Scritto da Maria Chiara Turchi
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In un’economia mondiale sempre più globalizzata e digitalizzata, in cui i capitali possono essere trasferiti a velocità impensabili fino a qualche decennio fa, i paradisi fiscali rivestono un ruolo cruciale. La loro esistenza permette agli individui più ricchi e alle imprese multinazionali di distogliere, con relativa facilità, fette di base imponibile dai paesi che dovrebbero legittimamente applicarvi le imposte. A farne maggiormente le spese sono le economie in via di sviluppo, dove le tasse sui redditi d’impresa rappresentano solitamente una quota maggiore sul totale delle entrate, ma anche nei paesi più avanzati lo spostamento di tali profitti produce perdite consistenti[1].
I paradisi fiscali si potrebbero definire, semplificando, come giurisdizioni che puntano ad attrarre i capitali esteri grazie a una politica di concorrenza sleale sul piano fiscale. Tipicamente offrono regimi di tassazione con aliquote infime se non nulle, una forte resistenza a scambiare informazioni di natura fiscale e finanziaria con gli altri paesi e la mancata adesione agli standard internazionali in materia di accountability.
Nel maggio del 2016 più di trecento economisti hanno indirizzato ai leader mondiali una lettera in cui sostengono che i paradisi fiscali non hanno alcuno “scopo economicamente utile”. Gli studiosi hanno concordato sul fatto che l’esistenza di territori che permettono l’occultamento di risorse in società fittizie “distorce il funzionamento dell’economia globale”; inoltre, permettendo ad alcuni individui molto ricchi e alle grandi multinazionali di operare secondo regole diverse dai comuni cittadini, i paradisi fiscali “minacciano lo stesso stato di diritto”[2].
Non si tratta, quindi, soltanto di una preoccupazione concreta circa il reperimento delle risorse pubbliche: se si osserva il problema a un livello più profondo, si scorgono le conseguenze deleterie sul piano politico e sociale di un’iniqua suddivisione del carico fiscale. L’esistenza di una comune e proporzionata partecipazione agli oneri di mantenimento e funzionamento dello Stato è uno dei fondamenti della coesione di una comunità politica; nel momento in cui i cittadini iniziano a percepire uno sbilanciamento nel sistema, la credibilità dell’intera impalcatura rischia di vacillare.
Non a caso Oxfam, al pari di altre organizzazioni internazionali, è impegnata da tempo in campagne di sensibilizzazione e pressione verso i governi per introdurre misure di contrasto ai paradisi fiscali, nell’ottica più generale della lotta alla disuguaglianza e alla povertà nel mondo[3]. Fin da quando l’UE ha reso nota l’intenzione di avviare un processo di selezione delle “giurisdizioni non cooperative ai fini fiscali”, Oxfam ha seguito con attenzione tale processo, non mancando di sollevare alcune critiche già nel momento in cui la prima lista costruita sulla base di tali criteri è stata approvata. Il 7 marzo 2019, anticipando l’uscita del più recente aggiornamento di tale elenco, Oxfam International ha pubblicato un nuovo rapporto sul tema[4], mettendo in guardia sul rischio che alcuni dei paradisi fiscali più dannosi venissero depennati. Con questo articolo si vuole quindi cogliere l’occasione data dal rapporto per fornire un’analisi dei punti di forza e di debolezza della strategia europea adottata fino ad oggi.
La decisione di stabilire una “lista nera” comune dei paradisi fiscali extraeuropei era stata prefigurata dalla Commissione già nella sua Comunicazione al Parlamento Europeo e al Consiglio del 28 gennaio 2016[5]. Il processo di creazione di tale lista segue tre passaggi: in primo luogo, con la pubblicazione di una tabella di punteggi relativi a diversi parametri fiscali, si valuta il livello di rischio potenziale di ciascuno Stato; si procede poi alla selezione dei paesi che si discostano dagli standard richiesti, i quali possono decidere di allinearsi a tali requisiti normativi presentando un impegno formale in tal senso; infine, viene approvata la lista dei paesi che non hanno provveduto a correggere le proprie pratiche dannose[6].
