Scritto da Isabel Pepe
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La via della seta o le vie della seta? Se si osserva una mappa dei corridoi che la Cina sta costruendo, l’uso singolare risulta certamente riduttivo. Se la meravigliosa Samarcanda era un tempo importante snodo per le carovane che transitavano lungo l’asse Europa-Asia e viceversa, oggi non possiamo identificare una sola rotta con poche città a far da stazioni di interscambio, ma dobbiamo considerare un insieme di vie e strade e percorsi tutti reciprocamente intrecciati.
La strategia cinese, nota come Belt and Road Initiative (BRI), è un mastodontico groviglio di corridoi economici, finanziari, commerciali, e non da ultimo militari.
Per analizzare e comprendere a fondo la visione cinese, è necessario fare un passo indietro nel tempo. Se l’attuale BRI voluta dal premier cinese Xi Jinping è stata presentata al grande pubblico soltanto nel 2013, inizialmente con il nome di One Belt One Road, la “go out strategy” (in cinese 走出去战略, Zǒu chūqù zhànlüè, andare fuori) era iniziata già con la creazione di infrastrutture lungo tutto il Sud-Est Asiatico. Questa rete di cantieri era chiamata “Strategia del Filo di Perle”. Il nome, ufficialmente mai usato dalla Cina, è stato coniato da un gruppo di studiosi americani i quali, monitorando i flussi degli OFI (outword foreign investements, investimenti diretti esteri) verso i paesi dell’Asia, avevano notato una certa “attenzione geografica” con cui questi investimenti erano posizionati.
La strategia cinese era chiara agli americani: creare una nuova via della seta (la “Road” del nome iniziale) alternativa alle affollate rotte esistenti, con diversi obiettivi tra cui assicurarsi l’autonomia energetica, sfuggire al cosiddetto “dilemma di Malacca”, e creare una rete di collegamenti, con basi (militari) nei porti, per limitare il tentativo di pivot to Asia che USA, Giappone, e in minima parte anche l’India, stavano cercando di realizzare, nei confronti di Pechino, nell’oceano Indiano.
La nuova via della seta
Il passato ha sempre rappresentato un modello di riferimento per la cultura cinese, ma per la Cina del XX secolo, le leggendarie rotte marittime dell’ammiraglio Zheng He rappresentavano soltanto un punto di partenza. Ora Pechino voleva ritornare in Europa e, considerando quelle che erano le teorie di Ratzel sul controllo dei mari e delle principali arterie marittime, voleva farlo creando un’alternativa alle cosiddette Sea Lines of Communication (SLOCs) ed evitando i problematici choke points già esistenti. Lo stretto di Malacca, lo Stretto di Hormuz e il Canale di Suez, erano, e lo sono ancora oggi, dei passaggi obbligati per le navi container. A causa della instabilità dell’area, da un punto di vista geopolitico, la possibilità di blocchi o limitazioni al transito da parte dei Paesi che ne detengono la sovranità, rappresenta una minaccia per il flusso energetico cinese. La crescita incontrollata dell’economia cinese avvenuta negli ultimi anni, ha incrementato esponenzialmente la domanda di energia, facendo diventare la Cina un importatore netto di materie prime, soprattutto di petrolio. Le risorse presenti on shore, quindi, non avrebbero assicurato un flusso costante e, della sufficiente portata, per sostenere tali richieste. L’obiettivo era assicurare l’arrivo del petrolio in Cina.
Così la Cina, a partire dal 2001, ha iniziato a finanziare il rinnovamento del porto di Gwadar, in Pakistan, e nel 2002 ha lanciato il progetto per la costruzione di un deep sea port per l’attracco di navi container di maggiori dimensioni. Questo terminal ha una valenza strategica notevole in quanto è il primo porto di approdo per le navi provenienti dallo stretto di Hormuz e permette di collegare le regioni occidentali della Cina direttamente al mare, trasformando lo Xinjiang, che in cinese mandarino vuol dire “nuova frontiera”, in una porta di accesso diretto alle risorse in arrivo dal mare.
Con il piano di sviluppo dell’intera area del porto di Gwadar, dichiarata dal Governo pakistano una “Special Economic Zone”, la Cina si è assicurata un avamposto militare, utilizzabile dalla Marina per controllare l’intero quadrante geopolitico, occupato anche dalle navi militari statunitensi. Altro hub importante è il porto di Hambantota, nello Sri Lanka. Pur essendo posizionato lungo una commercial sea route di primaria importanza, il porto rappresenta per la Cina una stazione di controllo militare, soprattutto in contrapposizione al porto di Colombo, controllato dall’India, diretto rivale per la supremazia nell’area.
