Scritto da Carlo Galli
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Kenya, Giamaica, Germania, semaforo: il gioco combinatorio coloristico fra le diverse possibili aggregazioni partitiche nel dopo-elezioni in Germania dimostra la sostanziale compatibilità reciproca delle forze politiche tedesche, a eccezione dell’estrema destra e dell’estrema sinistra: queste non vanno messe sullo stesso piano, ma sono entrambe per ora fuori gioco, ai fini della partecipazione al governo.
Quella compatibilità, al fine di costruire la coalizione di governo, non è un appiattimento nell’indifferenza o nell’irrilevanza: non implica la fine né della storia né delle ideologie, né della politica; è semplicemente il segno di una stabilità politica che è a sua volta figlia della stabilità istituzionale e sociale. È stato sufficiente che la Cdu/Csu alzasse un po’ i toni contro gli stranieri e contro l’Europa del Sud e dell’Est per raccogliere una buona parte dei voti che erano tentati di riversarsi su Afd (mentre i liberali raccolgono i voti, anche questi potenzialmente estremisti, dei super-rigoristi economici); ed è bastato che l’Spd fosse in odore di vittoria perché metà dei voti della Linke confluissero su di lei.
Naturalmente, per isolare e sterilizzare le estreme (forti soprattutto nell’Est) è stato necessario anche che la società non presentasse fratture davvero radicali, che le molte crisi che loro stessi (e tutto l’Occidente) devono affrontare non apparissero ai tedeschi terrificanti minacce esistenziali; anche se nessun partito arriva al 30%, anche se il quadro politico è più frammentato del consueto, non c’è quindi nulla di Weimar, della sua instabilità, della sua depressione, delle sue “maggioranze negative”, della sua delegittimazione complessiva.
La possibilità di scelta fra almeno quattro coalizioni di governo, tutte praticabili, significa che tra le forze politiche esistono sì differenze, ma che queste sono negoziabili, quantitative: si tratta di accordarsi sui conti pubblici, all’insegna di un rigore ordoliberista da tutti condiviso ma modulabile; si tratta poi di comprendere se si andrà a una imposta patrimoniale più o meno onerosa; si tratta inoltre di regolare la velocità della svolta verde dell’economia, di entrare con maggiore o minore decisione in una politica di ammodernamento infrastrutturale del Paese, e di misurare l’intensità del rapporto tedesco con gli Usa, la Cina e con la Russia, e con la Ue.
Per quanto riguarda la politica interna, sono in gioco questioni importanti, e si prospettano direzioni di sviluppo parzialmente differenti ma nessuna alternativa sistemica; nulla che i partiti non possano risolvere con una lunga trattativa, accurata e puntigliosa. Da cui probabilmente uscirà un cancelliere socialdemocratico, mentre il ministro delle Finanze è più incerto.
Se il quadro interno prevede tanto incertezze quanto sviluppo e dinamismo, ma anche una sostanziale stabilità, ciò non significa tuttavia che la Germania “si annoia”; non è solo l’alta percentuale dei votanti (cresciuta al 76,2%) a dimostrare che il Paese ha preso sul serio la chiamata alle urne. Se non sono alle viste rivoluzioni, ci sono però motivi di disagio e reali turbamenti per quanto riguarda la proiezione internazionale del Paese. Ed è a questo proposito che la stabilità può trasformarsi in impaccio, in imbarazzo, in difficoltà nell’impegno e nell’azione.
Il punto è che quella proiezione implica questioni irrisolte (e forse irrisolvibili) d’identità; problemi che se non destabilizzano radicalmente il Paese certamente si fanno più acuti oggi. Il dopo-Merkel è infatti la metafora di una situazione che è in realtà definibile “dopo-globalizzazione”, una situazione che enfatizza problemi molto risalenti e molto occultati. Problemi che difficilmente la Germania risolverà con una “grande decisione” per la “grande politica”. Anzi è proprio la politica il problema: come ha scritto Ulrike Franke in un saggio sintomatico (A millennial considers the new German problem after 30 years of peace), la Germania è particolarmente vulnerabile davanti alla questione di prendere posizione nel mondo di oggi: infatti la Germania viene da una lunga fase di stabilità e di continuità, trova normale essere al riparo dello scudo degli Stati Uniti e della Nato, e anche i sedici anni di cancellierato di Angela Merkel hanno dato l’illusione (e più che un’illusione, in realtà) di una continuità internazionale e domestica senza fine. Insomma, i tedeschi hanno abbracciato l’idea della fine della storia in modo ancora più fervente di ogni altro Paese perché, dopo un secolo segnato dal fatto che per due volte si è collocata dalla parte sbagliata, da settant’anni la Germania si è ritrovata dalla parte giusta (da qui anche un sentimento di superiorità morale sul resto del mondo, per avere rinunciato alla politica di potenza).