I tre criteri scelti dal Consiglio[7], passibili di aggiornamento e strutturati secondo un’ottica di progressivo innalzamento degli standard nel tempo, sono di seguito sintetizzati:
Il 5 dicembre 2017, sulla base di tali parametri, il Consiglio ha approvato una lista di 17 “giurisdizioni non cooperative”[8], a cui ha aggiunto una “watch list” (una sorta di “lista grigia”) composta da 48 paesi che, pur non rientrando negli standard richiesti, avevano presentato un impegno formale ad adeguare la propria normativa fiscale entro la fine del 2018. In seguito la black list è stata aggiornata a diverse riprese[9], fino a giungere, nella versione più recente (approvata il 12 marzo 2019)[10], a comprendere i seguenti 15 paesi: Samoa Americane, Barbados, Guam, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini Americane, Aruba, Belize, Bermuda, Dominica, Isole Fiji, Isole Marshall, Oman, Emirati Arabi Uniti, Isole Vanuatu.
È evidente che la riuscita del processo avviato dall’Unione Europea, che sembra prediligere un approccio cooperativo e non meramente punitivo, dipende in gran parte dall’adeguatezza dei criteri adottati e dalla capacità di verificare rigorosamente che gli impegni assunti dai paesi inseriti nella lista grigia vengano effettivamente attuati. È soprattutto su questi aspetti, quindi, che Oxfam concentra la sua analisi.
Riguardo ai tre parametri esposti nel precedente paragrafo e usati per valutare i sistemi fiscali, se da un lato Oxfam considera positivamente in particolar modo il secondo criterio, quello della “fair taxation”, che consente accertamenti più concreti sugli effetti delle misure fiscali adottate, la stessa ONG riconosce però che esso risulta depotenziato dall’uso di una definizione datata delle “pratiche dannose”. Come anticipato, infatti, la definizione adottata risale al 1997 e censura principalmente i casi in cui viene offerto un trattamento preferenziale alle imprese straniere rispetto a quanto previsto per quelle locali. Nonostante l’obiettivo sia quello di indurre tali paesi ad alzare le imposte sui profitti delle multinazionali in modo da allinearle ai livelli previsti per i redditi prodotti internamente, il rischio è di ottenere l’effetto contrario. Si finisce cioè per incentivare tali giurisdizioni non tanto ad alzare le imposte sui redditi stranieri, quanto ad abbassarle per tutti i redditi d’impresa, allargando la platea dei beneficiari dei regimi agevolati per includervi anche le imprese locali. Oltre a diminuire l’ammontare delle entrate totali, ciò rischia di innescare una corsa al ribasso, a partire dai paesi vicini per continuare su scala internazionale, del tutto controproducente.
Un caso esemplare è quello delle Barbados, che da un sistema ad aliquote differenziate (0-3% per le imprese internazionali e 30% per quelle locali) è passata, per rientrare negli standard europei, ad applicare indistintamente a tutte le imprese registrate nel Paese tassi che variano da un minimo dell’1% a un massimo del 5,5% (a seconda delle dimensioni dell’impresa stessa)[11]. Nonostante l’UE si sia attivata in alcuni casi per richiedere ulteriori modifiche legislative – va riconosciuto che, contrariamente alle previsioni di Oxfam, le Barbados sono state effettivamente inserite nell’ultima lista nera – il problema dell’inadeguatezza di tale criterio permane.
Tale criterio andrebbe quindi aggiornato in modo da abbracciare tutti quei meccanismi che, pur rientrando formalmente negli standard richiesti, sono di fatto nocivi; si pensi a un Paese come Singapore, che è rimasto fuori addirittura dalla lista grigia pur praticando una strategia fiscale chiaramente aggressiva.
