Sulla strada del populismo
- 29 Marzo 2014

Sulla strada del populismo

Scritto da Davide Vittori

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“Dovremmo essere sempre molto attenti nel proporre giudizi normativi sul populismo, poiché questo [fenomeno] può essere un correttivo per la democrazia” così Cas Mudde e Cristóbal Rovira Kaltwasser concludono un loro recente saggio che compara il populismo di sinistra in America Latina, personificato dalle presidenze Chavez e Morales e quello di estrema destra europeo rappresentato dal Front National francese e il Partito della Libertà austriaco (FPÖ)1. L’elettorato delle due coppie è agli antipodi e se in alcuni casi ha portato con sé palesi degenerazioni della rappresentanza democratica, non si può negare che i settori marginalizzati della post-modernità trovano in questi partiti una rappresentanza che i partiti tradizionali non han saputo fornire. E questo, è giusto ribadirlo, al netto della collocazione politica agli antipodi. Se quindi non si forniranno giudizi morali, la strada da intraprendere è quella di trovare una definizione soddisfacente di populismo.

La parola populismo ha assunto agli occhi dell’opinione pubblica una connotazione fortemente negativa: il “populista” è colui che riduce la realtà a schemi interpretativi troppo semplici, che fonda la sua azione politica sulla distinzione manichea tra un “noi” (il popolo) e un élite – sia essa politica, finanziaria o culturale – lontana dai problemi della gente, che inganna gli elettori e i cittadini con promosse utopistiche e irrealizzabili e che, soprattutto, è corrotta. Di più, il “populista” viene considerato, per lo meno in Europa, come una minaccia stessa alle istituzioni democratiche.

Come spesso accade quando una parola assume preminenza nel dibattito politico, il suo significato si estende a tal punto che diviene difficile, se non impossibile, giungere ad una definizione univoca. Il punto di partenza, in questo senso, dovrebbe essere quello di fare un passo indietro e spogliare questo fenomeno da connotazioni negative in modo da ricercare alcuni tratti comuni tra quei partiti e movimenti che vengono considerati la quintessenza del populismo, dal Front National in Francia, alla Lega Nord (e il Movimento 5 Stelle) in Italia, ai Partiti dei Pirati in Germania e Svezia passando per alcuni partiti di estrema destra in Nord Europea che hanno assunto connotati “populisti”.

La definizione proposta da Mudde è interessante in questo senso: egli definisce il populismo “un’ideologia con un centro debole, la quale considera la società essenzialmente divisa in due gruppi omogenei, le persone oneste [pure] contro le elite corrotte e che ritiene che la politica debba essere un’espressione della volonté générale (volontà generale) delle persone”2. Mi sento di condividere questa impostazione che sottolinea un aspetto centrale del populismo, ossia che non può essere ridotto ad una mera tattica durante la campagna elettorale; piuttosto esso assomiglia ad una ideologia, che definirei, però, complementare rispetto ad altre impostazioni ideologiche, piuttosto che debole. Un’ideologia complementare perché può “completare” il profilo di un partito con altri tipi di ideologie. Così potremo avere partiti di sinistra, centro-sinistra, centro-destra e destra che al loro interno vengono innervati, ma non completamente permeati, da un’ideologia populista.

Si tratta in ogni caso di una definizione minima, che tende ad escludere altri fattori di analisi rilevanti, come ad esempio il successo che i “partiti populisti” sembrano conquistare in periodi di maggiore crisi politica o economica, ma che ha il pregio di potersi estendere ad una vasta gamma di partiti e movimenti.

A la droite!

Da ciò consegue che non dobbiamo aspettarci che solo partiti alle ali estreme dell’asse sinistra/destra debbano sussumere un’ideologia populista; anche partiti di centro-destra (Forza Italia, ad esempio) o di centro-sinistra possono inglobare una visione populista. In questo momento, data la rilevanza politica di questi partiti, è più opportuno focalizzarsi su quelli di estrema destra, per poi deviare sulla novità rappresentata dal Movimento 5 Stelle.

Nell’analizzare i partiti populisti in un periodo così delicato della storia europea, dobbiamo tenere presente un ulteriore fattore, spesso dimenticato dai media. I partiti populisti, soprattutto quelli di estrema destra, rappresentano metaforicamente l’offerta elettorale, ma il loro successo non può essere spiegato solo perché parlano alla pancia degli elettori non dovendo scontare la complessità del governare. Questa è un causa certamente: tuttavia, non si può trascurare il fatto che la divisione manichea tra “noi” (la gente) e “loro” (i politici, i finanzieri, ma anche gli immigrati, persone di fede diversa ecc.) incontra una “domanda” di populismo presente in tutta Europa. È lo stesso Cas Mudde3 che ne dà conto in un saggio che consiglio a chi fosse interessato a questa tematica: la conclusione che lo studioso raggiunge è che il populismo di estrema destra non deve essere considerato come una normale patologia della democrazia rappresentativa, quanto piuttosto una patologica normalità in Europa.