L’elemento sintomatico è che la giovane autrice da una parte pensa che la Germania non possa più crogiolarsi nella propria sicurezza post-politica e sia chiamata a fare i conti col fatto che la propria normalità non è garantita, e debba riprendere a pensare in senso strategico e geopolitico la propria collocazione nel mondo; mentre dall’altra condivide la narrazione ideologica della Germania su se stessa, centrata sulla propria buona volontà europeista, sulla propria generosità, sul proprio spirito di sacrificio che l’ha indotta a sacrificare il marco per il bene comune della Ue. All’autrice non sfugge che agli occhi di altri Paesi europei la Germania appare una superpotenza arrogante che ha imposto politiche di austerità (un esempio: la Grecia) e che sta facendo (com’è ovvio, da sola) le proprie scelte geopolitiche e geo-economiche (un esempio, il gasdotto Nord Stream 2); semplicemente, pensa che si tratti di visioni distorte.
Che quella della Germania sia una politica di potenza basta sull’economia, che l’euro sia identico al marco per composizione e per filosofia politico-economica sottostante – che la Germania fa applicare con intransigenza a tutta l’Europa (tranne in parte che alla Francia) – e che la moneta unica garantisca alla Germania una posizione di privilegio in Europa (se non altro perché il paradigma ordoliberista, riassunto nella moneta unica, è quello a cui da sempre sono conformate l’economia e la società tedesca), che la Corte costituzionale tedesca abbia sempre interpretato il livello sovranazionale della Ue in termini di sussidiarietà (cioè lo veda finalizzato solo a consentire la implementazione del dettato del Grundgesetz); tutto ciò alla giovane autrice non sembra una vera Realpolitik in difesa degli interessi nazionali. Al compito di tutelarli e promuoverli, anzi, la Germania le appare sprovveduta, inadeguata.
In verità, lo status quo della Germania di fronte alla Ue non è per nulla rischioso: la cancelliera Merkel non è stata sedotta dal marcato europeismo di Macron (in fondo rivolto appunto a stemperare il predominio di fatto della Germania nella Ue) e anzi ha favorito proprio il livello di incompleta integrazione europea che oggi conosciamo; un’integrazione che lascia in primo piano la sovranità degli Stati, ossia la loro singola responsabilità per i rispettivi sistemi economici e finanziari, all’interno di un paradigma economico comune: nessuna condivisione (neppure parziale) del debito, nessun eurobond (e vedremo se e quando si farà, e in che misura, la revisione del parametri di Maastricht). L’attuale livello di integrazione garantisce alla Germania l’esercizio di una rilevante potestas indirecta dentro la Ue a cui non si vede perché dovrebbe rinunciare. Un potere indiretto che i tedeschi minimizzano, e che altri massimizzano; forse vi sono esagerazioni da entrambe le parti, ma certo quel potere esiste ed è grande; grande come la Germania. La quale per la prima volta nella propria storia è sicura di sé senza essere tracotante né circondata da nemici (lo rileva George Friedman in Germany, Merkel and the danger of self-confidence): ovvero, è la più rilevante potenza economica europea (la quarta economia del pianeta), il che produce tensioni e squilibri ma non disastri, mentre politicamente resta ancora su scala europea. Che sia meno di una superpotenza e più di uno Stato è un problema, ma non una catastrofe perché appunto “superpotenza” la Germania non vuole e non può diventare.
