia sarebbe assai sbagliato credere che Storia dello Stato sociale in Italia sia solo un grande cahier de doléance. Al contrario, in varie sezioni dell’opera si denota la capacità del Paese di recuperare in poche manciate di anni il terreno perso in decenni di ritardi rispetto allo standard europeo, talora elaborando politiche decisamente avanzate. In particolare, gli anni Settanta vengono evidenziati come uno snodo fondamentale nella costruzione dello Stato sociale italiano. Ciò rende giustizia ad un decennio che viene di solito troppo sbrigativamente associato al terrorismo e alla calcificazione della democrazia consociativa. Il paradigma degli “anni di piombo”, già contestato in passato da svariati studi (si pensi a Marica Tolomelli ne L’Italia dei movimenti, Carocci 2015), esce qui ulteriormente indebolito. A rinsanguare il welfare italiano fu negli anni Settanta una felice convergenza tra i movimenti sociali, la radicalizzazione di alcuni settori della scienza (incarnata da figure come Franco Basaglia o Giulio Maccacaro) e non da ultima la maggiore concordia tra la Democrazia Cristiana e le sinistre, dovuta al clima politico del compromesso storico (pp. 395-398). Così la riforma tributaria fornì nuove risorse da destinare anche al capitolo sociale, la legge Basaglia inferse un colpo mortale al sistema manicomiale, il divorzio e la riforma del diritto di famiglia misero in discussione il pregiudizio maschilista che aveva informato le politiche di assistenza sino ad allora, la legalizzazione dell’aborto ebbe un indiscutibile impatto positivo sulla sicurezza sanitaria delle donne.
Tuttavia la grande novità degli anni Settanta fu il Servizio sanitario nazionale, talmente iconica da meritarsi un intero capitolo del libro (pp. 399-466). È utile soffermarci su questo tema per due motivi. Primo, la nascita del SSN nel 1978 trasformò radicalmente il volto della sanità, storicamente il settore più arretrato del Welfare State italiano, ottenendo miglioramenti tangibili della salute pubblica già nell’arco di un decennio (p. 487). Secondo, tornare ad analizzare le origini del nostro servizio sanitario risulta molto utile nella congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui la riforma di questo comparto è tornata all’ordine del giorno.
Effettivamente appaiono di stupefacente attualità i dibattiti degli anni Sessanta e Settanta sull’importanza della sanità territoriale. Nello specifico, lo snodo fondamentale della questione era il seguente: come trasformare i cittadini da fruitori passivi delle prestazioni sanitarie a utenti attivi, dotati di strumenti partecipativi entro una struttura del SSN aperta alla comunità? In origine, questo avrebbe dovuto essere lo scopo delle Unità sanitarie locali (pp. 433-434). Giorgi e Pavan descrivono molto lucidamente il percorso che invece soffocò le istanze più genuinamente democratiche, già a partire dai passaggi parlamentari: come i partiti egemonizzavano le casse mutua su cui si fondava la sanità pre-riforma, analogamente la gestione delle USL fu assegnata agli enti locali. L’istituzione del SSN si rivela in definitiva una riforma di vitale importanza, ma nata orfana: accolta con freddezza dagli ordini dei medici e persino da importanti settori della stampa, fu accettata dalla parte più riluttante del ceto politico solo perché il vecchio sistema delle casse mutua era ormai giunto in prossimità del collasso finanziario.
Ciononostante, anche a parto avvenuto la sanità non smise di essere terreno per assai poco eroiche guerricciole corporative. In più di un’occasione il libro evidenzia come la nascita del SSN sia avvenuta in prossimità dell’inizio della stagione neoliberista, che avrebbe comportato l’esaurimento delle spinte riformatrici degli anni Settanta (pp. 398 e 475). Ciò è vero in relazione ad alcuni elementi: in effetti, a partire dagli anni Ottanta alcuni settori dell’opinione pubblica cominciarono a guardare con crescente benevolenza alla gestione aziendalistica della sanità. Tuttavia le storture che accompagnarono lo sviluppo del SSN (e del welfare in generale) sembrano apparentate in maniera ancora più diretta a specifici vizi della società italiana: la recalcitranza dei ceti medio-alti a contribuire al finanziamento dei servizi proporzionalmente alle proprie capacità economiche, la già menzionata voracità clientelare dei partiti, le ricorrenti levate di scudi da parte di tale o talaltra categoria in difesa dei propri interessi costituiti.
Il volume dunque ci consegna una suggestiva panoramica sullo stato attuale del welfare italiano. La lunga rincorsa ai nostri partner europei è finita, almeno per quanto riguarda l’espansione quantitativa della spesa sociale (p. 23). Un altro paio di maniche è la dimensione qualitativa: ancora oggi il nostro Stato sociale si distingue per l’elevata spesa pensionistica, frutto di una lunga consuetudine ad utilizzare la previdenza come strumento di consenso politico. Ne consegue un sistema di welfare in cui i trasferimenti monetari prevalgono sulla fornitura di servizi, affievolendo così la spinta redistributiva delle prestazioni. Si ritorna dunque al grande problema che ripercorre praticamente tutte le pagine del libro: l’impasto tra innovazione sociale e incrostazioni conservatrici, frangenti storici di grande portata trasformativa che vengono seguiti da lunghe fasi di ristagno.
Probabilmente è proprio questo il più importante merito dell’opera, ossia conferire prospettiva e profondità a buona parte del dibattito sulle riforme del Paese che impegna a ciclo continuo l’opinione pubblica. Effettivamente la storia del welfare racconta molto delle malattie croniche (per restare in tema) di cui sono affette la politica e la società italiana: clientelismo, corporativismo, familismo. Lettura raccomandata dunque ai riformatori di oggi e domani, affinché imparino due lezioni: la prima è che li attende un lavoro ingrato; la seconda è che trasformare il Paese è possibile, ma a patto di ricostituire quella fertile triangolazione tra politica, intellettuali e società civile che si è manifestata nei periodi più dinamici e fecondi della storia nazionale.