Storia e geopolitica della crisi ucraina. Intervista a Giorgio Cella
- 12 Giugno 2022

Storia e geopolitica della crisi ucraina. Intervista a Giorgio Cella

Scritto da Giacomo Bottos

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Ricercare la diacronicità e le radici dei processi storici di lungo corso è essenziale per comprendere l’attuale crisi ucraina. In tale prospettiva, in questa intervista Giorgio Cella – analista di politica internazionale – ripercorre alcuni dei principali passaggi della lunga vicenda storica alle origini della guerra in Ucraina, partendo dal libro Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus´ di Kiev a oggi (Carocci 2021). Attraverso una ricostruzione che prende le mosse dall’epoca precedente alla venuta degli slavi nel territorio dell’odierna Ucraina per arrivare sino all’epoca post-sovietica, Cella traccia la storia di un’area centro-orientale d’Europa molto spesso trascurata.


Può essere utile partire proprio dal titolo del libro, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Da un lato non si tratta di una storia dell’Ucraina, ma di una storia della crisi, quasi a suggerire che si possa ricercare una diacronicità, una durata nel lungo periodo di questa crisi. Dall’altro lato, l’uso del termine “geopolitica” porta a riflettere sulla rilevanza della dimensione geografica e su quale ruolo gioca fin dalle origini di questa vicenda storica, che viene ricostruita all’interno del libro. 

Giorgio Cella: Il titolo del libro indica il tentativo di ricerca – di quella che inizialmente è stata una tesi di dottorato – delle radici remote di questo conflitto, che possono essere ricercate in tempi financo antichissimi. Un titolo alternativo sarebbe potuto essere “Da Erodoto a Euromaidan”, che infatti compare nella quarta di copertina. Quella ucraina è una crisi internazionale un po’ atipica, perché l’aliquota storica in questo conflitto emerge in maniera preponderante in moltissime dimensioni: nei discorsi dei suoi politici, nelle commemorazioni – che siano la Guerra patriottica del 1945, gli accordi di Perejaslav del 1654, o l’antica Rus’ di Kiev – vediamo un continuo di questa ciclicità storica, che emerge e influenza anche l’andamento del conflitto in corso oggi. Ad esempio, le strategie belliche di Putin riprendono alcuni disegni imperiali dell’epoca zarista, in particolare quello di Caterina II detto Novorossia, che si estendeva dalle zone più a nord-est del Donbass fino alle zone a ovest della Crimea. La Crimea fu per l’appunto annessa nel 1783 da Caterina la Grande fino ad arrivare a quella che un tempo era nota come la zona della Bessarabia, che oggi corrisponde alla Transnistria e alla Moldavia. In una accezione seria del termine, non abusata come di frequente accade oggi, “geopolitica” indica il rapporto tra variabili umane – quindi temporanee – e costanti invece geografiche più o meno perenni. Già dal tempo di Erodoto, l’Ucraina era un crocevia, ce ne parla proprio il padre della storia. Un territorio solcato da diversi imperi, al tempo c’erano i Cimmeri, gli Sciti, i Sarmati – e qui già c’è un piccolo raccordo con l’attualità, “l’arma segreta” di Putin si chiama per l’appunto Sarmat 2 e riprende proprio questo nome. Da sempre crocevia, dunque, e, purtroppo per le genti che hanno abitato questo territorio nei secoli, sfortunatamente collocato dal punto di vista geostrategico, innanzitutto perché non possiede difese naturali chiare – il termine Ucraina nell’antico slavo orientale u kraij significa proprio “sui confini” e questo restituisce già la cifra geopolitica di un territorio da sempre crocevia non solo di imperi, ma anche di culture. Lungo questa ricerca, ho avuto modo di ricostruire un mosaico culturale e identitario di grande interesse, molto poco conosciuto, con una serie di influssi culturali, religiosi, una sorta di collante o canale di comunicazione nei secoli di diversi trend culturali, in un certo senso dello Zeitgeist dei vari secoli. Ci sono pagine dedicate ad esempio all’azione dei gesuiti nella formazione delle università in Ucraina, che fungevano da tramite per tendenze culturali che poi finivano per influenzare anche la Russia. Si tratta quindi di crocevia in senso multidimensionale, sia militare e politico sia sul piano culturale e identitario. In tutto ciò, quello che ho scritto non è un libro sulla storia dell’Ucraina – ne sono già stati scritti diversi –, ma bensì un testo che ricostruisce quanto c’è da ricostruire del conflitto attuale tra Russia e Ucraina. Il saggio traccia cioè una panoramica dal punto di vista storiografico della regione ruteno-polacca, e degli eventi principali e dei protagonisti che lungo due millenni hanno plasmato questo territorio e quindi l’attuale Ucraina, che ha fatto la sua comparsa in termini di nazione come la intendiamo oggi solamente nel XX secolo. Per una prima fase nel 1918, con una con una situazione molto precaria in termini statuali, e poi, finalmente, nel 1991 con il raggiungimento dell’indipendenza dall’Unione Sovietica.