Nonostante possa sembrare un inutile gioco di parole, questo spostamento di significato coglie il nucleo centrale della crescita del populismo di destra in Europa. Non è semplicemente una malattia che ha colto l’Europa, una malattia debellabile e da debellare (di qui l’accento posto sul nome “patologia”) come altre che hanno attraversato il cammino della democrazia liberale. Il populismo di destra negli ultimi venticinque anni è divenuto un fenomeno comune a moltissimi stati europei (di qui l’accento posto sul nome “normalità”), il quale dà conto di una crescita esponenziale della “domanda” elettorale. Una crescita quindi patologica per la democrazia liberale, poiché questi partiti, pur partecipando alle competizioni elettorali al pari di altri, tendono a svilirne alcuni assi portanti, quali il concetto di rappresentanza da attuare senza filtri, possibilmente attraverso i referendum, i checks and balances della democrazia liberale ed il ruolo stesso dei politici, come rappresentati di un interesse di parte, quando a detta di tali partiti è la volontà generale, del popolo unitariamente inteso, che deve promanare dagli eletti. Ed è qui che si innesta l’aspetto più preoccupante del populismo per una democrazia rappresentativa; il populismo rigetta il pluralismo. Tale rigetto non significa sopprimere le differenze o negare la libertà di stampa o di pensiero. Più sottilmente, vuole creare un’immagine astratta di identità collettiva, dove le differenze possano essere ricomposte e gli interessi conciliati in un’unica ed unanime volontà, quella delle persone oneste contro le elite corrotte o gli emarginati che minacciano l’integrità del popolo. I partiti populisti, in questo caso di estrema destra come di altre collocazioni politiche, nel loro discorso ufficiale non rappresentano semplicemente degli interessi di parte, che poi all’interno del Parlamento saranno ricomposti attraverso un conflitto democratico di idee. Essi rappresentano il popolo unito.

La contraddizione in questa visione è, se vogliamo, ironica. La loro impostazione politica è più che mai battagliera e la loro vis polemica è più accentuata durante i dibattiti parlamentari o nei talk-show. Cercano lo scontro quindi, ma propagandano una società a-conflittuale e quindi una democrazia non pluralista. Perché il pluralismo presuppone differenti interessi che devono essere rappresentati all’interno delle istituzioni preposte: per i partiti populisti – ed in particolare per i populismi di estrema destra – chi è portatore di interessi differenti non è parte del “noi”, della comunità e quindi non è legittimato ad essere presente all’interno del parlamento.

Populismo a 5 Stelle?

Se il populismo nell’estrema destra è un fenomeno consolidato, il Movimento 5 Stelle (M5S) è un fenomeno recente nel panorama politico europeo, ma non è un fenomeno “nuovo”. Altri partiti, pur con esiti dissimili, hanno seguito la traiettoria del movimento fondato da Beppe Grillo: uno su tutti in Italia è il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Il M5S può rientrare nella definizione minima proposta da Mudde e con altri partiti populisti condivide molte delle caratteristiche presenti nei partiti populisti, tra cui una leadership forte e tendenzialmente accentratrice, al di là della retorica del “megafono” amplificatore delle istanze del Movimento, avanzata dagli attivisti per giustificare l’onnipresenza del leader durante le campagne elettorali (amministrative e politiche). Difficile in ogni caso arrivare ad una definizione univoca del fenomeno 5 Stelle. Uno degli studi più esaustivi l’ha definito “web-populismo”4, per il legame tra Movimento e il mondo del Web. Personalmente, non trovo la definizione esauriente perché spiega solo parzialmente del fenomeno. Se si trattasse solo di web-populismo, allora avremmo un movimento/partito centrato sulla libertà della rete e scarsamente (o solo parzialmente) interessato agli altri temi politici, come è accaduto per il Piratpartiet svedese, la sua costola tedesca, il Piratenpartei e il movimento fondato da Assange in Australia.

