Scritto da Luca Domizio
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Di cosa parliamo quando parliamo di storia militare? Il tema è vasto e dai contorni non sempre definiti, proprio per questo l’intervista a Virgilio Ilari può essere utile ad acquisire degli strumenti orientati alla comprensione e all’inquadramento della disciplina. Al di là dell’aneddotica e del sensazionalismo da celebrazioni, i livelli e i modi per parlare di storia militare sono i più diversi e possono interessarci per punti di vista tematici e/o cronologici. Tuttavia, a volte, sentiamo parlare di questa disciplina in modo vago e confuso (soprattutto quando la si usa come bersaglio polemico per privilegiare altre prospettive storiografiche). Con questa intervista al Professor Virgilio Ilari, uno dei punti di riferimento in materia, il nostro obiettivo è proprio quello di tratteggiare una linea degli studi storico-militari in Italia negli ultimi decenni, cercare di capire di cosa si tratta e perché può interessarci.
Virgilio Ilari, già Professore in diverse Università italiane, è oggi presidente della Società Italiana di Storia Militare (SISM) e direttore, assieme a Giovanni Brizzi, della rivista internazionale e interdisciplinare Nuova Antologia Militare (NAM). Della sua vasta produzione storiografica ricordiamo solamente, tra gli ultimi, Scrittori militari italiani dell’età moderna. Dizionario bio-bibliografico 1410-1799 (Nadir Media, 2020), Clausewitz in Italia e altri scritti di storia militare (Aracne, 2019) e Il terzo uomo dell’Affaire Dreyfus. La vita romanzesca di Maurice-Henri Weil (Tab edizioni, 2019). Molti contributi dell’autore, come anche numerosi altri saggi riguardanti la storia militare, sono disponibili completamente open access sul sito della rivista NAM. Questa intervista si inserisce nel quadro di una collaborazione con il gruppo studentesco di storia militare Casus Belli – Arma Mater Studiorum, nato tra le aule del Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà dell’Università di Bologna e che si avvale della collaborazione di studenti e dottorandi di diverse sedi italiane ed estere.
Parlare oggi di storia militare non è scontato e vorremmo chiederle, proprio per questo, quali siano le caratteristiche di questa disciplina. Di cosa si occupa la storia militare, cosa la caratterizza? A cosa può servire un approccio di questo genere e che tipo di comprensione fornisce?
Virgilio Ilari: Nell’uso corrente, “storia militare” è semplicemente un’espressione che indica, senza definirlo, un campo pressoché illimitato di conoscenze (knowledges) e di sfruttamenti commerciali (exploitations) che riguardano “guerra” e “militare”, lemmi inflazionatissimi che possono significare tutto o niente. Per questo è necessario tracciare una mappatura, almeno provvisoria, di questi campi, altrimenti si procede alla cieca accumulando equivoci, intasando la ricerca e sprecando tempo e risorse. Cominciamo con knowledge. Un vecchio detto, condiviso da Clausewitz, è che la storia militare permette di conoscere la guerra senza doverne fare diretta esperienza. E infatti imparare dal passato resta lo scopo primario della storia militare professionale, utile per individuare i fattori determinanti del successo e dell’insuccesso e concetti, approcci e metodi di impiego della “panoplia del principe” (che non si limita all’hard power e alla forza armata ma include qualunque altro mezzo complementare o alternativo utile e appropriato per imporre la propria pace). Altro scopo tradizionale è acquisire una formazione culturale con lo studio sistematico della letteratura teorico-pratica (trattati, memorie, storiografia, manualistica e studi classificati) sull’arte della guerra (strategia, operazioni, tattica, organica, logistica, informazioni e tecnologia) e le “scienze militari” propriamente dette (ossia le applicazioni militari delle scienze fisiche, biologiche e matematiche). Questo non vale solo per i militari, ma a maggior ragione per chi intraprende una rivoluzione o una resistenza. Guerra tra pari (“regolare”) e guerra irregolare non sono reciprocamente esclusive, e lo studio storico della loro natura e delle reciproche interazioni (“ibride”) è la parte della storia militare di gran lunga più difficile da comprendere e studiare, come dimostra l’incessante accavallarsi di pseudo-definizioni (dimenticando il monito di Clausewitz che “la guerra è come un camaleonte, che cambia natura mentre si sviluppa”). “Storia militare” indica però – per sineddoche (ossia una parte per il tutto) – la dimensione critica di quelli che oggi più esattamente vengono chiamati – e dovrebbero essere chiamati – war studies, ossia il complesso degli studi che trattano la guerra nei suoi vari aspetti dalla specifica prospettiva delle scienze umane, sociali, matematiche, biologiche e fisiche. Abbiamo così, ad esempio, una storia