 

Provando a ripercorrere alcuni dei passaggi di questa lunga vicenda storica, un momento che viene spesso evocato anche nel dibattito pubblico, di norma senza un adeguato approfondimento, è proprio la Rus’ di Kiev. Le chiederei di tratteggiare il carattere di questa realtà storica e di spiegare l’importanza anche simbolica che tuttora riveste.

Giorgio Cella: Rus’ di Kiev compare nel sottotitolo del libro proprio perché è da lì che bisogna partire, se non si vuole risalire a tempi ancora più addietro, per comprendere la questione della memoria contesa. La Rus’ di Kiev era il primo Stato degli slavi orientali; una definizione che rimanda alla presenza nei territori limitrofi degli slavi meridionali, nei Balcani (croati, serbi e così via), e degli slavi occidentali (cechi, polacchi, slovacchi). Gli slavi orientali hanno avuto origine, dal punto di vista di una culla storica, nell’area del Mar Nero e di Kiev – in russo è Kievskaja Rus’, ossia la Rus’ di Kiev, nata a Kiev. La Rus’ di Kiev ha cominciato a formarsi attorno alla fine del IX secolo, con l’arrivo dei popoli Variaghi – Normanni dalla Scandinavia, che si sono però, questo va detto, fusi molto presto con le popolazioni locali. Alla storiografia russa non piace molto l’idea che popoli stranieri siano arrivati ad un certo punto e abbiano fondato il loro Stato. Che ci siano stati Variaghi e Normanni è piuttosto assodato dal punto di vista storiografico, ma il loro lascito è stato abbastanza breve e relativo sul lungo periodo, perché si sono fusi e mischiati molto presto con le popolazioni slave locali. Questo si evince anche dai nomi dei monarchi, che sono tutti slavi: Olga, Svjatoslav, Yaroslav, Vladimir – e qui è chiaro quale raccordo potrebbe esserci, tra Vladimir I, detto il Santo, e i protagonisti di oggi, i due comandanti in capo contrapposti, Vladimir Putin per la Russia e Volodymyr Zelens’kyj, nella declinazione ucraina. Vladimir I fu una figura chiave nella Rus’ di Kiev, perché fu il primo monarca che decise per la conversione di massa di questo Stato – si parla naturalmente di un regno, di un impero anche, perché nella sua massima estensione questo potentato altomedievale, poi medievale, si estendeva dal Baltico sino al Mar Nero. Vladimir I fu il monarca che, rispetto ad alcuni dei suoi predecessori che attuarono una conversione individuale, decise invece di convertire le masse kievane. Questo fu un evento spartiacque nella storia non solo della Rus’ di Kiev, ma di tutta l’Europa centro-orientale; fu una decisione volontaria da parte di Vladimir I, che intratteneva anche contatti con altre realtà culturali – si pensi all’ebraismo dei Khazari, o alle molte realtà nazionali e culturali di matrice islamica come i Peceneghi e i Tatari – dunque questo inserimento nel mondo euro-cristiano della Rus’ di Kiev fu sicuramente un passaggio di grande rilevanza dal punto di vista storiografico. Un altro evento spartiacque, metastorico quasi in questa lunga traiettoria, è l’assalto di Kiev da parte dell’impero dell’Orda d’Oro di Gengis Khan. La storiografia divide la storia della Russia a partire da questa data del 1240, dell’attacco tataro-mongolo su Kiev – Kiev ha rischiato pochi mesi fa un altro assedio, che poi non si è materializzato, da parte dei russi –; qui c’è il primo momento di declino incipiente della Rus’ di Kiev, che già soffriva per i problemi interni con i potentati e le lotte dinastiche. Inoltre, il potenziamento di alcune città rivali rispetto a Kiev era già in atto e il 1240 con il raid mongolo pone fine praticamente alla Rus’ di Kiev, che poi avrà termine ufficialmente alcuni decenni più tardi. Da qui in poi vi è l’inizio di un complicatissimo iter di etnogenesi, che porterà le popolazioni che costituivano la Rus’ di Kiev alla creazione – lungo i secoli, in maniera evidentemente molto complicata, ma in una traiettoria diacronica – della Russia nella sua declinazione imperiale, che fu lo Stato dell’area che ebbe un impatto maggiore sulla storia del mondo e dell’Europa, proprio per la sua definizione imperiale, e dall’altra parte un lungo iter che portò alla formazione dei Ruteni. Sotto questo termine si celavano le nazionalità proto-bielorusse e proto-ucraine. 