Ciò che contraddistingue il M5S rispetto ad altri partiti populisti di estrema destra, da un lato eminentemente politico, è la distanza dalle tematiche più care a partiti di ispirazione neofascista, quale ad esempio la lotta all’immigrazione clandestina (impossibile, in questo senso immaginare in questi partiti, la linea del leader sconfessata sul reato di clandestinità, come accaduto per Grillo, per esempio). Accanto a ciò si registra una predominanza della tematica ambientalista nel M5S, che fa pensare più ad un collegamento del Movimento con l’onda ambientalista degli anni ottanta (non a caso, alcuni studiosi hanno parlato di populismo verde). Su di un altro fronte, quello della strutturazione interna del Movimento, invece, si nota un modello di partecipazione differente che si gioca sul piani “reale” (MeetUp) e “virtuale” (le votazioni in Rete): entrambi ricoprono un’importanza centrale nella vita del M5S, nonostante entrambi debbano porsi in un rapporto di dialettica asimmetrica con la leadership del movimento. Se è vero che il discorso grillino fonda le sue radici nei movimenti leaderless (senza leader), dove l’insistenza è nell’ “uno conta uno” e nella democrazia diretta, è altrettanto indubitabile che Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio detengano un potere significativo. Un esempio su tutti: il marchio “5 Stelle” è registrato e in possesso dei due; ciò significa che in caso di rottura o di messa in stato di minoranza di Grillo/Casaleggio su temi rilevanti, la leadership è libera di mantenere il simbolo e non permettere alla maggioranza di utilizzare il simbolo. Un vantaggio non da poco.

Ed è su questo punto, sulla strutturazione, che è possibile rintracciare un aggettivo qualificante del Movimento 5 Stelle, vale a dire un “populismo 2.0”, capace di mescolare un approccio top-down a un approccio bottom-up. Il Movimento difatti intende combinare la sempre crescente domanda di partecipazione attraverso il ricorso agli strumenti del web, senza richiedere un vincolo “stretto” come quello di un tesseramento “vecchio-stile”, con un accentramento decisionale che sembra non sfuggire alla legge ferrea dell’oligarchia teorizzata da Michels5. Al di là che vi riesca o meno, questo intento appare innovativo non solo per il caso italiano; poiché si supera la dicotomia reale-virtuale per tentarne una sintesi che allarghi il bacino elettorale, altrimenti confinato a settori non maggioritari della popolazione. Non è un caso che tanto la santificazione del web, quanto la demonizzazione dello strumento “berlusconiano” par excellence, la televisione, siano state mitigate da un lato dalla presenza degli eletti nei programmi mainstream – presenza fino a poco tempo fa impensabile se proprio per questo fatto una consigliera di Bologna Federica Salsi fu allontanata dal Movimento – e dall’altro dalla dichiarazione tra l’ironico e il critico di Beppe Grillo, avvenuta durante un intervista a La7, sul progetto di costruzione di una piattaforma programmatica e politica attraverso il liquid feedback tentato dai Pirati tedeschi. Tra il web e la realtà si esplicita sia la comunicazione politica che la piattaforma programmatica dei 5 Stelle: uno scambio tra base e leadership che si divide tra un’asimmetria di fondo, seppur in forme minori rispetto ad altri partiti populisti, e la volontà di apparire radicalmente innovativo nelle forme di partecipazione.

Di converso, altri tratti identificano il Movimento, quale epitome del populismo italiano, dopo il declino in termini di consensi della Lega Nord. L’insistenza sulla democrazia diretta attraverso lo strumento del Referendum, la volontà di rappresentare i “giusti” contro i “corrotti”, la necessità di apparire omogenei e “senza correnti” – di qui la richiesta di Grillo di introdurre il vincolo di mandato per i Parlamentari eletti, la divisione manichea tra i Parlamentari che lavorano e rendicontano ai cittadini e “gli altri” (il “voi”, riferito agli altri partiti, che spesso viene invocato nell’emiciclo di Montecitorio), adusi alla trattativa oscura, nelle segrete stanze dei bottoni e l’enfasi sulla “cleptocrazia partitica” quale virus da estirpare sono tutte caratteristiche che contraddistinguono il populismo a 5 Stelle. Rispetto a partiti di estrema destra, i tratti populistici del M5S non sono semplicemente complementari ad una ideologia più strutturata: al contrario, permeano il discorso politico, fondato sul “non siamo né di destra né di sinistra, siamo oltre”. A mio avviso, se il Movimento si istituzionalizzerà come ha fatto la Lega, giungerà a collocarsi politicamente, pur non ammettendolo, nell’asse sinistra-destra per lo meno nella percezione degli elettori, che per ora sono in maggioranza provenienti dal centro-sinistra e che sono già mobilitati all’interno dell’arena politica.6 Per ora, questa collocazione risulta difficile.

