Recensione a: Michele Gerace, Sui generis. La forma del desiderio e il bel problema dell’essere umani e tecnologici, Prefazione di Roberto Sgalla, Rubbettino, Soveria Mannelli 2023, pp. 80, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Alfredo Marini
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L’essere umano o la macchina? Questo è il dilemma che divide il dibattito pubblico: da un lato coloro che intendono il progresso tecnologico come fosse una religione e dall’altro quelli che ne sono spaventati a morte. In questo contesto rimaniamo affascinati dal legame contraddittorio che lega il creatore alla propria creatura e curiosi di comprendere nel profondo la natura sui generis di noi esseri umani. Intorno a questo, e altri interrogativi, Michele Gerace fonda l’analisi contenuta nel suo ultimo libro Sui generis. La forma del desiderio e il bel problema dell’essere umani e tecnologici, realizzato grazie al contributo del Centro Studi Americani e con prefazione del direttore Roberto Sgalla.
L’opera si apre con la descrizione della natura umana; una natura che l’autore definisce sui generis in ragione dei due fattori inscindibili che la compongono, quello umano e quello tecnologico. Tra i tratti peculiari del nostro essere umani – afferma Gerace – ci sarebbe la capacità di immaginare, di meravigliarci attraverso l’osservazione della realtà, di desiderare qualcosa e, quindi, di agire per realizzarla. A parere dell’autore, infatti, la meraviglia è il tratto particolare che ci distingue dalla macchina, la quale non riesce – attualmente – a comprendere e percepire un sentimento così irrazionale.
L’opera, nel giungere a quella che l’autore stesso definisce una “conclusione sconclusionata”, è organizzata intorno ad una riflessione sui concetti di natura, meraviglia, conflitto e potere. Gerace, perciò, muove innanzitutto da un confronto con il lettore sulla natura dell’essere umano. Egli pensa che il rapporto uomo-macchina possa essere analizzato attraverso una terza lente, diversa sia dall’approccio scientista che da quello apocalittico; un punto di vista ancora tutto da analizzare, basato sull’unicità dell’essere umano inteso come una creatura per natura tecnologica e che, confrontandosi con la macchina, scopre quelle peculiarità impossibili da replicare anche dal più sofisticato calcolatore. L’autore, nel ribadire quanto la tecnologia sia elemento costitutivo dell’essere umano, si sofferma sulla differenza tra tecnica e tecnologia. I Greci, infatti, si riferivano alla tecnica con la parola τέχνη intesa, secondo la definizione data dall’Enciclopedia Treccani, come «capacità pratica di operare per raggiungere un dato fine, in quanto basata sulla conoscenza ed esperienza del modo in cui è possibile raggiungerlo». Dunque, l’essere tecnici significa conoscere il come del funzionamento delle cose, mentre la tecnologia si caratterizza per la propria dimensione logica capace di combinare «l’indagine sul come e quella sul perché» (p. 21) delle cose.
Gerace, pertanto, rifugge dalla distinzione aristotelica tra naturale e artificiale, a partire dalla convinzione che la natura umana includa di per sé l’artificiale quale propria caratteristica determinante. Sulla scorta di tale premessa, l’autore critica il pensiero cartesiano quando opera una scissione tra intelligenza e corpo nell’essere umano. Un approccio che intende l’intelligenza come ragionamento immateriale che «mal sopporta le imperfezioni del materico», quando invece, in realtà, il corpo «presenta una intelligibilità profonda» (p. 21). Il messaggio diretto al lettore consisterebbe nel fatto che siamo anima e corpo, viviamo e facciamo esperienza attraverso il corpo, per suo tramite produciamo una memoria di quanto ci accade associando a tutto un’emozione; questo complesso meccanismo unico e inscindibile di materiale e immateriale costituisce la base del nostro ragionamento e del nostro essere intelligenti. L’autore, a questo punto, fa notare che la natura sui generis dell’essere umano composta da un connubio inscindibile tra res extensa e res cogitans, sfugge al mero calcolo, conservando un’intrinseca indecifrabilità grazie alla quale si differenzia dall’intelligenza artificiale.
La meraviglia è l’altro vocabolo per mezzo del quale Gerace conduce il proprio ragionamento. Egli intende la meraviglia come la capacità – tutta umana – di dare un nome alle cose, allo scopo di riconoscerle, conoscerle e possederle. «La meraviglia è quella tonalità emotiva con cui salutiamo la novità e l’inatteso» (p. 33): essa genera nell’essere umano il desiderio della ricerca di una spiegazione razionale ai fenomeni che osserva e di cui fa esperienza. Gerace nota come nell’attività di ragionamento svolta per dare un nome ad un fenomeno o ad una cosa, l’essere umano sviluppa delle attività che una macchina non è (ancora) in grado di replicare. Quest’ultima, infatti, è in grado di categorizzare cose e fenomeni esclusivamente sulla scorta delle informazioni che ha acquisito per svolgere tale attività, ma non è capace di comprendere il perché dell’azione di catalogazione che svolge, al contrario dell’essere umano.