 

Nel libro questo percorso storico viene descritto minuziosamente. Quali sono alcuni momenti ed elementi particolarmente significativi, anche guardando a quella che può essere la diversità delle narrazioni e delle interpretazioni entrate in gioco a partire dai diversi soggetti storici emersi, segnatamente la Russia e l’Ucraina?

Giorgio Cella: In sintesi, si possono evidenziare due elementi chiave. In primis, la Rus’ di Kiev non era lo Stato né dei russi né dei bielorussi e degli ucraini, ma una sorta di amalgama degli slavi orientali, che non aveva una definizione etno-nazionale. Quando finì la Rus’, entrò in gioco un attore geopolitico fondamentale per capire tutte le questioni dell’Ucraina di oggi – e non solo del 1400 e del 1500 –, ossia l’impero polacco-lituano, costituitosi formalmente attorno ai 1380 e poi formalizzatosi in un’unione nota come Unione di Lublino nel 1569. In questa confederazione polacco-lituana, la parte polacca diventa “socia di maggioranza totale” dell’unione. L’azione della Polonia, che era storicamente nell’area il latore della cattolicità e di una certa idea di Europa, influì molto pesantemente sul futuro dell’Ucraina, perché si ritrovò ad avere come grande interlocutore in tutte queste zone annesse o conquistate i Ruteni, la cui caratteristica principale era la confessione ortodossa. Non è difficile qui immaginare quale tipo di scontro identitario si creò tra i Ruteni e l’impero polacco. Il secondo evento storico fu l’Unione di Brest, che peraltro ci coinvolge in parte come italiani, dal momento che fu firmata sotto l’occhio vigile di Clemente VII a Roma nel 1595 e poi reiterata a Brest. Ancora un raccordo con la storia contemporanea: i primi tentativi di negoziato o di intesa tra russi e ucraini durante questo ultimo conflitto si sono per l’appunto svolti sempre nella città di Brest, nell’odierna Bielorussia. L’Unione di Brest ha creato la Chiesa greco-cattolica, di cui oggi si parla molto anche rispetto all’arrivo dei rifugiati nel resto d’Europa dalle zone della Galizia e di Leopoli. Ecco, nel XVI secolo queste due unioni caratterizzarono in maniera fondamentale la traiettoria storica degli ucraini. Non solo, ma questo – in estrema sintesi – portò ad un risentimento di alcune frange dei Ruteni contro la szlachta, la nobiltà imperiale polacca, e, in un lungo processo geopolitico, cioè di rimodellamento geografico e umano di alcuni territori che sono quelli del Donbass e dell’area sud-orientale dell’Ucraina, la formazione di quella particolare unità politico-militare che sono i cosacchi. Qui nasce un’altra anima dell’Ucraina, per l’appunto cosacca e ortodossa, in una sorta di contrapposizione con quella greco-cattolica. Da qui poi la questione dei rapporti, formalizzati nel 1654 come si diceva con gli accordi di Perejaslav tra ucraini – o una prima formazione embrionale di Stato ucraino-cosacco – e lo zarato di Alessio I.