Significativa è stata poi l’introduzione dell’indicatore che verifica la presenza di esenzioni totali o di tassi molto bassi sui redditi d’impresa. L’UE ha chiesto ai paesi che presentavano tali caratteristiche di accompagnarle con requisiti sostanziali (come la presenza concreta di sedi e dipendenti o lo svolgimento di attività economiche reali sul territorio) che impediscano alle compagnie straniere di sfruttare tali regimi agevolati tramite società fantasma. Ciò dovrebbe dare del filo da torcere alle multinazionali che hanno trasferito diritti di proprietà intellettuale in questi paesi, ma potrebbe risultare insufficiente contro altri tipi di imprese. L’efficacia dell’introduzione di criteri sostanziali dipende soprattutto dalla volontà e dalla capacità dei paesi di applicarli in modo stringente, cosa di cui appare lecito dubitare.
Un merito della lista grigia è comunque quello di aver fatto emergere la grande diffusione delle pratiche fiscali dannose: anche con i limiti sopra discussi della definizione, l’UE ha rilevato centinaia di misure contrarie agli standard[12]. Altro carattere apprezzabile è la trasparenza del processo: sono state infatti pubblicate tutte le lettere di istruzioni mandate ai paesi della grey list e la valutazione finale sull’effettiva implementazione degli impegni assunti[13].
Oxfam ha però criticato le modalità di valutazione relative all’implementazione da parte degli Stati dell’agenda OCSE, che ha sottoposto i paesi in via di sviluppo a pressioni inique. Se è certamente necessaria la mappatura delle pratiche dannose anche in questi paesi, sarebbero altrettanto necessari interventi per aumentarne la capacità contributiva interna.
Va infine segnalato l’apparente trattamento di favore adottato nei riguardi di paesi dal peso politico maggiore: è il caso in particolare della Svizzera e degli Stati Uniti. La prima era stata inserita l’anno scorso nella lista grigia e, sotto pressione per l’imminenza della scadenza, ha annunciato che cambierà due delle cinque pratiche dannose che le sono state contestate, ma secondo Oxfam, che fa propria la posizione dell’Alleanza Svizzera delle Organizzazioni per lo Sviluppo, la normativa svizzera sulla tassazione delle multinazionali rimarrà comunque una delle più nocive al mondo. Per quanto riguarda gli USA, il punto più critico risulta la mancata sottoscrizione degli standard dell’OCSE. Pur esistendo un accordo bilaterale con l’UE sul tema, esso non permette agli Stati Membri di ricevere lo stesso numero di informazioni che sono invece assicurati dal sistema OCSE, e non sarebbe dunque sufficiente a raggiungere i livelli di trasparenza richiesti. Ciononostante, entrambi i paesi sono sfuggiti alla lista nera anche nell’ultima revisione.
Last but not least, vi è infine da considerare un’ultima ma rilevante critica che Oxfam muove all’Unione Europea: mentre, infatti, essa applica la procedura di blacklisting ai paesi extracomunitari, sembra incapace di affrontare efficacemente ciò che avviene entro i suoi confini. Si calcola ad esempio che dei 600 miliardi di dollari di profitti che le multinazionali hanno trasferito nei paradisi fiscali nel 2015, circa il 30% sia finito in paesi appartenenti all’UE stessa; addirittura l’80% dei profitti sottratti ai Paesi Membri sarebbero stati trasferiti ai loro colleghi europei più spregiudicati. Oxfam stima che, sempre nel 2015, Francia, Spagna, Italia e Germania abbiano perso più di 35 miliardi di euro di imposte a causa del trasferimento dei profitti all’estero[14].
Già nel 2017 Oxfam aveva condotto l’utile esercizio di applicare agli Stati Membri i criteri stabiliti dalla UE per individuare i paradisi fiscali extraeuropei, constatando come quattro avrebbero meritato l’inserimento nella lista; la stessa operazione, ripetuta nell’ultimo rapporto, ha portato l’ONG a sostenere che Cipro, Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Malta sarebbero giudicati inadeguati rispetto al criterio della fair taxation. Questa incoerenza rischia di rendere l’intero processo poco credibile ed è stata oggetto di contestazione anche da organi ufficiali dell’UE stessa, ma manca in alcun Stati Membri la volontà politica di dare ascolto a tali richieste.