giuridica delle istituzioni costituzionali, amministrative, giudiziarie e tecniche preposte a prevenire, preparare e condurre la guerra; e così una storia sanitaria (distinta dalla storia della medicina militare); e lo stesso, senza bisogno di elencarle, si intuisce per storia economica, politica, sociale; ma pure per la storia della religione, del cinema, dell’arte, della musica, dell’architettura, della geografia, delle geoscienze, della geopolitica, della letteratura. Non c’è alcun sapere, infatti, che non possa essere sfruttato per fare o giustificare la guerra. Tutti questi saperi confluiscono, più o meno consapevolmente, nel formare la specifica cultura di guerra di una determinata epoca o società. I war studies servono a focalizzare l’attenzione sull’effetto sinergico di tutti questi apporti. Che in genere è nefasto, perché una cultura sociale della guerra è necessariamente il precipitato di tutte le ottusità dogmatiche insite nei saperi particolari delle scienze umane e sociali. Viene da lì la “coazione a ripetere” sempre gli stessi errori. Ed è questo il settore che maggiormente richiede una continua igiene e profilassi storico-critica, ricordando che “guerra” è una mera astrazione verbale e che le guerre (tutte diverse nella loro irripetibile individualità) sono mere fasi (non sempre cinetiche e raramente risolutive), del processo storico globale scandito da contraddizioni e conflitti di “lunga durata”. Questa è la storia militare che un percorso di mezzo secolo mi ha condotto a professare, e che deborda da tutte le paratie stagne erette a difesa del quieto piétinage iper-specialistico. Veniamo ora all’exploitation della storia militare. Scientificamente irrilevante, è in sé assai meno pericolosa della cultura sociale della guerra. Il danno è il rumore di fondo, il drenaggio di risorse e di potenziali talenti (“legge di Gresham”), ma non vi è settore scientifico che ne sia immune. Per exploitation intendo l’incoraggiamento istituzionale, mediatico e commerciale della letteratura ideologica, militante, identitaria, propagandistica, celebrativa, di denuncia, di intrattenimento e di evasione – di segno politicamente conservatore o antagonista – che viene spacciata per storia militare e che andrebbe piuttosto catalogata nella categoria nietzscheana della “storia monumentale” o in quella della “storia d’impresa”. Questa non include solo l’epopea nazionale o di forza armata, ossia la famigerata “histoire-bataille” scandita esclusivamente dagli eventi e dalle glorie belliche, ma anche la contro-epopea pacifista e radicale e la contemporanea “cancel culture”. Capita allo storico militare di pescarvi qualche pepita e studiarla complessivamente come potenziale terreno di guerra psicologica.
Perché la storia militare ha avuto uno sviluppo diverso rispetto ad altre prospettive storiografiche di studio? Esistono, ad esempio, le discipline di storia del diritto, storia dell’economia, storia dell’arte, ecc… Perché la storia militare ha seguito un percorso diverso?
Virgilio Ilari: le ragioni sono tre. Anzitutto la storia militare professionale è stata a lungo considerata un sapere riservato agli stati maggiori (questo è vero in America, ma i nostri l’hanno trasferita un secolo fa dal reparto operazioni al reparto propaganda). In secondo luogo, l’exploitation della storia militare ha danneggiato gli studi seri, non solo sottraendo risorse, ma coinvolgendoli nel discredito generale per l’erudizione fine a sé stessa, le giaculatorie, i passatempi, i feticismi, le intolleranze, l’incultura, la prosopopea, il solipsismo e la ristrettezza mentale che infestano queste gettonate letterature popolari. La terza ragione è, semplicemente, che è molto più facile ottenere uno “strapuntino” all’interno di una disciplina storica già riconosciuta (e che richiede comunque allo storico militare una ulteriore formazione di base; si pensi alle conoscenze generali necessarie solo per potersi accostare seriamente ad esempio alla complessità della storia militare bizantina, medievale, moderna ecc.) piuttosto che costruire ex novo un intero “pullman”. Va sempre tenuto presente che il sistema accademico remunera i solisti e aborre i concerti, specie se mescolano una quantità di strumenti.
All’interno del Quaderno SISM 2012-2013, nel suo scritto di apertura al testo, lei riporta la concezione elaborata da Raimondo Luraghi alla base della Società Italiana di Storia Militare, ovvero quella di “una rete di collegamento triplice: fra le varie componenti della storia militare; tra la storia militare e gli studi geopolitici, strategici e di intelligence; tra l’università, i cultori non professionali e il ministero della Difesa”. Le chiederei, dunque, di descriverci cos’è e cosa è stata la Società Italiana di Storia Militare (SISM), l’ambiente in cui è nata e se nel tempo è riuscita a portare avanti i suoi obiettivi.