 

Passando a un momento storico che si avvicina di più agli antecedenti più prossimi della situazione attuale, come vengono a delinearsi i rapporti tra Unione Sovietica e Ucraina, quali sono gli elementi principali per comprendere questo rapporto che è utile rievocare anche per comprendere come si è arrivati al conflitto in corso?

Giorgio Cella: Per quanto concerne il periodo sovietico dell’Ucraina bisogna guardare alle diverse dottrine politiche che ne hanno caratterizzato ciascuna fase principale: l’era Lenin, l’era Stalin e poi l’era Chrušcëv. In particolare, analizzerei queste tre. Lenin aveva come sua bussola quella definizione nota come politica di indigenizzazione – la korenizacija, cioè dare risalto alle varie nazionalità dell’impero. Sappiamo che l’impero russo è storicamente nato come impero multiculturale, in cui questa sua natura multiforme, multireligiosa e multi-identitaria è stata allo stesso tempo una forza e un fattore di grande debolezza. Dietro ad ogni crollo imperiale vi sono state infatti anche questioni di astio, confronto o ostilità fra nazionalità interne al grande impero russo – cangiante nei secoli, prima zarista, poi sovietico, oggi federale per quello che ne rimane –; le questioni delle nazionalità sono dunque sempre state un tema estremamente delicato. Lenin aveva una sorta di sua attitudine verso questo problema e per l’appunto korenizacija era il termine di questo suo pensiero politico, che mirava a dare risalto alle varie nazionalità per farle sentire parte di un tutto. Quando arrivò Stalin la questione cambiò drasticamente: inizialmente Stalin si collocò nella scia lasciata Lenin, ma presto cominciò a cambiare rotta, cominciando a vedere le nazionalità come un problema, bisognava anteporre alla questione identitaria l’homo sovieticus, una nuova costruzione imperiale di un uomo sovietico, in cui tra l’altro il russo era la lingua franca e principale. In questo l’Ucraina, con il suo nazionalismo storico – che risaliva già all’Ottocento – costituiva per Stalin un ostacolo. La risposta a questo ostacolo si espresse in alcuni eventi di estrema brutalità; il primo fu sicuramente l’Holodomor, che in ucraino significa “morte per fame”, che consistette in pratica nel sequestro del grano – vediamo come torna anche oggi la questione del grano –, a cui poi seguì la dekulakizzazione, e che portò a una strage per mancanza di viveri che uccise milioni di ucraini. L’Holodomor sotto Stalin fu un dramma nazionale che è ancora ben impresso nella memoria degli ucraini di oggi. Allo stesso tempo – qui cito anche un grande storico dell’Unione Sovietica e della Russia come Andrea Graziosi – paradossalmente, nel periodo staliniano dopo il 1945 e la vittoria sulle armate naziste, l’Ucraina fu ricostituita quasi garantendo il sogno dei più fanatici nazionalisti ucraini, si potrebbe dire. Stalin decise di assemblare tutte le regioni in cui storicamente c’era stata una presenza ucraina, slava o rutena all’interno del nuovo Stato ucraino. Ovviamente questo sembra un po’ un paradosso, ma i confini attuali sono stati definiti e chiariti proprio da Stalin. Per proseguire in questo piccolo excursus sovietico con al centro l’Ucraina, dopo Stalin importante è l’era Chrušcëv. Nel 1954 ci fu questo controverso – specialmente agli occhi dei russi e di Putin – passaggio della sovranità della Crimea dalla Repubblica Socialista Sovietica Russa a quella ucraina. Nel libro c’è un capitolo dedicato in cui spiego perché Chrušcëv abbia voluto compiere questa scelta, e dove considero la questione da un punto di vista strategico, anche in termini di sicurezza: al tempo il Mar Nero non assomigliava per nulla al mare di oggi, dove si svolgono esercitazioni di potenze diverse, ma al contrario si trovava completamente sotto il controllo sovietico, come lo era tutta l’area, non c’erano focolai di instabilità. Richiamo nel titolo del capitolo l’espressione rex in regno suo est imperator, riprendendo il diritto latino. Questa è in sintesi la mia lettura del perché Chrušcëv abbia ceduto la Crimea. Dall’altro lato, c’è tutta una questione storica nei trattati; nel libro si parla proprio del tricentenario degli accordi di Perejaslav del 1654, firmati dall’etmano Bohdan Chmel’nyc’kyj, che fu il capo più importante dei cosacchi ucraini, quindi da parte di una forma statuale proto-ucraina, e dallo zar Alessio I. In quel momento si ha l’inizio formale e istituzionalizzato dei rapporti tra Russia e Ucraina; da lì in poi non si sono più lasciate, nei vari alti e bassi – più bassi che alti, purtroppo per gli ucraini. Chrušcëv – nella sensibilità storica che caratterizza tutto l’arco europeo centro-orientale, ossia una sensibilità piuttosto forte per i fatti storici e la memoria storica – nei trattati riporta alla memoria dei due popoli, che lui stesso definiva come popoli fratelli e come nazioni sorelle, la questione storica del tricentenario dei rapporti tra ucraini e russi. Terzo elemento nell’approccio di Chrušcëv alla questione della Crimea era poi la volontà di restituire qualcosa di positivo agli ucraini dopo gli anni di stragi sotto Stalin. 