A ciò si aggiunge il fatto che proprio all’interno di alcuni paesi dell’Unione Europea sono in corso di elaborazione nuovi schemi di tassazione che rischiano di diventare la base per i paradisi fiscali di “nuova generazione”. Se nel 1997 l’aliquota media sui redditi d’impresa si aggirava intorno al 35,2%, oggi è caduta al 21,9%[15] e la concorrenza tra paesi sul piano fiscale si è allargata ad altri ambiti, primo tra tutti quello della tassazione di beni immateriali come brevetti, marchi e software. In proposito bisognerebbe distinguere gli incentivi che vanno davvero a beneficio di ricercatori e piccole imprese dalle super-deduzioni e crediti d’imposta o, peggio, vere e proprie “patent boxes” (esenzioni totali dalle imposte sui brevetti), che innescano una nuova corsa al ribasso. Non a caso, le multinazionali che hanno beneficiato dei maggiori abbassamenti delle imposte sono proprio quelle la cui attività si basa sui diritti di proprietà intellettuale (si pensi all’industria tecnologica e a quella farmaceutica)[16]; esemplare in tal senso è il caso dell’Irlanda.
Se si vuole condurre una battaglia seria contro l’ingiusta sottrazione di risorse pubbliche, non ci si può limitare a raffinare il meccanismo di blacklisting dei paesi extraeuropei, ma occorre ripartire prima di tutto dalla definizione di regole comuni all’interno degli stessi confini UE.
[1]J. Langerock, Off The Hook: How the EU is about to whitewash the world’s worse tax havens, Oxfam International, March 2019, disponibile al link: https://www.oxfam.org/en/research/hook-how-eu-about-whitewash-worlds-worst-tax-havens., pp. 6-7.
[2]La lettera è disponibile, tra gli altri, a questo seguente link.
[3]Ai seguenti link si possono trovare, ad esempio: il rapporto Tax battles, the dangerous global race towards the bottom, pubblicato nel 2016: https://www.oxfam.org/en/even-it/singapore-switzerland-worlds-worst-tax-havens; una mappa interattiva dei peggiori paradisi fiscali (secondo i parametri di Oxfam): https://www.oxfam.org/en/research/tax-battles-dangerous-global-race-bottom-corporate-tax; una petizione contro i paradisi fiscali: https://www.oxfam.org/en/even-it/paradise-papers-hidden-costs-tax-dodging.
[4]J. Langerock, Off The Hook, op. cit.
[5]Si veda il punto 5 della Comunicazione a questo link.
[6]Informazioni tratte da un briefing document disponibile sul sito del Parlamento Europeo a questo seguente link.
[7]I criteri sono pubblicati a questo link.
[8]La decisione è consultabile a questo link.
[9]L’evoluzione della lista può essere agevolmente monitorata grazie all’apposita sezione dedicata sul sito web della Commissione Europea: https://ec.europa.eu/taxation_customs/tax-common-eu-list_en#heading_0.
[10]La recente decisione del Consiglio che ha aggiornato la lista è disponibile a questo link.
[11]J. Langerock, Off The Hook, op. cit. p. 12.
[12]Si veda la dettagliata relazione del gruppo responsabile dell’applicazione del Codice di Condotta, disponibile a questo link.
[13]Le lettere mandate ai Paesi non conformi agli standard europei, alcune lettere d’impegno di questi ultimi e le valutazioni del Consiglio sugli impegni assunti (oltre ad altri documenti utili) sono tutti disponibili a questo link.
[14]Tali dati sono in parte riportati e in parte calcolati da Oxfam in J. Langerock, Off The Hook, op. cit., p. 6, sulla base del seguente studio: a T. R. Tørsløv, L.S. Wier and G. Zucman, The Missing Profits of Nations. NBER Working Paper No. 24701, 2018, disponibile al link https://gabriel-zucman.eu/files/TWZ2018.pdf.
[15]DG Taxation and Customs Union, Taxation trends in the European Union, 2018, p. 34.
[16]R. Toplensky, Multinationals pay lower taxes then a decade ago, “Financial Times”, 2018, March 12 in https://www.ft.com/content/2b356956-17fc-11e8-9376-4a6390addb44.