Gerace vede nelle emozioni il nostro principio di movimento, a partire dal quale entriamo in relazione con gli altri e comunichiamo per mezzo del linguaggio. Egli, però, ricorda che l’interazione tra individui comporta la presenza del conflitto, tramite il quale gli esseri umani si confrontano per trovare leggi di convivenza in grado di permettere la convergenza delle singole prospettive attraverso l’allineamento dei desideri dei singoli all’interno della più grande prospettiva del “noi”. Il conflitto si sviluppa con il linguaggio, una forma di potere per mezzo del quale si esprimono leggi di convivenza tra individui e comunità, si include e si esclude, si razionalizzano le idee per poi metterle in pratica.
Natura, meraviglia, potere, conflitto e linguaggio; queste parole rappresentano le direttrici da cui muove l’analisi che Gerace offre al lettore per interrogarsi sulla natura umana e sulle differenze che ci distinguono dalle macchine. Con quest’opera, alla luce degli attuali sviluppi nel settore dell’intelligenza artificiale, l’autore vuole proporre una tesi che – senza l’ambizione di essere definitiva – vede nella natura sui generis dell’uomo un primato costruito su caratteristiche peculiari e impossibili da riprodurre. Per mezzo di un richiamo a Platone, l’autore muove dall’idea secondo cui l’uomo – debole in quanto privo delle caratteristiche di forza e resistenza proprie di molti animali – ha avuto il dono dell’intelligenza come strumento di sopravvivenza, da cui ha naturalmente sviluppato la tecnica e la tecnologia. In sintesi, la complessità del nostro cervello altro non è che la caratteristica naturale con cui riusciamo ad adattarci per sopravvivere; dunque, costruire una macchina, accendere un fuoco, sviluppare sistemi di intelligenza artificiale sono attività che rientrano in quell’insieme di azioni naturalmente umane.
In tal senso, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale rappresenta una grande opportunità di confronto per due ragioni: in primo luogo perché permette di accrescere le nostre capacità e in secondo luogo perché offre l’occasione di sondare la nostra natura per comprendere meglio noi stessi e ciò che ci rende unici, vale a dire autenticamente umani. Nel relazionarci con la macchina, afferma l’autore, dovremo essere in grado di porre le giuste domande, poiché solo in questo modo comprenderemo sia la sua utilità che le differenze che ci rendono altro da essa. Tra queste differenze, ad esempio, c’è il paradigma dell’utilità; la macchina si pone esclusivamente problemi utili basando la propria attività di calcolo su schemi predeterminati e predeterminabili (in base all’algoritmo che ne permette il funzionamento), avvalendosi di un determinato numero di informazioni preselezionate che elabora e rielabora seguendo lo schema dettato dall’algoritmo di base. A ben vedere anche l’evoluzione dell’intelligenza artificiale non è qualcosa di indeterminabile, basti pensare alla “intelligenza artificiale ad alto rischio” descritta nell’AI Act, dove viene richiesta l’accurata descrizione anche degli step evolutivi dei singoli algoritmi. Sulla base di queste riflessioni, Gerace riafferma l’unicità dell’essere umano quale creatura capace di elaborare soluzioni infinite ed indeterminabili anche attingendo da un bacino di informazioni determinate. Altro elemento di differenza rispetto alla macchina consisterebbe proprio nell’evoluzione, un processo che nell’essere umano risulta non determinabile e che – al contrario della macchina – non segue una tendenza all’efficienza.
Il libro si conclude con una domanda: l’uomo è diventato obsoleto oppure è ancora l’essere più tecnologico che esista? Il dibattito resta aperto. L’autore offre una serie di riflessioni sulle peculiarità che costituiscono la natura sui generis dell’essere umano, in altre parole quel nucleo primordiale attualmente non replicabile neanche dalla più sofisticata delle macchine. L’opera di Gerace aggiunge un’interessante argomentazione: c’è uno spazio tra l’approccio scientista che divinizza la macchina e gli interpreti del nuovo luddismo. Tale spazio consiste in una terza opzione che considera il confronto con la macchina una grande opportunità per conoscere la natura profonda dell’essere umano e per aumentarne le capacità, a patto di saper utilizzare la macchina in maniera corretta. Per fare ciò, ricorda Michele Gerace, è fondamentale confrontarsi e porre le giuste domande, un esercizio da svolgere sia in qualità di singoli che di comunità, tenendo a mente che la conclusione potrebbe essere – recuperando le parole dell’autore – comunque sconclusionata.