Virgilio Ilari: La SISM è nata nel 1984, due anni dopo il Centro Interuniversitario di Studi e Ricerche Storico Militari fondato da Giorgio Rochat e Piero Del Negro. Diversamente dal Centro, la SISM era però fin dall’inizio aperta ai militari e ai semplici cultori, perché era concepita come parte di un più vasto progetto (non accademico, ma politico-culturale) volto a favorire, in un Paese paralizzato da una cronica temperie antagonista e simil-rivoluzionaria, un clima di solidarietà nazionale sulle questioni della sicurezza e della difesa, come quello che nel primo dopoguerra aveva reso possibile il varo di una Costituzione condivisa. Oggi c’è la fila, specie tra le ragazze, per essere ammessi come ufficiali delle forze di completamento, e l’apoteosi è scrivere su Gnosis, la rivista dei servizi di informazione e sicurezza interna. Ma all’epoca occuparsi di storia militare e politica di sicurezza e difesa comportava censure ideologiche e discredito accademico, per non parlare di concetti “fascisti” come geopolitica, interesse nazionale e intelligence. Il progetto politico-culturale da cui nacque la SISM iniziò nel 1979, quando un mio primo libercolo sulla storia militare postbellica dell’Italia occasionò l’incontro e un lungo sodalizio con l’allora tenente colonnello degli alpini Carlo Jean, che, felicemente stimolato dalle letture sulla guerra rivoluzionaria fatte alla scuola di guerra francese, si era autonominato (estorcendo l’avallo rassegnato del capo di S. M. pro tempore dell’Esercito, generale Rambaldi), “pontiere” tra gli ignari e frastornati stati maggiori e il mondo della politica e dell’accademia. Era un doppio bluff, certo, ma a volte faccia tosta e giusta causa hanno successo (perciò non dispero neppure per la mia terza e ultima battaglia “pour l’histoire militaire dans un pays réfractaire”, che sto dando adesso insieme a voi). Nacque così l’ISTRID, formato dai responsabili degli Uffici Difesa dei partiti dell’arco costituzionale allo scopo di favorire l’approvazione bipartisan delle leggi promozionali, sostenute soprattutto dalla CGIL e dal PCI, che consentirono il secondo grande riarmo postbellico dell’Italia (nonché il salvataggio per altri vent’anni del servizio militare obbligatorio, inviso a cattolici e liberali) nella fase finale della Guerra fredda, vinta da Reagan con le “guerre stellari” e la guerra economica e conclusa con la scomparsa dell’Unione Sovietica. Poi ci furono i primi libri collettivi curati da Jean, la SISM, nel 1987 il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS) che produsse in pochi anni oltre un centinaio di monografie sui temi della politica di difesa, il riavvicinamento (da me perorato) tra Rochat e Luraghi (i nostri due Aiaci della storia militare) da cui nacquero alcuni convegni comuni e due eccellenti bibliografie di storia militare italiana (la seconda curata nel 1992 da Del Negro), il mio passaggio (1989) dalla cattedra di Storia del diritto romano a Macerata ad un corso di Storia delle istituzioni militari all’Università Cattolica di Milano, l’ammissione mia e di Jean nel comitato di redazione della rivista Limes, fondata nel 1993/94 da Lucio Caracciolo, e infine un dottorato di ricerca in storia militare con Rochat e Del Negro purtroppo esaurito col I triennio. Nel frattempo, finiva la Guerra fredda, cadeva la Prima Repubblica, finiva il PCI e l’euforia sui dividendi della pace, la rivoluzione giustizialista e antipartitocratica e il bipolarismo seppellivano letteralmente tutto quel che avevo aiutato a costruire fino a quel momento. Furono dieci anni di solitudine assoluta, gli amici in festa e io no. Ricominciai da capo, anche allora dagli studenti (i primi sono oggi “sessantini” come dice Montalbano). Mi aiutarono loro a passa’ a nuttata, durata vent’anni di treni, bettole e stamberghe. Ne laureai 150, ne incoraggiai tre a fondare l’ormai celebre Libreria Militare di Milano, un altro facoltoso mi aiutò a pubblicare libri rifiutati con sdegno da ogni editore rispettabile e a socializzare la mia biblioteca militare cartacea (10.000 volumi e 1.000 raccoglitori) rifiutata da Cattolica e Statale donandola al Comune di Varallo (ora ne conta il doppio ed è gestita dall’Istituto per la Storia del Novecento di Biella e Vercelli). Fu ancora grazie agli studenti che nel 2004 potei salvare la SISM da dissensi interni che rischiavano di portarla all’autoscioglimento (me ne ero allontanato quasi subito per dissenso dalla decisione di accettare un finanziamento, inizialmente di cento