Politicamente più complessa la posizione cinese in Birmania: l’appoggio al governo è valso alla Cina il diritto di accesso alle Small and Great Coco Island e di installare una stazione radar per il controllo del traffico del Golfo del Bengala. Inoltre è stato siglato tra ai rispettivi governi, un accordo per la costruzione di un’imponente pipeline per unire il porto di Kyaukpyu alla città di Kunming, nella provincia della Yunnan, sede delle maggiori raffinerie cinesi. Grazie a questa infrastruttura la Cina potrà aumentare di 22 milioni di tonnellate l’importazione di petrolio. Gli investimenti stanziati da Pechino per questi progetti son ingenti (si stima un ammontare complessivo di circa 10 miliardi di dollari) e hanno destato non poche preoccupazioni negli ambienti diplomatici occidentali, e talvolta anche nei paesi dell’area, i quali, pur considerando la Cina un paese “amico”, temono un peggioramento dello status quo dell’area. Tra i paesi che percepiscono maggiormente come minaccioso l’atteggiamento della Cina vi è l’India, preoccupata per il già precario equilibrio esistente, e per la propria “quota di sovranità”, soprattutto in seguito alla decisione cinese di firmare, ignorando le volontà indiane di partecipazione all’operazione, l’accordo per la costruzione della pipeline in Birmania.
Oltre che in questi porti orientali, la Cina sta aumentando la propria presenza nel Mediterraneo. Tra le operazioni più rilevanti possiamo citare: la recente acquisizione, a gennaio 2016, da parte di COSCO (China Ocean Shopping Company), del 51% della Port Authority del Pireo in Grecia con un investimento di 280,5 milioni di euro, percentuale che aumenterà al 67% se la compagnia cinese investirà altri 88 milioni; l’acquisizione, per 790 milioni di euro, da parte della joint venture Euro-Asia Oceanogate, di cui fanno parte anche la COSCO Pacific, la China merchants holdings international e la Cic capital corporation, del 64,5% del Kumport terminal di Ambarli; la partecipazione di COSCO per il 20% alla joint che gestisce il Suez canal container terminal; l’acquisizione, a giugno di quest’anno, del 51% Noatum ports holding, proprietaria dei terminal di Bilbao e Valencia.
La Strategia del Filo di Perle
Anche l’Italia è tra le prerogative cinesi. Da sempre l’Adriatico rappresenta il bacino di collegamento naturale per le navi commerciali che transitano nel Mediterraneo. Ed è per questo che le speranze di far diventare l’Italia l’hub di riferimento, sfruttando la posizione geografica e le caratteristiche infrastrutturali dei porti, sono affidate ai porti di Genova, Trieste e Venezia. Con questo spirito l’Autorità portuale veneziana, per esempio, ha annunciato durante l’ultima fiera internazionale “Break Bulk Europe” di Anversa, la riapertura del collegamento diretto con l’Estremo Oriente operato da Ocean Alliance, di cui fa parte anche la stessa COSCO. Anche un altro porto è annoverato nel progetto cinese: è lo scalo di Vado Ligure, di cui la COSCO detiene una partecipazione del 40%.
Un’altra direzione intrapresa dalla Via della Seta è quella verso l’Artico. Nel documento Visione per la cooperazione marittima nella Belt and road initiative, Pechino considera questa rotta come possibile arteria per raggiungere la Mitteleuropa. La grande disponibilità di risorse energetiche presenti nell’area artica hanno rinvigorito gli interessi di molte nazioni e, nonostante alcune navi commerciali della COSCO abbiano già percorso questo tratto, molto c’è ancora da fare. La Russia è tra i maggiori pretendenti al tesoro energetico artico e, pur mantenendo ottimi rapporti con la Cina, in virtù della storica amicizia e dei numerosi accordi per l’importazione di materie prime, in primis il gas, di certo non è disposta a lasciare totale campo libero alla Cina.
Se la via marittima prevede la realizzazione di porti moderni e più grandi utili al trasporto delle fonti energetiche, il progetto per la Via terrestre (la Belt) intende creare dei corridoi commerciali tra Cina ed Europa. L’idea di base è di poter collaborare ai rifacimenti e al potenziamento di tratti già esistenti di ferrovie, autostrade o in generale di infrastrutture di collegamento. Partendo da Est, in Pakistan è prevista la costruzione di un’autostrada di 700 km tra Karachi a Gwadar e una linea ferroviaria per il trasporto delle merci su rotaie; tra India, Bangladesh e Myanmar la Cina vuole costruire un corridoio stradale e riportare alla luce l’antica Stilwell Road, utilizzata durante la Seconda Guerra Mondiale, dai convogli militari statunitensi e inglesi per arrivare in Cina, passando attraverso l’India e la Birmania; in Russia, è stato stipulato un accordo tra la russa Gazprom e il governo per la realizzazione della pipeline Yamal LNG, progetto finanziato principalmente dal Silk Road Fund (SRF), di cui fanno parte la China Development Bank e la Export-Import Bank of China.