 

Un altro passaggio chiaramente fondamentale è la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Quali dinamiche si instaurano e quali contraddizioni si aprono in questo passaggio storico, guardando anche alla fase successiva?

Giorgio Cella: Il 1989, poi il 1991, indipendentemente da quando storiograficamente si voglia segnare la fine dell’URSS e quindi lo scontro bipolare, hanno rappresentato il secondo crollo imperiale russo. Il primo era avvenuto nel 1917 con poi la creazione dello Stato sovietico, e poi con il 1989 o 1991 la dissoluzione dell’impero sovietico. Da qui in poi nascono una serie di disequilibri nella geopolitica dell’area che hanno portato a forme di instabilità molto forti lungo oltre tre decenni post-sovietici. Si è creato questo spazio fluido, liquido, non controllato, perché soprattutto – nel libro evidenzio particolarmente questa questione – è mancata una conferenza finale di un periodo, un quarantennio, di Guerra Fredda; un elemento veramente anomalo all’interno del corso della storia diplomatica europea e internazionale dall’Ottocento in poi. Nelle varie fasi che hanno determinato il corso della storia della diplomazia e la storia politico-militare europea, infatti, si sono sempre avute: si pensi al Congresso di Vienna, alle Conferenze di Teheran e Yalta, ai Trattati di Parigi. Al contrario, dopo quarant’anni di Guerra Fredda non si è avuto un tentativo neanche diplomatico di, se non sistemare, quantomeno tentare di ridefinire la situazione dei rapporti euro-atlantici e soprattutto tra Russia e occidente e quindi dei rapporti eurasiatici. Vi sono stati due timidi tentativi, che però erano parte integrante del finire della Guerra Fredda e non sono occorsi una volta dissolta l’URSS. Si tratta degli Accordi di Malta nel 1989, che poi presero però una piega molto più politica e simbolica che non di carattere diplomatico come volontà di creare delle linee rosse e delle zone di influenza. L’anno successivo, nel 1990, vi furono poi i noti accordi di Mosca. In questi negoziati tra la delegazione americana di Bush Sr., Kohl dall’altra parte per la Germania, e la delegazione Gorbacëv si affrontarono una serie di tematiche cruciali. Ne cito tre, che sono le tre prioritarie: la riunificazione tedesca, il ritiro delle truppe sovietiche da tutti i territori del patto di Varsavia e infine anche il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. I russi hanno concordato queste tre fasi fondamentali che portarono poi il mondo sulla soglia di una nuova era, perché per l’appunto finì l’era dello scontro bipolare, e dall’altra parte gli Stati Uniti e l’occidente hanno tratto significativi vantaggi diplomatici e politici da questo nuovo riassetto. Si tratta di un assetto però liquido, non ridefinito da una grande conferenza finale; tra l’altro – se le cose vanno bene, almeno rebus sic stantibus, perché l’evoluzione del conflitto è ignota – potrebbe ritornare la questione di una grande conferenza che ridefinisca questi nodi geopolitici che sono emersi e che non sono mai stati sciolti durante questi tre decenni post-sovietici.