milioni annui, da parte del Ministero della Difesa). Nel 2010 tutti i progetti che avevo fantasticato crollarono di nuovo. Ne uscii, come fanno le volpi prese alla tagliola, “amputandomi” Milano e ricominciando da Roma. Finalmente libero dal pendolarismo, potei dedicarmi a ricostruire una SISM interamente autofinanziata, quintuplicando il numero dei Soci senza aumentare la quota (inchiodata a 25 euro) e lanciando una nuova serie di Quaderni annuali dedicati a temi di punta trascurati in Italia (come Naval History, War Films, Future Wars, Economic Warfare, ecc.) che in nove anni hanno pubblicato 300 saggi di 270 autori con oltre 5.000 pagine. Fondamentale fu la collaborazione con Giovanni Brizzi, che nel 2012 fu eletto vicepresidente della SISM e fondò la Rivista di Studi Militari, la prima rivista accademica italiana di storia militare interdisciplinare; purtroppo interrotta nel 2018 ma idealmente proseguita da Nuova Antologia Militare, condiretta da me e da lui. La donazione della biblioteca cartacea, che sembrava aver posto fine alla mia vita di studioso, produsse invece un inatteso potenziamento. Grazie alla crescente condivisione gratuita della ricerca scientifica, ho potuto infatti costruire in dieci anni una biblioteca militare digitale di 150.000 volumi e articoli che non solo mi hanno fornito una mappa formidabile dei war studies, ma mi hanno indicato le vere nuove frontiere della ricerca e sono state l’occasione per costruire quella rete internazionale di studiosi che ha reso possibile realizzare NAM supplendo e rendendo irrilevanti diffidenze e ostilità domestiche che altrimenti sarebbero state esiziali.
Nel suo saggio “Condurre” e “Capire”: L’utilità e il danno della strategia per la guerra, all’interno della raccolta Clausewitz in Italia. E altri scritti di storia militare (Aracne, 2019), lei afferma: “In realtà la concezione occidentale della guerra non è militarista solo perché favorisce gli eccessi di potere militare, ma soprattutto perché considera guerra unicamente i conflitti connotati dall’impiego dello strumento militare. Questa è una caratteristica non solo del pensiero militare e strategico, ma pure, e in misura addirittura più accentuata, del pensiero politico, giuridico, economico, teologico, oltre che della letteratura, del cinema e dei media. Paradossalmente, ma non senza chiare ragioni, la deriva militarista della nostra concezione della guerra è stata addirittura potenziata dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, terzo e ultimo competitore globale della talassocrazia occidentale dopo la Francia e la Germania, e dalla fine del ciclo (durato cinque secoli) delle guerre mondiali moderne”. Oltre a un approfondimento di questa citazione, le chiederemmo proprio in che modo la storia militare, osservata attraverso un approccio globale, può aiutarci a comprendere le divergenze esistenti tra più società e culture. Di che differenze si tratta?
Virgilio Ilari: Il modo in cui una società percepisce e conduce guerra e conflitti è il prodotto della sua storia e della sua cultura. Il modo in cui si può contribuire è studiarne la genesi, le caratteristiche e le conseguenze. La cosa più vistosa, al riguardo, è la completa rimozione delle sconfitte che l’Occidente si è autoinflitto senza alcuna vera ragione nei trent’anni successivi alla scomparsa dell’Unione Sovietica e in cui si è rivelato incapace di costruire un nuovo ordine mondiale. Con tutta la ridondanza di informazione di cui disponiamo, sembriamo divenuti incapaci di comprendere non solo i “nemici” che stiamo follemente e ciecamente fabbricando e coalizzando, ma soprattutto noi stessi, ignorando irresponsabilmente le nostre contraddizioni sociali e sistemiche e preparandoci così a nuove e sempre più gravi sconfitte. Il conflitto che stucchevolmente cerchiamo di riaccendere, dura dal 1763. Il vero nodo era già fin dall’inizio il controllo della Persia, dell’India e della Cina, che in tre secoli abbiamo preso e perso. La “coazione a ripetere” prodotta dalla nostra cultura sociale della difesa ci impedisce di vedere che il vero divide tra Oceàna ed Eurasia non sta nella nostra effimera e forse presunta superiorità militare, economica e morale, ma nel modo opposto in cui ci poniamo rispetto al divenire. Noi abbiamo preteso di fermare il “carro del sole”, inchiodandolo sulla mia decrepita generazione, gemebondo culmine del genere umano. I due terzi dell’umanità leggono invece dalla nostra stessa senile disperazione che il futuro appartiene a loro.