Sarebbe però un errore, limitarsi a classificare come “populista” il M5S e denigrarlo per tale caratteristica. Questo perché la domanda rispetto ad una “pulizia” all’interno del Parlamento è cresciuta esponenzialmente in un decennio contraddistinto da scandali, episodi di corruzione e malcostume generalizzato e soprattutto di sottovalutazione della mobilitazione dei simpatizzanti grillini negli anni precedenti ai successi elettorali. Da questo punto di vista, l’assist fornito dalla politica nel aver ignorato e quindi nemmeno discusso nelle sedi opportune le proposte di legge popolare depositate da Grillo è stato gigantesco ed ha rinsaldato nelle proprie convinzioni di “non-riformabilità” del sistema partitico sia il comico genovese che un elettorato sempre più scettico nei confronti dei partiti. Da corollario a questo scenario ha fatto l’odierna situazione dei partiti “storici”, i quali si trovano nella paradossale situazione, descritta puntualmente da Ignazi7, di aver acquistato una forza senza pari nei sistemi politici occidentali e di godere di una scarsissima fiducia all’interno dell’elettorato. Su questo “vicolo cieco” in Italia si è innestato il fenomeno del M5S, che fa proprio della “debolezza” la sua forza. Una debolezza in termini economici con la rinuncia ai finanziamenti pubblici ai partiti – una issue che ha influenzato enormemente l’agenda setting del Governo, costretto a varare una riforma di dubbia utilità; una debolezza in termini di rinuncia alla “spartizione”, così viene definita dal M5S, delle cariche di nomina politica; una debolezza, infine, come non-strutturazione del proprio apparato burocratico. Non casualmente, le regole della partecipazione al Movimento sono raccolte in un “Non-Statuto”. Infine, se la tendenza di tutti i partiti, anche quello Democratico, è di trasformarsi in un “partito degli eletti”, il Movimento 5 Stelle sembra volersi opporre a tale destino. Con quali esiti è difficile prevederlo.

Qui ritorniamo alla frase iniziale: sarebbe un errore analizzare il populismo sulla base di preconcetti morali. Non solo perché impedisce di caratterizzare il fenomeno, ma soprattutto perché impedisce ai partiti “storici” di effettuare una disamina sulla loro evoluzione negli ultimi vent’anni. I partiti rimangono e rimarranno il cardine della democrazia rappresentativa in Europa, come altrove. Ciò, tuttavia, non significa che siano inesorabilmente destinati a rimanere “tali e quali” nell’arena politica. Capire il perché oggi i partiti, oltre a perdere costantemente iscritti, godono di una credibilità minima, permetterebbe di comprendere l’emersione della “domanda” di populismo nel panorama europeo. Non solo, garantirebbe un rinnovo della forma partito attuale. Più che mai necessaria, più che mai irrinunciabile.

1 Mudde C. e Kaltwasser C.R., (2013), Exclusionary vs. Inclusionary Populism: Comparing Contemporary Europe and Latin America, Government and Opposition, n.48, pp 147-174.

2 Mudde C., (2004), The Populist Zeitgeist, Government and Opposition, n. 39(4), pp. 541–63.

3 Mudde C., (2010) , The Populist Radical Right: A Pathological Normalcy, West European Politics, n.33(6), pp. 1167 — 1186.

4 Corbetta P. e Gualmini E. (a cura di), (2013), Il Partito di Grillo, Bologna, Il Mulino.

5 Michels R., (1966), La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna, il Mulino.

6 Colloca P. e Marangoni F., (2013), Lo shock elettorale, in Corbetta P. e Gualmini E. (a cura di), Il Partito di Grillo, Bologna, Il Mulino

7 Ignazi P., (2013), Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Bari, Laterza, Collana: anticorpi.

 

Scritto da
Davide Vittori

Davide Vittori è post-doc fellow presso la LUISS-Guido Carli. Ha pubblicato di recente per LUISS University Press “Il valore di uno. Il Movimento 5 Stelle e l’esperimento della democrazia diretta”. È stato visiting PhD presso lo European University Institute e visiting student presso la University of Nijmegen e la Johns Hopkins University. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’analisi delle organizzazioni partitiche al comportamento elettorale e i sistemi partitici europei. Ha pubblicato contributi per «Rivista Italiana di Scienza Politica», «Comparative European Politics», «Swiss Political Science Review» e altre riviste. È co-curatore di una special issue su Digital Activism e Digital Democracy per «International Journal of Communication». Ha collaborato alla stesura di alcuni degli ultimi rapporti CISE.

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