 

Per concludere, quali considerazioni si possono svolgere sul conflitto attuale che trova una premessa nel 2014 per poi arrivare al nuovo scoppio delle ostilità nel febbraio 2022 , un conflitto che lei ha avuto modo di seguire, sia come ricercatore, sia in qualità di osservatore dell’OSCE nel 2019?

Giorgio Cella: C’è sicuramente un pregresso rispetto a questa guerra, che ovviamente non giustifica in alcun modo l’offensiva militare russa, ma che sicuramente spinge a ragionare sulle cause e concause anche più recenti. Nel 2014 c’è stato quello che poi è stato definito dai media, quantomeno occidentali, come Euromaidan, ossia questa rivolta contro il governo filorusso di Janukovyč, per una serie di ragioni che tenevano insieme l’elemento del nazionalismo ucraino alle istanze anticorruzione. Si è poi delineata quella grande crisi internazionale, già al tempo, che mi portò alla scrittura del libro; lo scrissi per offrire un punto storiografico su quanto accaduto e su quanto era importante ricostruire per capire come questa crisi fosse esplosa in maniera così virulenta. Nel 2014 abbiamo dunque Euromaidan e poi l’inizio di una grande fase di instabilità, l’annessione russa della Crimea sempre in quell’anno e poi l’inizio dell’instabilità del Donbass. Vi sono due tentativi della diplomazia europea di raffreddare la crisi, e si siglano i due accordi, Minsk I e Minsk II. Ancora una volta furono le dinamiche belliche sul campo a influire sui tavoli negoziali. Ci furono due grandi battaglie, in cui gli ucraini persero molti uomini, e questo riportò le diplomazie occidentali al tentativo di trovare degli accordi per limitare l’entità del conflitto. Minsk I non resse, gli accordi di Minsk II invece durarono di più. È stata una guerra sempre a bassa intensità, con sprazzi di altissima intensità; si è generato quello che viene denominato, con una definizione anglosassone non esattamente precisa, un “conflitto congelato”, che sarebbe più sensato definire “conflitto protratto”, fino al febbraio 2022, quando riesplode, questa volta con una magnitudo incomparabile rispetto al 2014, la crisi ucraina. Nel 2019 ebbi l’occasione di essere in Ucraina come osservatore elettorale internazionale per l’OSCE, e fu l’occasione in cui Zelens’kyj divenne presidente. Tra l’altro è interessante osservare come il percorso politico di Zelens’kyj sia puntellato da una eterogenesi dei fini: al tempo delle campagne elettorali era visto come il presidente che avrebbe dovuto portare una riconciliazione con le zone russofone del Paese, le zone in guerra, e portare la pace tra Ucraina e Russia, mentre dall’altra parte c’era Porošenko, che invece era il presidente del “Dio, famiglia e lingua ucraina”, quindi più conservatore, tradizionalista e più bellicista nei confronti della Russia. Si è poi assistito al modo in cui le dinamiche geopolitiche e il corso del mandato di Zelens’kyj abbiano portato a questa situazione di non definizione, di assenza di un trattato di pace tra Ucraina e Russia, gli accordi di Minsk si sono progressivamente degradati e la sicurezza è diventata sempre più volatile nella parte orientale del Paese, in quella linea di contatto tra il Donbass sotto il controllo dell’esercito ucraino e quello sotto il controllo delle due repubbliche filorusse a vocazione indipendentista. Da lì si è avuto l’ultimo atto sanguinoso dell’antica faida territoriale e identitaria per questo crocevia eterno che è l’Ucraina.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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