Spostandosi ad Ovest, il centro nevralgico degli investimenti cinesi è l’intera area dei Balcani. Nel 2010 Pechino e Belgrado hanno siglato un accordo per la costruzione di un nuovo ponte autostradale sul Danubio, che collega Salisburgo a Salonicco, inaugurato alla fine del 2014. Le ripercussioni di questo ponte sono positive anche per la Serbia, che è in attesa, entro la fine del 2017, del potenziamento della linea, grazie all’aggiunta di un ulteriore tratto stradale tra Belgrado a Budapest, considerato uno snodo fondamentale da cui trasportare le merci verso l’Ucraina e verso i paesi baltici. Inoltre la Cina sta finanziando il collegamento ferroviario tra la città di Veles e Skopje, e sta iniziando a progettare una nuova autostrada che collegherà l’ex Repubblica Jugoslavia di Macedonia con l’Albania. Ad aprile il treno “Vento dell’Est”, partendo dalla Gran Bretagna, dopo un percorso di 12mila chilometri, è arrivato alla stazione di Yiwu, nella Cina Orientale. Era il primo viaggio di un treno merci, che in 20 giorni e attraversando più di sette paesi, è riuscito a collegare via terra l’Europa con la Cina. Tra i terminal ferroviari più importante c’è la stazione di Duisburg, in cui arrivano i treni merci provenienti dalla città di Chongqing, che negli ultimi anni è diventata una delle città più popolose e attive della Cina.
La via della seta come strategia globale
La volontà di abbracciare l’intero globo in un’unica “cintura” è stata resa nota durante il primo Forum per la cooperazione internazionale della Belt and road initiative svoltosi a Pechino il 14 e 15 maggio 2017. La convention, pubblicizzata da un entusiasta Xi Jinping, ha coinvolto 29 leader internazionali e accolto 1.200 rappresentanti da 110 Paesi. I dettagli presentati al Forum, hanno cercato di rendere più concreta la propaganda cinese fatta nei mesi precedenti, e hanno dato prova dell’indiscutibile ampiezza del progetto. 65 Paesi interconnessi, 70% della popolazione mondiale coinvolta dalle iniziative, un budget complessivo, stimato, di 1.000-1.400 miliardi e un volume di merci scambiato pari a 913 miliardi di dollari, hanno definitivamente candidano la BRI a “progetto del secolo”.
Da dove arrivano, però, questi ingenti capitali? La disponibilità monetaria della Cina è la carta vincente per la totale riuscita? Rispondere a queste domande presuppone il libero accesso a documenti aggiornati e chiari, e, purtroppo, la trasparenza non è tra le caratteristiche principali degli operatori finanziari cinesi. Andiamo per gradi: per sostenere una tale quantità di investimenti la Cina ha creato il Silk Road Fund, il cui tesoretto ammonta complessivamente a circa 55 miliardi di dollari. La China Development Bank e la China Exim Bank emetteranno un prestito di circa 36 e 19 miliardi di dollari per sostenere la cooperazione con i paesi coinvolti. A questo bisogna poi aggiungere i contributi della Asian Development Bank e della New Development Bank che hanno messo a disposizione rispettivamente 100 miliardi di dollari. Tra il 2014 e il 2017 circa 50 imprese cinesi hanno investito più di 50 miliardi di dollari, intervenendo in più di 1700 progetti collegati alla BRI e contribuendo, in parte, alla creazione di 56 zone di cooperazione economica e commerciale.
Nonostante queste cifre, però, il progetto rischia di non avere sostenibilità finanziaria. La strategia di Pechino, una volta presentati i progetti, è in linea generale quella di farli finanziare, con una quota maggioritaria, ai governi nazionali. In questo modo il rischio di insolvenza potrebbe essere dietro l’angolo e, considerando l’alto numero di paesi coinvolti, il rischio di generare un effetto domino del mancato ritorno dell’investimento e abbastanza alto. Le critiche mosse a Pechino riguardano proprio questo versante. Spesso i paesi, molti dei quali in situazioni economiche non proprio ottimali, percepiscono la stipula degli accordi di cooperazione come l’inizio di un processo di indebitamento che non riusciranno mai a gestire.
L’estrema fiducia di Pechino nel progetto, descritto come una “sinfonia” tra i paesi partner, ha alcune zona d’ombra da rischiarare. La presentazione degli accordi come una strategia win-win per entrambi i firmatari, non è del tutto condivisa, soprattutto dai paesi dell’Europa, preoccupati dell’enorme flusso di merci, non sempre controllate in origine, e dei differenti standard qualitativi per quanto riguarda le costruzioni infrastrutturali. Sicuramente i benefici di un mondo maggiormente interconnesso sono notevoli sia in termini economici, considerando il potenziale volume di scambio culturale e commerciale, sia in termini geopolitici, se si tiene conto della dell’armonia, usando una parola tanto cara ai cinesi, che dovrebbe regnare sovrana tra “soci”; ma è difficile non considerare la storica reticenza cinese a condividere informazioni strategiche per il Paese, quando bisogna calcolare gli effettivi guadagni di una tale “joint venture”. In vista del secondo Forum della BRI nel 2019, una rivalutazione, al netto dell’ottimismo cinese, dei parametri qualitativi delle opere, degli obiettivi della strategia e degli strumenti disponibili, è sicuramente la strada migliore da percorrere, considerando che forse, un’iniziativa di tale portata potrebbe essere troppo grande anche per un gigante come la Cina.