Infatti, che nel momento in cui le relazioni internazionali si fanno più dinamiche – il tramonto della globalizzazione, il riemergere delle tensioni geo-economiche e geopolitiche a livello di grandi potenze (tensioni peraltro mai dismesse neppure in passato) – la Ue richieda un’integrazione politica più marcata, una politica estera e di sicurezza comune, un’unità strategica, come oggi pare chiaro, e che ciò non possa realizzarsi senza un decisivo contributo della Germania, è certamente vero. Ma è anche vero, e i tedeschi lo sanno benissimo, che non sempre ciò che è necessario (nel senso di indispensabile, o anche solo di auspicabile) è realizzabile: uno sviluppo verso una Germania apertamente leader politico-strategico di un’Europa germanizzata non è possibile – la Francia, che pure sta perdendo pezzi importanti del suo ex-impero africano, intende restare l’unica potenza nucleare europea; i paesi dell’Est che oggi sono anti-russi e quindi refrattari alla Ostpolitik tedesca diventerebbero anti-tedeschi più di quelli dell’Ovest; e in ogni caso tale primato non è desiderato dalla stessa Germania, che rifiuta responsabilità politiche dirette su scala continentale, e non le è consentito da altri Paesi, per motivazioni storico-politiche di fatto insuperabili per chissà quanto tempo ancora –.
Come non è probabile che la Germania faccia passi decisivi verso una Ue “sovrana”, un’ipotesi che darebbe troppo potere alla Francia e che in ogni caso richiederebbe un allentamento della morsa ordoliberale sulla moneta unica, ovvero un suo governo politico centralizzato e sovranazionale (nella Bce riformata) – anatema per tutte le forze politiche tedesche –. A questa seconda ipotesi probabilmente la Germania risponderebbe con un’accentuazione della propria sovranità, fino all’uscita dall’euro – un nuovo ohne mich che porrebbe fine alla ormai storica Westbindung con cui la Germania ha rinunciato al Sonderweg, e che aumenterebbe l’insicurezza e l’instabilità di tutta la Ue, oltre che della stessa Germania –. E soprattutto, anche se le nuove condizioni della politica mondiale richiedono una Ue politicamente unita, che cosa penserebbero, e come reagirebbero, Usa e Russia davanti alla prospettiva di un nuovo partner sovrano di rango continentale?
Nella impasse che la riguarda, e che riguarda tutta la Ue, alla Germania non resta altra chance che proseguire nella continuità rispetto all’esistente, o muovere piccoli passi in avanti – certo, senza eccessive accelerazioni, in un’attitudine katechontica (delle proprie ansie, prima di tutto) che è anche di auto-salvaguardia –. Di fatto la Germania sta facendo e ha fatto tutta la politica estera che poteva: se ne sono accorti non lietamente i suoi partner economici, a partire dagli Usa. Politicamente e strategicamente, poi, benché possa diventare un po’ più europeista di quanto sia stata fino a ora, non può sottrarsi alla Nato, anche se teme un disimpegno (che però non sarà mai totale) degli Usa verso l’Europa. Non è detto quindi che le si chieda una riscoperta della propria identità storico-politica in chiave di piena sovranità, una “grande decisione”; e non è neppure verosimile che essa stessa si convinca che sia un suo dovere tentarla. Non per l’antico complesso “indecisionistico” di Amleto, che l’accompagna da due secoli, ma per lucido calcolo, le conviene continuare, con maggiore accortezza ed equilibrio, l’unica Realpolitik che può perseguire: quella economica, magari con maggiore attenzione al fronte interno, e in un quadro democratico che per ora pare garantito. Senza arroganza e senza timori eccessivi, e senza essere nuovamente un fattore di crisi in Europa e nel mondo, la Germania del dopo-Merkel e del dopo-globalizzazione sa che il suo stesso peso economico (sul quale giustamente pone principalmente la propria attenzione) le consente di non essere particolarmente minacciata: lo scudo europeo e quello ben più efficace degli Usa non mancheranno in caso di emergenza militare, né le verrà meno la capacità di misurarsi proficuamente con la Russia e di trattenere rapporti con la Cina; e questa consapevolezza, le sarà sufficiente a non farsi venire – di nuovo – la tentazione, figlia della paura quanto dell’ambizione, di mettere le mani negli ingranaggi della storia.